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Due giorni di rivolta al CARA di Mineo

Nel CARA di Mineo sono ammassati oltre quattromila richiedenti asilo. La struttura di Mineo non ne potrebbe accogliere più di 2000. Venne aperta nel 2011 durante la guerra per la Libia per fare fronte all’ondata di profughi che approdarono a … Continua a leggere

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Lampedusa. Una devastante normalità

Il cortile di una prigione, i reclusi che si devono spogliare davanti a tutti, irrorati con un tubo di benzoato di benzina. Le immagini trasmesse in prima serata dal TG2 hanno mostrato una realtà che non ha nulla di eccezionale. … Continua a leggere

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Mineo. Blocchi e scontri: la rivolta dei rifugiati

23 ottobre “Ad altezza d’uomo, sparate ad altezza d’uomo”. E’ una voce fuori campo che grida ai poliziotti dell’antisommossa di sparare i candelotti lacrimogeni, mirando al corpo degli uomini in rivolta nella campagna di Mineo. La tensione che stava crescendo … Continua a leggere

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Lampedusa strage di stato

Corpi in eccesso. 359 bare allineate in un hangar per dare una parvenza di dignità alle ultime vittime della frontiera sud della Fortezza Europa. I sacchi neri, che a Lampedusa sono sempre pronti, non potevano reggere la prova della telecamera, … Continua a leggere

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Quando l’emergenza diventa la norma

Sulla “nuova emergenza sbarchi” di queste settimane pubblichiamo l’articolo apparso sul n.24 di Umanità Nova. Da anni, ormai, la stagione estiva in Sicilia è sinonimo di viaggi disperati e tragedie legate all’immigrazione. Quest’anno, a dire il vero, tutto è cominciato … Continua a leggere

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Laura Boldrini e la Cap Anamur

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Mineo. Una discarica per richiedenti asilo

Era la primavera del 2011. Migliaia di tunisini presero la via del mare per cercarsi un’altra vita in Europa. La rivolta che aveva scosso il paese, contagiando quelli vicini, aveva reso meno chiuse le frontiere. Il ministro dell’Interno, il leghista Maroni, affrontò l’ondata di sbarchi da par suo, trasformando Lampedusa in un gigantesco carcere a cielo aperto, nella vana speranza di scaricare la patata bollente agli altri Stati Europei. Quando la situazione divenne incandescente decise di aprire campi-tenda e vecchie caserme per rinchiudere gente che voleva solo proseguire il proprio viaggio.
Finì all’italiana. Quelli arrivati entro il 5 aprile ottennero un permesso di sei mesi, quelli sbarcati dopo erano clandestini.
In questo caos in cui la criminalità del governo era pari solo alla sua cialtroneria i CIE si riempirono all’inverosimile di gente più che disponibile ad animare rivolte su rivolte. L’intero sistema concentrazionario italiano andò in crisi. In questo clima maturò l’affare Mineo.
A Mineo, 35 chilometri dalla base militare di Sigonella, la ditta della famiglia Pizzarotti aveva costruito un residence per le famiglie dei militari statunitensi. Nella primavera del 2011 il residence è vuoto, perché gli americani hanno optato per soluzioni più comode ed economiche.
Pizzarotti si ritrova una patata bollente che non riesce a piazzare in nessun modo, finché un governo amico non decise di togliergli le castagne dal fuoco trasformando il residence in CARA, ossia un centro per richiedenti asilo. Lì vennero deportati richiedenti asilo da ogni angolo di’Italia, interrompendo le pratiche già in atto, spezzando le relazioni con la gente del luogo. In questo modo i CARA si potevano trasformare in CIE e la famiglia Pizzarotti non ci rimetteva un euro.
Due anni dopo il CARA di Mineo è strapieno, luogo di proteste e rivolte da parte di profughi e rifugiati, dimenticati in questa prigione nel deserto. Le pratiche, tutte concentrate a Catania, si sono allungate all’infinito, le risposte tardano, Mineo è diventata una polveriera.

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Trapani. Memoria resistente

Un pomeriggio di solidarietà e di lotta, per non dimenticare.
Mercoledì 28 dicembre, decine di antirazzisti si sono radunati davanti il cancello del Centro di Identificazione ed Espulsione “Serraino Vulpitta” rispondendo all’appello per la manifestazione in ricordo della strage del 1999 e per ribadire la ferma opposizione contro le leggi razziste e l’esistenza dei centri di detenzione per immigrati.
Al “Serraino Vulpitta” ci sono attualmente 38 persone recluse, per lo più tunisini. Alcuni di questi gridavano tutta la loro rabbia per le loro speranze deluse: «Siamo scappati da una dittatura e siamo finiti dietro le sbarre. Stiamo peggio che in carcere. Noi non siamo criminali». Le condizioni sono quelle di sempre. Gli immigrati denunciano non solo la scarsa qualità del cibo, ma anche la mancanza di coperte. Nonostante la chiusura dello spazio centrale del ballatoio che dà sull’esterno, i manifestanti e gli immigrati sono riusciti a comunicare reciprocamente.

