Archivi del mese: Febbraio 2011

Fiamme nell’area gialla del CIE di Torino

Lunedì 28 febbraio. Un incendio è divampato questa sera nell’area gialla del CIE di Torino. In quest’area sono concentrati parecchi immigrati sbarcati a Lampedusa dalla Tunisia.
Gran via vai di vigili del fuoco e auto della polizia intorno alla struttura di corso Brunelleschi.
Il vento di rivolta che attraversa le prigioni per immigrati diventa sempre più forte.
Seguiranno aggiornamenti.
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Torino. Occupata “obiettivo lavoro”. Domani corteo migrante

Torino, lunedì 28 febbraio. In mattinata una trentina di antirazzisti hanno simbolicamente occupato per circa un’ora l’agenzia interinale “Obiettivo lavoro” di via Milano. Obiettivo lavoro fa intermediazione di colf e badanti per conto del Comune di Torino. Fuori, ben prima dell’apertura c’è una lunga fila di lavoratrici in attesa. Oggi è giorno di paga. La maggior parte sono straniere, ma non mancano le italiane. La povertà è senza frontiere.
In strada, davanti all’ingresso viene aperto lo striscione “Primo Marzo corteo antirazzista”, nell’agenzia echeggiano i ritmi della Samba Band.
I caporali dell’agenzia si dividono i ruoli: c’è quello buono e dialogante e quella irosa che inveisce. Le donne che entrano prendono i volantini, poche vanno via veloci, altre si fermano e chiedono, qualcuna ammicca complice.
Un’antirazzista spiega le ragioni dell’azione, ricorda il ricatto cui sono sottoposti i lavoratori e le lavoratici immigrate, l’indecenza del caporalato legale, che agisce in guanti bianchi ma fa girare veloce l’ingranaggio dello sfruttamento all’osso di colf e badanti.
Il caporale buono prova a interloquire, proclama la propria onestà, difende il proprio ruolo. Viene freddato da una lavoratrice che uscendo ci sussurra “gli chieda come mai loro intascano 11 euro l’ora e noi ne prendiamo cinque”. Quel sussurro, amplificato dagli antirazzisti, mette nell’angolo il caporale buono.

Riprende la samba con slogan e tamburi. Nel frattempo è arrivata la digos che si affanna a chiamare rinforzi. Quando arrivano i gipponi dell’antisommossa gli antirazzisti sono già nel cuore del mercato di Porta Palazzo, dove suonano, volantinano, fanno comizi volanti.
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CIE di Gradisca. Demolito, stanza dopo stanza

Gradisca, domenica 27 febbraio.
“A quasi cinque anni dall’apertura, passati tra continue rivolte, atti di autolesionismo e violente repressioni, il CIE di Gradisca d’Isonzo è stato distrutto dai suoi stessi reclusi molti dei quali provengono dalle rivolte nordafricane.”

Questo l’incipit del comunicato dei compagni del Coordinamento Libertario Isontino. Ed è anche l’epilogo di una vicenda cominciata il 7 marzo del 2006, quando tra scontri, botte e lacrimogeni, venne fatto entrare a forza il primo “ospite” della ex caserma Polonio.
Negli ultimi tre giorni i reclusi hanno dato alle fiamme la loro prigione, demolendola, stanza dopo stanza. Nel pomeriggio di oggi sono andate a fuoco altre sei camere. Per i 105 “ospiti” restano solo 8 letti: gli altri sono ammassati senza nulla nelle aree comuni.
Un’altra bella manciata di sabbia è stata lanciata nel motore della macchina delle espulsioni.
Giornata di informazione e lotta il 12 marzo al CIE di Gradisca.
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Vincennes. Incendi, botte e sciopero della fame

Venerdì 25 febbraio. Nel Centro di detenzione amministrativa – CRA – di Vincennes gli immigrati sono in sciopero della fame da quattro giorni. Sono in lotta contro le espulsioni e le condizioni di vita. Il comandante della struttura “il baffo” ha cercato di calmare gli scioperanti, rispondendo ad un recluso che chiedeva di poter esporre le proprie ragioni ai giornalisti “tieni la bocca chiusa!
Intorno alle 19 c’è stato un principio d’incendio in una camera della prima sezione e poi anche nella seconda sezione. L’intera struttura resta al buio mentre gli elicotteri sorvolano il Centro.
Impossibile mettersi in contatto con la prima sezione: il telefono risulta irraggiungibile.
Un prigioniero, immobilizzato con un tonfa alla gola, è stato pestato e poi gettato con violenza a terra da poliziotti incappucciati. Non risulta sia stato portato all’ospedale.

Sabato 26 febbraio. Un prigioniero detta al telefono il comunicato redatto dagli immigrati di Vincennes.
“Noi, algerini, tunisini, egiziani, libici, marocchini, e di tutti gli altri paesi, continuiamo lo sciopero della fame cominciato quattro giorni fa nel centro di detenzione di Vincennes. Uno sciopero della fame sino alla morte.
Tra di noi ci sono persone che sono in Francia, “integrate” da 15 o 20 anni, tutta la loro famiglia è in Francia e ora la Francia li espelle.
Noi chiediamo la cessazione delle espulsioni verso quei paesi, dove governanti dittatori e corrotti ci hanno obbligato ad emigrare per poter sopravvivere.
Per alcuni di noi l’espulsione comporterebbe prigione e tortura.
Non ne possiamo più di molestie e controlli di polizia, chiediamo quello che oggi ci viene negato, una carta di soggiorno che ci permetta di vivere dignitosamente.
Le rivolte nei nostri paesi non impediscono ai consolati qui in Francia di firmare per la nostra espulsione. Ogni giorno sono programmati voli per le deportazioni.
In questa prigione veniamo maltrattati e, come è capitato la scorsa notte, pestati da agenti con il volto coperto. Qui non c’è più riscaldamento né acqua calda.
Chiediamo la protezione della Francia, aiuto e solidarietà, chiediamo la cessazione immediata della deportazioni verso i paesi del Nordafrica.

Noi continueremo lo sciopero della fame e ci opporremo ad ogni tentativo di deportazione, sia via mare che in aereo.
Vincennes, sabato 26 febbraio, ore 10.”
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Il mitra, la Lega e la sinistra

Inutile cercare di controllarlo o renderlo presentabile, il razzismo prima o poi salta fuori quando è parte essenziale della propria identità, magari in un compiacente studio televisivo di un’emittente locale, come quello di Rete Veneta.
È successo la scorsa settimana all’assessore regionale ai flussi migratori, il leghista Daniele Stival, che alla domanda su come limitare l’ondata di profughi provenienti dal Nord Africa in fiamme ha risposto che è possibile: “ci riescono pure in Grecia, Spagna e Croazia, dovremmo riuscire anche noi usando il mitra”.
Anche Casini, nel 1999, e Bossi, nel 2000, avevano delirato sulla necessità di sparare su gommoni, scafisti, clandestini, ma l’ultima (solo in ordine di tempo) sortita dell’assessore ai flussi migratori della Regione del Veneto merita qualche riflessione in più, in quanto si colloca in una fase alquanto delicata per il leghismo attraversato dalle contraddizioni esistenti tra i vertici governativi del partito e una base che sempre meno comprende la sudditanza verso Berlusconi.
Così, mentre gli “inferiori” popoli magrebini insorgono e spodestano regimi, il rude “popolo padano” deve accontentarsi di un simulacro di federalismo, ingoiando tutto quello che gli passa il padrone.
Da sempre, nei momenti critici per la sua linea politica, la Lega Nord sposta l’attenzione del proprio elettorato sulle questioni dell’immigrazione e della sicurezza, indicando e indirizzando verso i “nemici esterni” sia i problemi sociali connessi alla situazione economica che le tensioni interne al partito. Esemplare, per cinismo, il commento di Bossi secondo il quale “Il rischio immigrazione aiuta Berlusconi e anche noi”.