A quanto pare, il “Serraino Vulpitta” funziona come un centro di raccolta terminale per chi deve essere rimpatriato a breve. Una struttura che, nonostante la sua tragica storia e la sua fatiscenza, rimane a disposizione delle autorità come valvola di sfogo per alleggerire il nuovo CIE di contrada Milo, più grande e meno gestibile in caso di rivolte e proteste. Gli immigrati hanno annunciato la loro intenzione di intraprendere uno sciopero della fame.
Poi, gli antirazzisti si sono diretti in centro storico per raccontare quello che avevano visto e sentito.
La presenza di alcuni immigrati di origine senegalese, intervenuti durante la manifestazione, ha sollecitato l’interesse della cittadinanza mentre venivano smascherati i meccanismi delle leggi razziste e le menzogne che sono alla base del pregiudizio e dell’ostilità nei confronti degli stranieri.
A Trapani c’è chi non dimentica e non si arrende.
Coordinamento per la Pace – Trapani
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Lampedusa. I semi dell’odio

Giovedì 22 settembre. Dopo aver bruciato la gabbia che li rinchiudeva 1300 immigrati hanno trascorso la notte all’aperto. Mercoledì 21 si sono mossi in corteo gridando “Libertà! Libertà!”. Un gruppo ha preso della bombole del gas minacciando di farsi saltare: alcuni isolani li hanno presi a sassate, i ragazzi hanno risposto. La polizia li ha caricati e pestati selvaggiamente. Un video mostra i poliziotti che picchiano i tunisini obbligandoli a saltare un muro alto tre metri.
Il sindaco De Rubeis che non ha esitato a minacciare violenze definendo “delinquenti” i rivoltosi, ha raccolto i frutti avvelenati della sua propaganda d’odio.
Secondo quanto riferisce il Gazzettino vi sarebbero stati alcuni tentativi di linciaggio da parte di gruppi di lampedusani inferociti. Anche la troupe di Sky e quella della RAI avrebbero subito attacchi da parte di alcuni isolani.
Un tunisino è stato ferito gravemente e trasferito con l’elisoccorso in ospedale a Palermo
Maroni è corso ai ripari iniziando i trasferimenti. Undici immigrati sono stati arrestati e rinchiusi nel carcere di Agrigento con l’accusa di incendio, danneggiamento e resistenza a pubblico ufficiale.

Di seguito la cronaca di mercoledì 21 curata da TAZ laboratorio di comunicazione libertaria

I fatti di Lampedusa suscitano rabbia e amarezza. È successo quello che era prevedibile e che, per certi versi, è stato voluto a tutti i costi.
Più di mille persone concentrate in uno spazio ristretto e senza un motivo comprensibile non possono che perdere la testa. Per la gran parte tunisini, gli immigrati del CPSA di Lampedusa sono destinati a essere rimpatriati. Ma negli ultimi giorni, il consolato tunisino ha tirato il freno a causa del raggiungimento del tetto massimo di trasferimenti. I tempi lunghi della detenzione e la stessa prospettiva di essere rispediti in un paese oggettivamente insicuro per via della transizione politica del dopo-Ben Alì, hanno acceso la miccia dell’esasperazione. Martedì 20 settembre gli immigrati prigionieri a Lampedusa hanno dato fuoco al centro di “accoglienza” distruggendolo completamente. Dopo di che, si sono riversati in paese cercando in qualche modo di manifestare il loro dissenso per una condizione che è davvero inaccettabile. Così come è inaccettabile l’ipocrisia di tutto questo sistema che faceva dire al ministro della difesa La Russa, solo pochi giorni fa, che a Lampedusa tutto va bene e che gli immigrati non hanno niente di cui lamentarsi. Poi, come succede in tutti i campi di internamento per stranieri, una volta finita la visita ufficiale di questa o quell’autorità, i pasti serviti tornano a essere la solita schifezza, e le false premure di sbirri e inservienti ridiventano insulti e botte.
A Lampedusa è successo quello che non doveva succedere: scontri tra immigrati e popolazione locale. Forse è il primo caso eclatante di scontri razziali in Italia. Pare che alcuni tunisini prima abbiano fatto irruzione in un ristorante della zona del porto per poi minacciare di far saltare in aria delle bombole del gas, di quelle che si usano in cucina. A quel punto, il fronteggiamento con i lampedusani si trasforma in battaglia: gli isolani attaccano gli immigrati a sassate, gli immigrati rispondono, uomini si scagliano contro altri uomini. Poi la polizia carica gli immigrati, e ci sono immagini che mostrano l’accanimento vigliacco contro una folla con le spalle al muro che sfugge alle manganellate buttandosi da un’altezza di tre metri. Non tanto, forse. Ma quanto basta per farsi davvero male in una situazione di panico generalizzato.
Disgustosa, come sempre, la figura di Bernardino De Rubeis, sindaco di Lampedusa, che non ha perso occasione di spargere a piene mani i semi dell’odio parlando di una guerra in atto, e della capacità dei lampedusani di attrezzarsi in tal senso. E infatti, De Rubeis si è dovuto asserragliare nel suo ufficio, sorvegliato da agenti di polizia, perché all’esterno alcuni compaesani volevano prenderlo a sberle. Perché? Non perché sia un personaggio impresentabile; non perché sia stato indagato e arrestato per concussione; non perché fino a qualche mese fa aveva accolto in pompa magna Berlusconi reggendogli il gioco nelle sue sceneggiate propagandistiche. I lampedusani vogliono la pelle di De Rubeis perché, secondo loro, è stato troppo “morbido” nella gestione del problema-immigrazione. E così, De Rubeis ai giornali ha detto di sapersi difendere, con una mazza di baseball custodita in ufficio.
L’abbrutimento di Lampedusa è il frutto avvelenato della politica del governo italiano che continua a gestire l’immigrazione in maniera folle. Ora, al di là della scientifica criminalità delle leggi liberticide che reprimono i flussi migratori, a Lampedusa i problemi vengono ulteriormente esacerbati e ingigantiti dal pressappochismo, dalla trascuratezza, dalla volontà di rendere impossibili anche le cose semplici.
Nell’esasperazione collettiva di Lampedusa, la strada della solidarietà umana viene abbandonata in favore della scorciatoia razzista e rabbiosa. E non sappiamo quanto tutto questo possa essere davvero recuperato, stando così le cose.
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A Lampedusa il CIE non c’è più