Esiste, anche a sinistra, un filone interpretativo della nascita e dello sviluppo del leghismo che ritiene marginale il ruolo dell’intolleranza, inizialmente soprattutto contro i “meridionali”, declinata successivamente in vera e propria xenofobia e malcelato razzismo contro i disperati di turno (albanesi, africani, cinesi, rumeni, rom, sinti…); eppure, proprio questo aspetto risulta centrale e persistente nella costruzione dell’identità padana, ben più delle varie opzioni secessioniste, autonomiste, federaliste tanto che oggi nessuno ricorda tutta la propaganda attorno alla cosiddetta devolution.
Evidentemente, riconoscere questo DNA razzista significherebbe rendere impraticabile e disgustoso ogni compromesso politico tra la Lega Nord e i partiti del centro-sinistra che invece – vedi gli ultimi ammiccamenti di Bersani sul federalismo – da tempo corteggiano e inseguono il partito di Bossi, ritenendolo un mezzo giustificato dal fine di uscire dall’incubo berlusconiano.
Eppure proprio la Lega è stata in questi anni il miglior alleato prima di Forza Italia ed ora del PdL, non solo in termini di sostegno governativo e aperta complicità, ma soprattutto nell’inventare, amplificare, trasmettere quella paura sociale fondamentale per la costruzione dell’odio verso gli invasori senzapatria e, conseguentemente, per la delega del potere all’uomo forte che difende e tutela la comunità dai nemici, per l’appunto, extracomunitari.
Fomentare l’egoismo nazionalpopolare e attivare l’odio verso gli stranieri diventa in questo modo il mezzo più semplice per produrre un’identità collettiva, immaginaria quanto interclassista, basata sulla psicosi dell’assedio contro le orde barbariche che insidiano il benessere, la sicurezza e le tradizioni dei padani, degli italiani, della civiltà europea o persino dell’Occidente cristiano.
E, dentro questo film, pure le donne vengono ridotte al ruolo di utili comparse, quando si può soffiare sul fuoco dello stupro “etnico” oppure per osteggiare le “innaturali” unioni miste, ricalcando le teorie neonaziste contro il “meticciato”.
Parallelamente, la destra ha continuato ad evocare – secondo lo schema adottato dal fascismo durante la guerra – il pericolo rappresentato dai “comunisti” ossia il nemico interno che tradisce la patria, aprendo le porte all’invasione straniera, col recondito scopo di sovvertire l’ordine e stravolgere i valori della “nostra” società.
Attorno a queste allucinazioni, è allarmante constatare il consolidamento di un blocco sociale-culturale d’impronta fascista destinato a sopravvivere anche alla caduta del berlusconismo, in quanto la logica legalitaria, lo stereotipo razziale e l’avversione verso ogni diversità ormai pervadono anche settori che per cultura egualitaria, coscienza di classe o appartenenza politica, dovrebbero riconoscere e rigettare la discriminazione comunque mascherata.
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CIE. Sommossa a Gradisca, labbra cucite a Bologna

Giovedì 14 febbraio. Questa mattina i reclusi del CIE hanno dato fuoco ai materassi, danneggiando gravemente quattro stanze della zona blu del CIE. A dieci giorni dall’ultima protesta il Centro torna ad infiammarsi: fanno da detonatore le condizioni di vita sempre più dure, la mancanza di coperte, il cibo scadente, la voglia di libertà che alita sempre forte tra le gabbie dei senza carte.

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Un CIE a Venezia? Tra avidità e ipocrisia

Secondo quanto assicurato dal ministro Maroni la tante volte annunciata apertura di un CIE in Veneto doveva essere avviata entro la fine dell’anno scorso; ma a tutt’oggi, per fortuna, resta ancora tra i desiderata del razzismo istituzionale.
Da molti anni, almeno dal 2000 durante il governo D’Alema, era stata ventilata la costruzione di un Cpt in regione e da allora non si contano le ipotesi di locazione riguardanti tutte le province venete che sono saltate fuori, prendendo via via in considerazione ex-strutture militari, una struttura manicomiale, capannoni industriali, isole lagunari, caserme alpine, etc.; ma puntualmente, oltre alle manifeste opposizioni degli antirazzisti, tale progetto ha dovuto fare i conti con la contrarietà delle amministrazioni locali, indipendentemente dalla loro collocazione politica, comprese quelle leghiste sempre pronte ad aizzare la persecuzione degli immigrati “clandestini” ma non disposte ad ospitare un lager vicino a casa loro.
L’ultima “trovata” ventilata sui giornali riguarda l’area di Campalto, una frazione veneziana, come possibile luogo per il Cie. Tale area di quasi 20 ettari è un deposito militare dismesso, situato in via Orlanda, che secondo il piano-carceri del ministero della giustizia doveva essere ristrutturato come galera per 450 detenuti.
Questo sito, indicato con solerzia nel dicembre scorso dal sindaco di Venezia Orsoni (di centro-sinistra), nei perversi disegni del ministero dell’interno dovrebbe vedere anche l’abbinamento di un Cie con 300 posti per i “clandestini”.

Il comune di Venezia ha approvato a larghissima maggioranza (con la furbetta astensione leghista) una mozione (presentata dal consigliere verde-disobbediente Caccia assieme al capogruppo del Pd Borghello) di rigetto del Cie a Campalto. Persino il governatore della regione, il leghista Zaia, è stato costretto ad un slalom di prese di posizione.
Analoga contrarietà era stata espressa dai sindacati di polizia (Sap, Coisp, Siulp…) per le note carenze d’organico, nonché dall’associazionismo democratico, dall’area disobbediente e dalla Caritas, per bocca del suo noto direttore, monsignor Pistolato, tutti pronti a formare comitati unitari.
Peccato che la Caritas sia la stessa associazione che ha cogestito come “ente terzo” il CIE di via Corelli a Milano e che monsignor Pistolato sia lo stesso che nel 2008 sollecitò e appoggiò l’ordinanza del comune di Venezia contro i mendicanti, soprattutto rom e sinti. Ed è pure lo stesso che, appena un mese fa, si era dichiarato contrario ai 10-12mila lavoratori immigrati previsti per Veneto dall’ultimo decreto flussi, ritenendoli come possibile causa di conflitti etnici. Come se qualcuno – davvero – non sapesse che quei diecimila lavoratori sono già qui e lavorano in nero. Come se qualcuno potesse far finta di ignorare che il decreto flussi è solo una sanatoria mascherata, decisa dal governo dopo il bollente autunno degli immigrati truffati dalla sanatoria colf e badanti.
Non è forse che la contrarietà della Caritas diocesana nasconde altre preoccupazioni?
Il dubbio è legittimo, dato la Caritas sembra aver soltanto adesso scoperto che “il Cie, come strutturato, si colloca al di fuori dello spirito e della lettera della Carta Costituzionale (cfr. art. 3 comma 1), per la forma di eccessiva coercizione che viene esercitata nei confronti di persone e questo senza alcuna distinzione”, dopo aver beninteso riconosciuto “il diritto-dovere da parte delle istituzioni statuali di identificare in modo adeguato le persone presenti nel territorio nazionale”.
La Caritas è più che disponibile ad impegnarsi nella – lucrosissima – gestione dei CIE, purché si cambi “modello”. Un pizzico di umanità in più e sono disposti ad imbarcarsi anche loro.
Nel suo comunicato la Caritas propone “di aprire un tavolo di confronto tra i diversi soggetti istituzionali, del privato sociale ed ecclesiali che operano nell’ambito dell’immigrazione per poter individuare dei percorsi condivisi.
Le Caritas con Migrantes, su un modello diverso, potranno partecipare in questi Centri di Identificazione attraverso l’animazione, proponendo delle attività culturali o ricreative, avere la presenza di mediatori culturali e attivare segni di prossimità con le comunità adiacenti ai centri”.
Della serie: business is business.
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Bari e Torino. Bloccati immigrati che provano a fuggire dal CIE

Due reclusi hanno provato a scappare dal CIE di Bari Palese: secondo il Giornale di Puglia sarebbero stati arrestati in seguito ad un colluttazione con gli agenti di guardia.

A Torino, nel Centro di corso Brunelleschi, un ragazzo si è tagliato i polsi: mentre veniva condotto fuori, altri due hanno provato a scavalcare la recinzione. Uno c’è riuscito ma è stato subito ripreso e malmenato dalla polizia.
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Profughi, galere, affari