Martedì 20 marzo. Il fuoco covava sotto la cenere da lunghi giorni. I 1300 reclusi del centro di strada Imbriacola hanno bruciato la loro prigione e sono usciti.
Il fuoco, alimentato dal vento, ha presto distrutto completamente la struttura, mentre il fumo invadeva le strade del paese. Gli immigrati hanno trascorso la notte all’aperto, molti dentro il campo sportivo. Secondo alcuni quotidiani cento tunisini sarebbero già stati trasferiti in altri centri.
Il sindaco De Rubeis ha chiesto l’invio di navi della marina militare per l’immediato rimpatrio, minacciando il ricorso alla forza per cacciare quelli che non esita a definire “delinquenti”.
È la seconda volta in meno di tre anni che il CIE lampedusano viene distrutto dai prigionieri senza carte.
De Rubeis parla di guerra e non sa quanto ha ragione. Dall’inizio dell’anno decine di migliaia di persone sono approdate nell’isola, ben 1674 quelli che non ce l’hanno fatta: chi è morto annegato, chi soffocato nella stiva di un barcone troppo pieno, chi di sete su una carretta alla deriva.
Lampedusa è diventata una prigione a cielo aperto, con un muro di filo spinato a dividere migranti e profughi dagli isolani.
I traballanti accordi con la Tunisia non permettono al governo italiano di rispedire indietro più di trenta clandestini al giorno. I centri, specie dopo il prolungamento a un anno e mezzo della reclusione, stanno esplodendo.
La guerra dichiarata dal governo ai poveri si fa sempre più feroce. Ma la misura è ormai colma.
Da Nardò a Piacenza i lavoratori immigrati si ribellano alla schiavitù, da Roma a Torino, da Milano a Modena, da Gradisca a Brindisi i reclusi nei CIE e nei CARA spezzano le catene e fuggono. Continua a leggere

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Fuga da Milo

Trapani, 20 luglio. Sono almeno 20 gli immigrati fuggiti dal nuovo Centro d’Identificazione ed Espulsione di contrada Milo, inaugurato pochi giorni fa, nella periferia di Trapani.
La notizia è stata diffusa in una nota del sindacato di polizia Siulp che, pur non avendo alcuno scrupolo morale a fare i secondini, tuttavia vorrebbero starsene più tranquilli.
Nel territorio di Trapani, attualmente, sono attivi il vecchio CIE “Serraino Vulpitta”, la nuova struttura di Milo, e la tendopoli di Kinisia, momentaneamente vuota.
Di seguito il bel comunicato del Coordinamento per la Pace di Trapani

Se vince l’umanità
Ancora una volta l’umanità ha vinto. Le fughe di immigrati dal nuovo Centro d’Identificazione ed Espulsione di contrada Milo dimostrano che l’insopprimibile bisogno di libertà è più forte di qualunque cinico efficientismo repressivo. Sapere che da Milo è possibile scappare significa ridare una speranza a questa città ridotta a un carcere a cielo aperto.
Il nuovo mega-lager di Trapani (una struttura costata un mare di soldi, concepita secondo i più moderni criteri in materia di segregazione) è un mostro di cemento e ferro circondato da sbarre, fatto apposta per contenervi centinaia di esseri umani colpevoli soltanto di essere nati dalla parte sbagliata del mondo (almeno secondo i criteri di chi dispone delle vite di noi tutti).
Da oggi il CIE di Milo, questo mostro di cemento e ferro, fa un po’ meno paura. Ma quando sarà chiuso, insieme al “Serraino Vulpitta” e alla tendopoli di Kinisia, sarà sempre troppo tardi.
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Trapani. Muri e gabbie del nuovo CIE di Milo