Il tempo è galantuomo e, prima o poi, il conto lo si paga sempre. Oggi l’Europa si trova a fronteggiare un brusco aumento dei flussi migratori dai paesi del Nordafrica, ovvero quei paesi incendiati nelle ultime settimane da rivolte popolari inedite, contro il caro-vita, per la libertà, contro l’autoritarismo di regimi pluridecennali foraggiati proprio dalle classi dirigenti occidentali.
Tunisia ed Egitto, su tutti. Ma anche Algeria, Yemen, Bahrein, Libia. Popoli incredibilmente giovani rispetto alle medie anagrafiche di un’Europa vecchia e malconcia, e altrettanto affamati di futuro. Dopo la caduta di Ben Alì in Tunisia e di Mubarak in Egitto, a tremare sono gli altri dittatori del Maghreb. Anche il colonnello Gheddafi, una vecchia conoscenza del governo italiano, comincia a sudare freddo e reagisce con la ferocia che lo contraddistingue.
Sono più di 5.000 gli immigrati, per lo più tunisini, approdati in Sicilia e nelle sue isole minori come Lampedusa e Pantelleria. Un esodo massiccio e abbastanza prevedibile dopo le rivolte dei giorni scorsi. In particolare, la situazione politica e sociale in Tunisia è in continuo mutamento: i sostenitori di Ben Alì non mollano ed è palpabile la sensazione che possano innescarsi meccanismi da guerra civile se la transizione non riuscirà a fare piazza pulita dei residui del vecchio regime. La gente comune è spaventata, e tenta il tutto per tutto. L’Italia rappresenta, oggi più di ieri, il primo passo per spiccare il volo verso il futuro in Europa. Come al solito, la risposta del governo italiano è in linea con la miseria dei suoi esponenti.
Il ministro dell’Interno Roberto Maroni parla di emergenza umanitaria, ma i dispositivi che si stanno predisponendo – con l’immarcescibile Protezione civile – fanno pensare a una gestione da internamento di massa davvero inquietante. Maroni parte dal presupposto che le migliaia di immigrati che stanno arrivando in Italia sono tutti “clandestini” e, in quanto tali, vanno trattati alla stregua dei criminali. Pertanto, il governo sta procedendo alla individuazione di strutture per la “accoglienza” di queste persone purché queste strutture siano controllabili, fuori dai centri abitati e impermeabili a tentativi di evasione.
Un concetto di accoglienza, quello di Maroni, che conosciamo benissimo. Per far fronte all’emergenza, è stato riaperto il Centro d’Identificazione ed Espulsione di Lampedusa. Poi sarà riaperto il CIE di Caltanissetta con annesso Centro per richiedenti asilo, una struttura che era stata praticamente messa fuori uso un anno e mezzo fa da una durissima rivolta di immigrati. Anche Trapani viene mobilitata con il suo piccolo, ma famigerato, lager – il CIE “Serraino Vulpitta” – con il più capiente centro per rifugiati di contrada Salinagrande, e con molte altre strutture sparse in provincia e saldamente controllate dalla Caritas.
Nel resto della Sicilia, saranno utilizzati conventi, strutture ecclesiastiche, alberghi in disuso. A Palermo si prevede l’impiego dell’area in cui sorgeva la Fiera del Mediterraneo: capannoni e edifici che un tempo ospitavano la famosa (e fallimentare) fiera campionaria, potrebbero contenere 200 persone. Ma è nella Sicilia orientale che il governo ha davvero superato se stesso. A parte l’ipotesi agghiacciante di allestire delle tendopoli nel ragusano e nel siracusano, in provincia di Catania il governo vorrebbe impiegare il Villaggio degli aranci, un complesso residenziale che ospitava i militari di stanza nella base Usa di Sigonella. Settemila posti in un’area rigorosamente militarizzata e facilmente controllabile. Settemila posti per altrettanti richiedenti asilo che vivono in tutta Italia e che verrebbero convogliati a Mineo, nella piana di Catania, sradicati dai territori in cui – a grande fatica – stanno rifacendosi una vita. Un’ipotesi davvero allucinante ma che rappresenterebbe un’occasione ghiotta per il proprietario del residence, l’azienda parmigiana Pizzarotti, che proprio non sapeva come fare per utilizzare quelle 404 villette dopo il rifiuto del governo Usa a rinnovare il canone d’affitto. Adesso pagherà il governo italiano, sicuramente con i soldi che Maroni ha chiesto, pestando i piedi, all’Unione europea.
Insomma, con l’aumento degli sbarchi aumentano anche le occasioni di profitto per chi lucra su un modello di gestione dei flussi migratori che non ha niente a che fare con l’accoglienza. Dopo aver investito tutto sulla repressione e sulla criminalizzazione dei migranti e del loro status di clandestini, il governo italiano deve fare i conti con migliaia di persone che avrebbero tutto il diritto di chiedere il permesso di soggiorno per motivi umanitari alla luce delle condizioni sociali e politiche in cui versano i loro paesi di origine. Per loro, il trattenimento nei Centri di Identificazione ed Espulsione, e il successivo rimpatrio, sarebbero un abuso giuridico ancora più intollerabile, così come l’internamento coatto in qualunque altra struttura circondata e guardata a vista da poliziotti, preti e militari.
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Palermo. Noureddine che si è dato fuoco

Noureddine Adnane ha 27 anni ed è nato in Marocco. Vive in Italia dal 2002 e si guadagna da vivere facendo l’ambulante. Lo conoscono tutti nel quartiere, e tutti gli vogliono bene, al punto che i palermitani lo chiamano “Franco”. Noureddine riesce a portare a casa una ventina di euro al giorno. Mette i soldi da parte, con ostinazione e speranza, perché vuol far venire in Italia sua moglie e la loro bambina di due anni.
Ma a Palermo i venditori ambulanti, specialmente immigrati, devono fare i conti con la polizia municipale: retate nei mercatini, ispezioni, multe, sequestri della merce, intimidazioni. Noureddine non è un abusivo, ma riceve la visita dei vigili urbani per cinque volte in una settimana: davvero troppo per chi deve sbarcare il lunario tra mille difficoltà.
Di fronte all’ennesimo controllo, alla minaccia di sequestro della merce, Noureddine si è sentito solo e in preda al panico, ha preso la benzina, se l’è versata addosso, e s’è dato fuoco. Il vigile urbano che stava redigendo il verbale cerca di coprire le fiamme col giubbotto, mentre gli avventori di un bar tentano di spegnere con l’acqua delle bottiglie quella torcia umana. Il corpo di Noureddine è tutto ustionato, e viene ricoverato d’urgenza all’ospedale Civico dove sta lottando contro la morte.
Questo è il prodotto dell’esasperazione che nasce dalla repressione dilagante nei confronti degli immigrati, dei poveri, dei senza-carte, anche a Palermo.
L’anno scorso le forze dell’ordine si sono scatenate più volte a piazzale Giotto: pistole spianate ed elicottero che volteggiava sul mercatino settimanale. Un incredibile spiegamento di uomini e mezzi per dar la caccia a chi vende cinture o borse a buon mercato. Per non parlare della persecuzione nei confronti dei lavavetri ai semafori, con retate in grande stile contro “pericolosi clandestini” armati di secchio e tergicristallo.
A Palermo è in vigore dall’anno scorso la famigerata ordinanza per il “decoro urbano”, uno dei tanti provvedimenti con cui – in tutta Italia – i sindaci hanno applicato le direttive del pacchetto-sicurezza. La legalità si svela per ciò che è realmente: l’esercizio del potere per schiacciare i più deboli.
Nella Sicilia vessata dal potere mafioso e dal malaffare politico, la “sicurezza” viene garantita perseguitando i soggetti più vulnerabili, come se in questa terra il problema fossero i lavavetri ai semafori o gli ambulanti che vendono la roba sui marciapiedi.
Noureddine voleva solo lavorare in pace e il suo gesto è un urlo assordante contro l’ingiustizia e la criminalità del potere.
Sabato 19 febbraio. Noureddine non ce l’ha fatta: è spirato questa mattina. Continua a leggere