Muri altissimi e gabbie di ferro per rinchiudere le vite di 200 immigrati senza carte. È l’ultimo CIE italiano, quello di Milo vicino a Trapani.
Lo hanno inaugurato i 50 tunisini trasferiti dalla tendopoli/lager di Chinisia, che è stata momentaneamente chiusa. A Milo hanno portato anche quattro richiedenti asilo, rinchiusi a Chinisia nonostante siano in attesa del riconoscimento dello status di rifugiati.
La struttura, costata 6 milioni di euro, è stata realizzata in un terreno contiguo all’area dell’ex aeroporto di Milo, vicino al Comando provinciale dei vigili del fuoco e alla stazione dell’Agenzia spaziale italiana. È previsto che in futuro ci sia anche una sezione femminile e un centro di accoglienza per richiedenti asilo.
La gestione del nuovo CIE è stata temporaneamente affidata al centro di accoglienza Badia Grande della Caritas di Trapani e alla cooperativa Insieme, del consorzio Connecting People.
Con l’abbandono di Chinisia, si chiude la vicenda delle tre tendopoli trasformate in altrettanti centri di identificazione e espulsione, con l’ordinanza 3935 del 21 aprile.
A Palazzo San Gervasio la tendopoli/cie è stata chiusa dopo l’inchiesta di Repubblica, anche se ufficialmente si parla di lavori di ristrutturazione. La tendopoli/cie di Santa Maria Capua Vetere è stata sequestrata dalla magistratura dopo l’incendio che l’ha distrutta.
La chiusura – sia pure temporanea – di Chinisia probabilmente è stata decisa in seguito alle proteste dei poliziotti trapanesi, che non ne volevano sapere di sorvegliare tre Cie nella stessa città. Naturalmente ai tutori del disordine statale poco importa delle vite negate dei migranti clandestini: pestaggi, umiliazioni e violenze sono il pane quotidiano che gli uomini in divisa fanno inghiottire ai reclusi dei CIE.
Anche a Chinisia, come nelle altre tendopoli/CIE, rivolte, fughe e repressione sono stati continui in poco più di tre mesi. I reclusi, in buona parte tunisini, dopo aver assaggiato il gusto aspro e forte della lotta per la libertà nel loro paese, non sono disposti a rinunciarvi.
A Trapani è stata rimandata la chiusura del vecchio Serraino Vulpitta, che era previsto fosse sostituito dalla nuova struttura di Milo.
Potrebbe essere interessante capire dove finiranno i 10 milioni di euro che l’ordinanza 3935 aveva stanziato per la ristrutturazione e la gestione delle tre tendopoli/CIE di Chinisia, Santa Maria Capua Vetere e Palazzo S. Gervasio.

Sulla tendopoli/lager di Chinisia e sulla rivolta e fuga del 23 giugno vale la pena leggere il reportage pubblicato il 4 luglio su Fortresse Europe. Continua a leggere

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Razzismo senza fine

Il governo italiano aveva bisogno di un diversivo per far fronte alla sua profonda crisi di legittimità e consenso.
E così, tanto per mostrare i muscoli e distrarre l’opinione pubblica, è stato varato un decreto legge che torna a colpire ferocemente gli immigrati. Per questa rappresaglia sulla pelle dei più deboli, occorreva aggirare l’ostacolo del reato di clandestinità bocciato dalla corte di Giustizia Europea, e così è stato.
I punti salienti di questo nuovo provvedimento razzista consistono nell’espulsione coatta e immediata sia dei “clandestini”, sia dei cittadini europei considerati “pericolosi”. P er facilitare questa macchina delle deportazioni, si è pensato persino di rinnovare gli accordi italo-libici con il governo provvisorio di Bengasi, in perfetta continuità con le politiche intraprese fino a ieri con il dittatore Gheddafi. E poi viene prolungata la detenzione nei Centri di identificazione ed espulsione (CIE) da sei a diciotto mesi. In pratica, si potrà finire dietro le sbarre per un anno e mezzo senza aver commesso reati ma solo perché si è immigrati e senza il permesso di soggiorno. In particolare, l’accanimento nei confronti dei cittadini comunitari è un’evidente intimidazione nei confronti di zingari e rumeni, da sempre nel mirino dei razzisti di casa nostra.
D’altronde, questo governo ha risposto alle esigenze dei profughi del Nordafrica con la vergogna delle tendopoli (rigorosamente vietate ai giornalisti) che in alcuni casi – come a Santa Maria Capua Vetere – gli stessi immigrati hanno provveduto a distrugge re. Qui da noi, a Kinisia, la tendopoli è tornata in funzione e viene adibita a CIE, mentre il nuovo super lager di Milo continua a crescere come una metastasi alla periferia della città.
Come dichiarato pochi giorni fa da Medici Senza Frontiere, a Kinisia «le persone dormono dentro delle tende e i servizi medici sono largamente insufficienti. Manca l’elettricità, le condizioni igieniche sono pessime e l’accesso all’acqua saltuario. Il solo fatto di essere in stato di fermo prolungato per essere entrati irregolarmente nel territorio italiano ha forti ripercussioni sulla salute mentale delle persone».
E sulla libertà e la dignità di tutte e tutti, aggiungiamo noi. Continua a leggere

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I confini dell’umanità

Mentre alcuni noti esponenti della Lega Nord invocavano la violenza e la lotta armata per sparare a vista sugli immigrati, due donne sono morte annegate proprio davanti gli scogli di Pantelleria. Forse, i morti sono anche di più. Adesso quei criminali in doppiopetto saranno contenti.
Dal 1988 sono almeno quattordicimila gli immigrati che hanno perso la vita a causa della feroce impenetrabilità dei confini europei. Donne e uomini morti in fondo al mare, o nel deserto dopo essere stati deportati con voli speciali (magari proprio dall’Italia), oppure asfissiati nei tir, per superare i confini orientali.
In questa Europa circondata dal filo spinato in cui gli immigrati servono solo come clandestini da sfruttare e terrorizzare, le leggi razziste continuano a produrre orrore su orrore rendendo impraticabile ogni opportunità di vita e di libertà. Non bastavano i Centri d’Identificazione ed Espulsione, i nuovi lager della democrazia: oggi in Italia ci sono anche le tendopoli, per creare l’emergenza che non c’è, per esasperare gli immigrati calpestandone ancora la dignità, per rendere normale e giustificabile ciò che è al di fuori di ogni umanità.
Eppure, l’umanità continua a vivere nelle fughe da Kinisia, nelle proteste di Birgi per impedire la deportazione, nella rivolta di Lampedusa per rivendicare la libertà.
L’umanità continua a vivere nelle lotte per l’uguaglianza, mentre c’è chi sparerebbe su
donne e bambini stipati in un barcone.
L’umanità vive in chi si batte per la solidarietà e l’internazionalismo, contro quelli che alimentano l’odio e il razzismo.
L’umanità vive nell’impegno per la libertà di tutti contro ogni frontiera, quando c’è chi pensa solo a erigere muri.
Tu da che parte stai?
Gruppo Anarchico “Andrea Salsedo” – Trapani
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Il gioco delle tre carte di Maroni

Da settimane il governo italiano – in prima fila il ministro dell’Interno Roberto Maroni – sta ballando tra Tunisi, Parigi e Berlino.
Alti funzionari dell’ENI viaggiano per la Cirenaica scossa dalla guerra per convincere il Governo di transizione a mantenere i contratti firmati da Gheddafi. Nel frattempo dalla Libia partono barconi pieni di profughi dal corno d’Africa. I primi dopo lo stop imposto dal trattato di amicizia italo-libica. Chi non ce la fa chiude la sua vita nella grande bara azzurra del Mediterraneo.
Maroni, Berlusconi e Frattini hanno provato senza troppo successo a comprarsi il governo tunisino. Dopo aver annunciato in pompa magna che Tunisi si riprendeva in blocco i 22.000 ragazzi sbarcati negli ultimi mesi in cambio di soldi e armi, il governo italiano è stato smentito da Essebsi. Sono seguite trattative convulse. Tunisi, dopo aver incassato i permessi temporanei per chi era già in Italia, non sta mantenendo l’impegno di fermare nuove partenze.
Nel frattempo è arrivato il no dell’Unione Europea alla libera circolazione dei tunisini provenienti dall’Italia.
La premiata ditta gabbie, respingimenti e deportazioni sta facendo acqua da tutte le parti. Maroni prova a fare il gioco delle tra carte tra Roma, Tunisi e Parigi. E perde.

Vi proponiamo le principali tappe di questa vicenda nella ricostruzione di TAZ laboratorio di comunicazione libertaria
“Il mare ne ha inghiottiti duecentocinquanta. Quella che si è consumata il 6 aprile è stata una delle peggiori tragedie – se mai fosse possibile stilare una classifica dell’orrore – tra quelle conosciute nel Canale di Sicilia. Il mare era agitatissimo, la presenza del barcone viene segnalata in acque maltesi, ma le autorità della Valletta non intervengono perché «impossibilitate». I soccorsi partono dunque dall’Italia: tre motovedette, un aereo e un elicottero. C’è anche il peschereccio mazarese “Cartagine” che riesce a recuperare tre persone. Il mare forza 6 e una falla nel barcone rendono tutto complicatissimo. Gli immigrati cadono in acqua, donne e bambini compresi, proprio durante i tentativi di trasbordo. Se ne salveranno solo quarantotto, per la maggior parte eritrei e somali.
Nel frattempo, la politica ha messo in scena le sue miserie. È entrato in vigore lo speciale decreto del presidente del consiglio con il quale viene riconosciuto a tutti gli immigrati tunisini presenti in Italia da gennaio uno speciale permesso di soggiorno della durata di tre mesi, concepito per garantire la libera circolazione all’interno dell’area di Schengen. Il provvedimento è stato varato partendo dal presupposto che la stragrande maggioranza dei tunisini approdati nelle ultime settimane a Lampedusa ha manifestato apertamente la volontà di andare in Francia o in Germania considerando l’Italia una testa di ponte. E proprio da Francia e Germania è arrivata la doccia fredda. Parigi ha dapprima contestato la legittimità dei permessi di soggiorno concessi dall’Italia, e poi è stata diramata una direttiva a tutte le prefetture d’Oltralpe che stabilisce requisiti molto rigidi per consentire l’apertura delle proprie frontiere ai tunisini. Stessa indisponibilità da parte della Germania, mentre la stessa Unione Europea – per mezzo di Cecilia Malmstrom, titolare del portafoglio interni della Commissione europea – ha chiarito che i permessi temporanei italiani non possono garantire la libertà di circolazione nell’area Schengen perché i tunisini sono migranti economici, e quindi sempre passibili di espulsione.
Non si pensi che, in tutto questo, il governo italiano sia formato da uomini giusti ma incompresi. L’accordo italo-tunisino voluto da Maroni prevede, infatti, che gli immigrati che arrivano in Italia da questo momento in poi vengano rimpatriati subito con procedure semplificate. Ovvero, deportazioni sbrigative dall’aeroporto di Lampedusa. In cambio, l’Italia donerà alle forze dell’ordine di Tunisi sei motovedette, quattro pattugliatori e un centinaio di fuoristrada per controllare meglio le coste e impedire nuove partenze. Un meccanismo che Maroni ha cinicamente descritto come una “chiusura del rubinetto”. Intanto, Lampedusa è stata evacuata dagli immigrati deportati nelle tendopoli allestite in Italia (specialmente al Sud), ma tutto è durato davvero poco perché gli sbarchi sono ripresi massicciamente.
Dalle tendopoli si riesce a scappare, specialmente a Manduria e Caltanissetta. Più blindata la tendopoli di Kinisia, nelle campagne fra Trapani e Marsala. Cinquecento immigrati vivono in un’area circondata da un doppio perimetro di rete metallica sorvegliato a vista da un agente in tenuta antisommossa ogni dieci metri, seduto su una sedia. Nonostante tutto, dieci immigrati sono riusciti a fuggire, ma solo in sei hanno effettivamente riconquistato la libertà.”
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Lampedusa. Sul confine della vergogna