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CIE: rivolta a Gradisca, sciopero della fame a Torino

Dopo un periodo di relativa calma la rabbia degli immigrati torna a esplodere nella struttura gradiscana.
Non sappiamo quando sia iniziata la rivolta.
Un’attivista antirazzista che passava di lì riferisce che intorno alle 20 al di là delle mura si vedeva un gran fumo. Poi sono arrivati i vigili del fuoco e un’ambulanza.
L’onda lunga delle proteste che investono da giorni numerosi CIE, da Bari a Restinco, da Modena a Torino, è arrivata anche a Gradisca.
Proprio ieri, trasferiti con un volo speciale da Lampedusa, erano arrivati 50 tunisini. Trenta richiedenti asilo sono stati portati al CARA, gli altri sono stati rinchiusi nel CIE.
La situazione potrebbe diventare ancora più incandescente, perchè le migliaia di tunisini approdati in pochi giorni in Italia potrebbero essere l’avanguardia di un esodo molto più ampio.
Al CIE di Torino gli immigrati sono in sciopero della fame da sabato sera. La maggior parte di loro viene dalla Tunisia. Sono preoccupati per le famiglie, non riescono a mettersi in contatto e temono per la loro sorte. Tutti sentono il vento di libertà che viene dal nordafrica.
La sezione delle donne è stata svuotata per far posto agli immigrati approdati a Lampedusa.
Domenica notte un gruppetto di antirazzisti ha fatto un veloce saluto ai reclusi: petardi, battitura di ferri, slogan. Da dentro si è levato un gran fragore.
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Torino. La libertà in gabbia

Lunedì 14 febbraio entra nel vivo il processo contro due anarchici. L’accusa? Diffamazione e minacce nei confronti di Borghezio, europarlamentare della Lega e, per inciso, noto razzista e fascista non pentito. I fatti? Alla vigilia del 25 aprile del 2009 … Continua a leggere

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Quando muoiono i bambini

Roma, 6 febbraio. Quattro bambini bruciano vivi in una baracca ai margini del nulla metropolitano.
Siamo a Tor Fiscale. Assi, plastica, poche povere cose. Basta una scintilla, un braciere acceso per tenere lontano l’inverno, e il fuoco si mangia tutto.
Il resto è copione già visto. La disperazione dei parenti, l’indignazione del sindaco post fascista della capitale, che strilla che servono poteri speciali per fare campi sicuri, che si infuria contro la burocrazia. Un alibi traballante ma poco importa. In fondo sono solo zingari. La mattina dopo arrivano le ruspe e tirano giù tutte la baracche. L’ordine è ripristinato.
Arriva anche la magistratura, che mette sotto inchiesta il padre e le due madri: abbandono di minore. La madre di tre dei bambini e nonna del quarto non crede all’incidente: il braciere erea lontano, le fiamme sono divampate troppo in fretta.
Una vicenda che ne ricorda un’altra di quattro anni fa.
Quattro bambini rom morirono nell’incendio di una baracca di legno sotto ad un cavalcavia, vicino alla raffineria di Stagno, a Livorno, l’11 agosto del 2007. I genitori vennero arrestati con l’accusa di abbandono di minore e di incendio doloso, nonostante avessero detto di essere stati aggrediti. Prosciolti dall’accusa di incendio doloso, patteggiarono e vennero scarcerati perché incensurati. Sulla vicenda calò il silenzio nonostante il rogo fosse stato rivendicato del GAPE – Gruppo Armato di Pulizia Etnica.