Mercoledì 30 marzo. Oggi a Lampedusa è arrivato anche Berlusconi. Camicia nera, demagogia e promesse. Adesso che c’è lui tutto andrà a posto. Finora “non aveva le idee chiare” ma ora sa cosa si deve fare e lo sta facendo. Sgombero dell’isola, pulizia, rimpatri, agevolazioni fiscali e anche la candidatura al Nobel per la Pace. Su questo scoglio di frontiera la neolingua del premier chiama pace la guerra. Intanto la premiata ditta gabbie e polizia è all’opera. Tendopoli miserabili, e la minaccia dei rimpatri. Sempre che il governo di Tunisi sia in grado di mantenere gli impegni presi con Maroni e Frattini e di incassare il premio pattuito.

Vale la pena leggere la cronaca e l’analisi dalla Sicilia di Taz, laboratorio di comunicazione libertaria.

Alla fine ci sono riusciti. Con le rivolte del Nordafrica e con lo scoppio della guerra dichiarata dalle potenze occidentali alla Libia, l’aumento degli sbarchi di immigrati e profughi nell’isola siciliana di Lampedusa è servito al governo italiano per non gestire una situazione che si è trasformata, inesorabilmente, in una emergenza. Nel momento in cui scriviamo, le presenze di immigrati a Lampedusa hanno superato le 6.000 unità. Davvero una quantità considerevole se si pensa che i lampedusani residenti sono, abitualmente, cinquemila. In realtà, il vero problema è un altro, e cioè le condizioni inumane nelle quali il governo ha abbandonato al loro destino gli immigrati e, insieme a loro, la popolazione autoctona. Per giorni e giorni il governo ha indugiato nel predisporre un piano sostenibile per un’accoglienza decente e per la progressiva evacuazione dell’isola, e così – a fronte di una oggettiva intensificazione degli sbarchi – non si è provveduto a un contestuale decongestionamento di Lampedusa. Una volontà politica criminale che discende direttamente dalla generale impostazione repressiva delle leggi in materia di immigrazione in Italia. L’emergenza-Lampedusa rappresenta un quadro, grottesco e realistico nello stesso tempo, della pericolosità sociale di chi sta governando il paese. A Lampedusa gli immigrati sono stati dapprima stipati nel Centro di prima accoglienza, pieno fino all’inverosimile (1.500 persone), altri 450 nella ex base Loran, 420 nelle strutture ecclesiastiche, e ben 4.000 nella stazione marittima, nell’area del porto e sulla “collina della vergogna” dove essi stessi hanno improvvisato un accampamento. Si tenga presente, giusto per fare un esempio, che a Lampedusa per alcuni giorni 2.000 immigrati non hanno mangiato perché la cooperativa che gestisce il Centro è abilitata a fornire un massimo di 4.000 pasti. Inevitabili le proteste dei migranti, e altrettanto inevitabile la reazione rabbiosa dei lampedusani: dapprima i blocchi del porto con la volontà di non fare attraccare più alcun barcone, e poi l’occupazione dell’aula consiliare del Comune in segno di protesta. A fare da sfondo a tutto questo, il radicato sentimento di frustrazione della popolazione isolana, di fatto costretta a subire le scelte dissennate del governo centrale. Il conflitto si sta consumando, pur nella sua fisiologica ritualità, anche a livello istituzionale, con la Regione siciliana – presieduta dal governatore Lombardo – che ha denunciato le mancate promesse da parte del Ministro dell’Interno Maroni in direzione di una distribuzione degli immigrati su tutto il territorio nazionale. D’altra parte, quel galantuomo di Umberto Bossi ha sbrigativamente liquidato l’argomento auspicando che gli immigrati se ne vadano «fuori dalle palle» il prima possibile.
Infatti, dopo che l’emergenza è stata creata ad arte, il governo ha giocato un’altra, incredibile, carta: le tendopoli. Tredici siti di proprietà demaniale (per lo più di origine militare) sarebbero stati individuati in tutta Italia per allestire accampamenti destinati alla “sistemazione” dei migranti (il governo ci ha già abituati a questo genere di provvedimenti sull’onda delle “emergenze”). Ancora una volta però, sembra che siano solo la Sicilia e il Sud a dover sostenere il peso di questa strategia terroristica del governo. Le tendopoli in fase di allestimento potrebbero contenere 800 persone ciascuna, e si trovano a Manduria (in provincia di Taranto), a Caltanissetta (vicino al Centro di identificazione ed espulsione) e a Kinisia, vicino Trapani. In quest’ultimo caso, si tratta dell’area dell’ex aeroporto militare, a pochissima distanza dall’attuale base militare di Birgi (da dove partono i Tornado italiani che fanno la guerra in Libia). L’ex aeroporto di Kinisia si trova in aperta campagna, è un edificio diroccato e abbandonato, e la tendopoli sarà montata sulla pista e in tutta la vasta area circostante. Anche qui, la popolazione locale ha già dato segni di pericolosa insofferenza bloccando i mezzi dei vigili del fuoco per impedire la realizzazione dell’accampamento. I trapanesi che vivono nella tranquilla periferia rurale della città non vogliono gli immigrati “per non fare la fine di Lampedusa”, “perché abbiamo paura”, “perché temiamo per i nostri bambini”. Reazioni scomposte e irrazionali che si aggiungono alla rabbia per il danno economico derivato dalla forzata (prima totale poi parziale) chiusura dell’aeroporto civile a seguito dell’inizio delle operazioni di guerra. Al di là di questa brutta piega che stanno prendendo gli eventi, non si può ignorare come la Sicilia occidentale si confermi un terreno di inaudita sperimentazione repressiva sulla pelle degli immigrati. A Trapani ci sono già un Centro d’Identificazione ed espulsione (Cie) e un Centro richiedenti asilo, entrambi colmi. E poi c’è il nuovo Cie di contrada Milo, in fase di ultimazione.
Dall’altra parte dell’isola, c’è il “Villaggio della solidarietà” (ex residenza dei militari Usa di Sigonella) a Mineo, in provincia di Catania. Anche in questo caso, l’approssimazione si è accompagnata a un innalzamento ingiustificato della tensione e dell’ingestibilità. Adesso quello di Mineo è ufficialmente un Centro per richiedenti asilo (CARA), era stato concepito per trasferirvi i rifugiati già presenti in tutti i Centri italiani, ma poi – con l’emergenza – ha finito con l’ospitare anche alcuni immigrati subsahariani appena arrivati a Lampedusa.
Ed è qui che – mentre scriviamo – si aspetta l’arrivo di sei navi (una militare, la San Marco, e altri cinque traghetti) per l’immediata evacuazione dell’isola, dopo settimane di incuria e lassismo. Ma è davvero concreta la sensazione che, in tutta questa vicenda, gli immigrati siano trattati come pacchi postali da ri muovere, deportare e parcheggiare senza alcun criterio di umanità.
All’origine di questo scempio ci sono molti fattori. Le leggi razziste, innanzitutto, che rendono materialmente impossibile la vita degli immigrati marchiati come “irregolari”. Se ci si potesse spostare liberamente, la maggior parte di questi problemi non ci sarebbero. Le persone non sarebbero considerate “extracomunitarie”, né si creerebbero pretestuose distinzioni tra “clandestini”, “profughi” e “richiedenti asilo” con tutta la burocrazia assassina che ne deriva. E poi c’è la situazione internazionale. Non è possibile pretendere che le persone non cerchino di fuggire dalle situazioni di pericolo o di precarietà. Le rivolte nel Maghreb e l’instabilità sociale e politica in Tunisia ed Egitto sono tutti motivi più che comprensibili per emigrare. Infine, non bisogna dimenticare che siamo in guerra. I paesi occidentali hanno scatenato l’intervento militare in Libia, l’Italia si è accodata volentieri in questa impresa scellerata, e adesso si pretende di non avere a che fare con le sue conseguenze disastrose.
Agli anarchici spetta un compito epocale, quello di fare fronte a questa deriva infame. In questa fase la lotta antirazzista non può prescindere da un rilancio dell’attività antimilitarista. In entrambi i casi occorre lavorare nel corpo sociale per arginare gli effetti nefasti del terrorismo mediatico con cui il governo dipinge gli immigrati come pericolosi invasori, descrive l’intervento in Libia come un provvedimento umanitario, impaurisce e distrae l’opinione pubblica costruendo a tavolino le situazioni emergenziali per poi giustificare strette repressive e discriminatorie assolutamente devastanti.
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Mineo. Il governo fa marcia indietro