Quando ci sono di mezzo i rom viene sfogliato l’intero florilegio di pregiudizi razzisti nei loro confronti. Se i bimbi muoiono è colpa loro, che non ci badano, che vanno in giro a rubare, che li fanno vivere in roulotte e baracche.
Come se qualcuno – davvero – potesse scegliere di vivere di elemosina in una baracca senza nulla.
Esemplari le dichiarazioni razziste di Tiziana Maiolo, di Futuro e libertà, dopo il rogo di Tor Fiscale. Per lei i bambini Rom che fanno pipì sui muri sono meno educati del suo cagnolino.

Nel luglio del 2008 una bambina rom, appena sgomberata da una ex fabbrica abbandonata in via Pisa a Torino, disse “almeno per un po’ ho vissuto in una casa vera”. Una casa con il gabinetto. E porte, finestre, luce… Dopo lo sgombero la riportarono lungo il fiume in una baracca piena di topi.

A Torino, il 14 ottobre del 2008 andò a fuoco un campo rom in via Vistrorio. Tre molotov in punti diversi e l’insediamento sulle rive del torrente Stura dove vivevano 60 persone andò in fumo.
Non andò peggio perché un ragazzo diede l’allarme. I giornali allusero alla possibilità che il campo l’avessero bruciato gli stessi rom, per forzare la mano al comune ed ottenere posto nell’area allestita per l’emergenza freddo. Le prove? Non era morto nessuno!
Qualche mese dopo, la magistratura, dopo decine di aggressioni a immigrati e tossici, mise gli occhi sul gruppo fascista “Barriera Domina”: nei telefonini di alcuni di loro trovarono le scansioni dei giornali che parlavano del rogo di via Vistrorio. Due righe in cronaca e poi l’oblio. Chi ha dato ha dato, chi avuto avuto.
Sulla vicenda il sito Ojak, oggi purtroppo non più attivo, fece una controinchiesta.

Quelli come Alemanno vogliono i campi. Altri vorrebbero cacciare tutti. I più chiudono gli occhi e non guardano, magari si commuovono anche un po’. I bambini fanno sempre tenerezza.

Il rogo di Tor Fiscale, come già quello di Stagno, ha fatto notizia perché i bambini erano quattro, altrimenti sarebbero bastate poche note in cronaca, ordinaria amministrazione.
Un bambino muore di freddo, un altro bruciato, un altro se lo porta via una banale influenza.
Infinito l’elenco dei campi rom andati in fumo. A volte distrutti da bravi cittadini, decisi a fare pulizia. Etnica. Altre volte bruciati dalla povertà che non concede sicurezza.

Resta il fatto che quei quattro bambini sono stati ammazzati. Resta il fatto che ogni giorno, in qualche dove, c’è qualcuno che muore. Muore di povertà.
La povertà non è un destino.
I responsabili siedono sui banchi dei governi e nei consigli di amministrazione delle aziende.
Ma che nessuno si creda assolto, perché l’indifferenza è complicità.
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Pordenone. Gli immigrati prendono la parola

Anche dall’estremo nord-est, in una città di provincia come Pordenone, giungono segnali di ribellione da parte degli immigrati, stanchi delle continue vessazioni e soprusi. Accade così che alla manifestazione indetta dall’Associazione Immigrati, partecipino – oltre ogni più rosea previsione – … Continua a leggere

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Joy. Il prezzo della dignità

Milano 2 febbraio. Vittorio Addesso, l’ispettore di polizia che tentò di violentare Joy, una ragazza nigeriana rinchiusa nel CIE di via Corelli a Milano nell’agosto del 2009, è stato assolto. Lo stesso pubblico ministero ha chiesto al giudice dell’udienza preliminare il proscioglimento dell’imputato.