Mercoledì 23 marzo. Ieri vi abbiamo raccontato della deportazione a Mineo dei primi tre richiedenti asilo provenienti dal CARA di Gradisca. Gli altri, blanditi con promesse di casa e lavoro, si stavano abituando all’idea del prossimo trasferimento. Oggi, all’improvviso, è arrivato il contrordine “non partite più”.
I media stanno diffondendo la notizia che il governo avrebbe fatto marcia indietro, rinunciando a concentrare a Mineo tutti i residenti asilo ospitati nei CARA. Oggi hanno cominciato a trasferire i 600 tunisini, imbarcati ieri dalla S. Marco, al “Residence degli aranci”.
Sempre oggi sei voli speciali da cento persone l’uno sarebbero partiti da Lampedusa.
Per quale ragione il governo avrebbe attuato un così rapido cambiamento di rotta?
È possibile che sia stata una questione di tempo.
Le operazioni di trasferimento dai CARA a Mineo stavano andando a rilento: in alcune località, come Roma, la resistenza dei richiedenti asilo e delle associazioni antirazziste stava mettendo i bastoni tra le ruote al ministero dell’Interno. Sul piano istituzionale il presidente della Regione Puglia, Vendola, ha scritto a Maroni denunciando le condizioni disumane in cui avvenivano i trasferimenti dal CARA di Bari a Mineo.
Nel frattempo la situazione a Lampedusa, già grave, stava diventando esplosiva, rendendo difficile tergiversare ancora.
Ancora non è chiaro lo status dei tunisini portati a Mineo: con ogni probabilità saranno considerati clandestini.
L’ambiguità deriva dalle dichiarazioni dello stesso ministro, che ha detto chiaramente che solo i libici hanno diritto a chiedere asilo, mentre i tunisini sono immigrati illegali. Tuttavia sinora la struttura di Mineo ha funzionato come centro per richiedenti asilo. La trasformeranno in un CIE?
Un richiedente asilo, trasferito negli ultimi giorni al “residence degli aranci” da una delle tante strutture della penisola, si è messo in contatto con gli antirazzisti della zona da cui proveniva. Ha raccontato che la situazione è molto tesa: alcuni sarebbero fuggiti, altri hanno inscenato proteste.
Un quadro che potrebbe complicarsi quando la struttura raggiungerà la massima capienza. D’altro canto al ministero dell’interno sono criminali ma non stupidi: immaginavano sin troppo bene che bomba avrebbero innescato concentrando a Mineo duemila tunisini.
Per questo hanno cercato sino all’ultimo di evitarlo.
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Volo speciale. Torino, Bari, Lampedusa. E ritorno

Martedì 22 marzo.
Torino Caselle. Due voli speciali diretti prima a Bari e poi a Lampedusa sono partiti alle 11,30 e alle 14. Non sappiamo quanti immigrati siano stati coinvolti nell’operazione ma non è difficile immaginare che sia una tappa nel gioco di bussolotti di Maroni.
Si caricano un po’ di immigrati a Torino e li si molla a Bari, dove, dopo la deportazione a Mineo di un centinaio di richiedenti asilo, c’è un po’ di spazio. Poi si vola a Lampedusa, si fa un carico di tunisini appena sbarcati, e li si porta ancora a Bari.

Torino. Non si placano le proteste nell’area verde del CIE. Dopo l’incendio che domenica notte ha mandato in fumo tre moduli abitativi su cinque, i reclusi, tutti tunisini, hanno dato alle fiamme tavoli e sedie della mensa, dove erano stati obbligati a dormire la notte precedente.
Radunati nel cortile e perquisiti sono stati privati degli accendini.
Altri reclusi si sono tagliati: due sono stati medicati in ospedale.

Gradisca. La rivolta e la fuga di domenica sono state di ben più ampie di quanto era stato fatto trapelare in un primo tempo. Secondo quanto riportano i giornali le stanze ancora agibili dopo le sommosse di fine febbraio sono state danneggiate ulteriormente.
Brutte notizie invece dal fronte del CARA, questa notte tre richiedenti asilo sono stati caricati su un aereo di linea e deportati a Mineo.
Gli operatori di Connecting People hanno blandito gli altri ospiti del CARA con promesse impossibili. Qualcuno ci ha creduto, altri no. C’è chi pensa che a Mineo troverà una villetta tutta per se e un lavoro; gli altri sono stanchi, insofferenti, rassegnati.

Roma. 29 richiedenti asilo sono stati trasferiti a Mineo dal CARA di Castelnuovo di Porto. Una ventina di attivisti di Action si erano incatenati all’ingresso principale per impedire la deportazione, ma sono stati beffati dalla polizia che ha fatto uscire i rifugiati da un ingresso laterale.
Il ministero dell’Interno aveva disposto lo spostamento di 55 persone: in seguito alle proteste di alcune associazioni, alcuni “casi vulnerabili” sono stati esclusi dalla lista.

La condizione dei richiedenti asilo concentrati a Mineo sarà ancora peggiore di quella attuale. Tutte le pratiche sono concentrate in un’unica commissione territoriale; chi ha fatto ricorso avrà difficoltà a partecipare alle udienze, tutte le reti di sostegno e solidarietà sviluppate sui vari territori vengono spezzate.
Ovviamente le sofferenze di chi già ha subito guerre e persecuzioni importano poco a Maroni. L’essenziale è accontentare l’elettorato leghista.
Ma il ministro è nei guai sino al collo. Il viaggio in Tunisia programmato oggi è stato rimandato di qualche giorno: segno che non sarà facile convincere il governo tunisino a mettere in atto misure di contrasto dell’immigrazione, nonché a mantenere gli impegni presi quest’estate da Ben Alì per il rimpatrio veloce dei clandestini. Gli aiuti promessi alla Tunisia per far fronte all’ondata di profughi sono stati ridotti ad un mero supporto al rimpatrio degli immigrati provenienti dal Bangladesh. Della serie: li portiamo a casa noi, così non rischiamo di ritrovarceli su un barcone diretto a Lampedusa. Non manca chi si chiede che fine abbiano fatto i soldi inizialmente stanziati per gli aiuti.
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Da Lampedusa a Mineo. Frontiere d’odio

Venerdì 18 marzo. A Lampedusa si susseguono gli sbarchi, il centro di accoglienza è al collasso. Nonostante le contestazioni che hanno accolto la visita di due campioni dei diritti umani quali Mario Borghezio e Marine Le Pen, nell’isola soffia forte il vento dell’odio e della paura. In queste ore un centinaio di isolani ha cercato di impedire l’attracco di una barca carica di immigrati.
A Mineo ha aperto i battenti il Villaggio della Solidarietà. Il governo ha deciso di concentrarvi tutti i residenti asilo dei CARA, per poter velocemente riconvertire a CIE i CARA. Nuova linfa per la premiata ditta galera e deportazione. I primi tre sono giunti in auto da Trapani, altri 157 li hanno deportati da Bari.
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