Facciamo un passo indietro.
Torniamo a quel bollente agosto del 2009, quando il pacchetto sicurezza divenne legge e la reclusione nei CIE passò da due a sei mesi. Nelle gabbie degli immigrati divampò immediata la protesta, con scioperi della fame, episodi di autolesionismo, materassi bruciati, tentativi di fuga.
Per lunghe notti, dalle prigioni dei senza carte si sono levate grida. Grida nel silenzio.
Nel CIE di Milano la protesta è diventata rivolta. 18 uomini e 5 donne sono arrestati.
Le ragazze si chiamano Joy, Hellen, Priscilla, Debby, Florence: alla prima udienza del loro processo – all’apparire in aula dell’ispettore capo di polizia Vittorio Addesso – hanno gridato forte. La loro rabbia andava oltre la paura. Addesso aveva provato a violentare a Joy, convinto che una ragazza in prigione, africana e prostituta non si sarebbe ribellata. Invece la dignità è più forte della violenza dello Stato, più forte del giogo patriarcale.
Il racconto della ragazza la dice lunga su chi, vestendo la divisa, pensa di poter disporre liberamente dei corpi rinchiusi dentro al CIE. Gente senza carte, senza diritti, senza futuro. Durante la rivolta la violenza dei poliziotti si è concentrata su di lei e le ragazze che avevano assistito ai violenti palpeggiamenti di Addesso. A terra, ammanettata, è stata più volte manganellata. Il suo rifiuto le è costato anche un pugno in faccia dall’ispettore-capo in persona.
In settembre le ribelli e i ribelli del CIE sono stati condannati a sei mesi. Uno di loro a dicembre l’ha fatta finita uccidendosi. Sapeva che, per gente come lui, le gabbie non finiscono mai. E la forza che l’aveva sorretto nel deserto, nel mare, nel CIE per migranti, l’ha infine abbandonato.
Le cinque ragazze, finiti i sei mesi, sono state (ri)portate nei CIE.
Joy alla fine di maggio ha ottenuto il permesso in quanto vittima di tratta.
Vittorio Addesso è stato rinviato a giudizio.
Ieri l’assoluzione. Un processo per calunnia attende ora Joy ed Hellen, l’altra ragazza che ha testimoniato contro l’ispettore. Un esito probabilmente scontato.
Il prezzo della dignità è sempre molto alto, per chi nasce dall’altra parte del muro, che separa chi ha troppo e chi nulla. Continua a leggere

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Trapani. Memoria resistente: antirazzisti al CIE

Trapani, 29 gennaio. «Viva li buoni omini come voi!». Questa, insieme a tanti ringraziamenti, è stata una delle frasi pronunciate dai migranti reclusi nel CIE “Serraino Vulpitta” di Trapani durante il pomeriggio di solidarietà che abbiamo organizzato davanti la struttura, sabato 29 gennaio, a due giorni dal Giorno della Memoria, giusto per ricordare che il razzismo di stato, l’internamento e le deportazioni sono tutte cose vergognosamente attuali.
All’interno del CIE la situazione continua a essere quella di sempre. I ragazzi ci hanno informato che molti di loro sono lì dentro da oltre due mesi, per lo più tunisini. A questo proposito, i reclusi hanno apprezzato la nostra solidarietà alla rivolta in Tunisia gridando slogan contro Ben Alì e per la libertà.
E poi tanti cartelli esposti tra le sbarre del CIE: “Non siamo cani, siamo esseri umani”; “Siamo tutti uguali”; “Libertà”.
Noi che stavamo fuori ci siamo uniti ai loro cori, abbiamo ascoltato i loro sfoghi, abbiamo cercato di farli sentire meno soli. Un altro momento di condivisione e solidarietà internazionalista, un nuovo momento di lotta contro le frontiere e le prigioni che mortificano l’umanità.
Coordinamento per la Pace – Trapani
coordinamentoperlapace@yahoo.it
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Contestazione alla gara per l’appalto del Cie di Gradisca

Gorizia, 1 febbraio. L’apertura delle buste per la nuova gara d’appalto per il CIE e il CARA di Gradisca era in programma questa mattina. Non potevano mancare gli antirazzisti.
Nei giorni precedenti erano girate molte voci sui candidati al ruolo di aguzzini, pronti ad incassare 15 milioni di euro in tre anni. Una torta ricca grossa.
C’era chi sosteneva che gli attuali gestori, quelli del consorzio Connecting People, non si sarebbero ripresentati. Ben otto le offerte arrivate in prefettura, compresi quelli di Connecting People, la Cooperativa Minerva, i Cavalieri di Malta e l’associazione culturale Aquarinto di Agrigento.
L’apertura delle buste avrebbe dovuto essere pubblica, ma ogni regola ha la sua eccezione. Dopo il rituale controllo dei documenti, la presidente della Commissione esaminatrice, tale Gloria Allegretto, ha sostenuto che la sala era piccola e potevano starci solo quelli che avevano un interesse soggettivo. Un interesse da 15 milioni di euro. Gli antirazzisti, il cui interesse è invece oggettivo, ossia la libertà di chi ha la colpa di essere povero e senza carte, dovevano stare fuori.
Un’imposizione che non potevano certo accettare: così in quella sala troppo piccola hanno trovato posto cartelli con le immagini ingombranti ed eccessive dei prigionieri del CIE con le bocche cucite con ago e filo. Prima di togliere il disturbo i compagni hanno gridato a gran voce “vergogna!”, “andate a fare un lavoro dignitoso invece di diventare aguzzini”, “tanto gli immigrati ve lo sfasciano di nuovo quel lager”.
Una buona occasione per ribadire che i CIE sono lager, chiunque li gestisca. Continua a leggere

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