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Torino. Come bufali impazziti

Sabato 1 ottobre. Nel prato di fronte al CIE di corso Brunelleschi l’atmosfera è serena. Se non fosse per quel muro, mille volte segnato da graffiti di libertà, mille volte cancellati e mille volte rifatti, sarebbe un pomeriggio come tanti in quest’estate tardiva.
C’è una settantina di persone: antirazzisti di un po’ tutte le aree, giovani immigrati che le gabbie le hanno assaggiate, famiglie, specie peruviane venute a sostenere la lotta di Ysmael, un attivista molto noto anche al di fuori della sua comunità. Ysmael è rinchiuso in una delle gabbie e da settimane si sta battendo perché la sua vita è a Torino e non la vuole lasciare. Il 27 settembre hanno provato a caricarlo su un aereo diretto a Lima. Pareva l’epilogo scontato della vicenda ma Ysmael ha cominciato a gridare, a divincolarsi, finché la sua protesta ha attirato l’attenzione del pilota, che gli ha fatto la domanda più ovvia, gli ha chiesto se voleva partire per il Perù. Di fronte al suo diniego ha ordinato di farlo sbarcare: i poliziotti non hanno potuto fare altro che ricondurlo al CIE, nella cella di isolamento nella quale ha trascorso buona parte della sua prigionia.
Il presidio di sabato è un segnale di solidarietà che mette insieme tanta gente diversa, accomunata dalla volontà di chiudere i CIE, di dare sostegno alla lotta di tutti i reclusi, in questi mesi sempre più forte in ogni angolo d’Italia.
Che gli uomini in divisa siano maldisposti lo si capisce sin dal primo momento: controviale bloccato dalle camionette, antisommossa schierati con casco e manganello, funzionari in fascia tricolore, quella che, almeno a Torino, mettono solo per poter dichiarare legittima una carica.
Musica, interventi, slogan. Niente altro.
Il pretesto lo fornisce un cucciolo di cane, un quattro zampe impertinente che non ha ancora capito che ci sono limiti che non è salutare valicare. Il cucciolo attraversa la strada, si dirige verso gli uomini in divisa, una ragazza lo rincorre gridando “vado a prendere il cane!”. I gentiluomini in divisa fanno partire qualche insulto, qualcuno risponde. Poi calano i caschi e partono.
Sembravano “una mandria di bufali impazziti” scriverà il giorno dopo una donna. Ha una mano gonfia: sin è guadagnata una manganellata quando ha sporto il braccio nel vano tentativo di fermare un poliziotto che si stava accanendo contro il figlio di 15 anni, che, come lei, era seduto nel prato. Al pronto soccorso al ragazzo metteranno il collare e daranno 7 giorni di prognosi.
I feriti sono numerosi. Una compagna viene colpita ripetutamente alla testa, si ripara con la mano e si aggiudica una frattura scomposta al mignolo. Gli altri hanno sul viso e sul corpo i segni dei colpi ricevuti.
Un folto gruppo di antirazzisti viene caricato per centinaia di metri lungo via Monginevro, affollata di auto e bus, come in ogni sabato pomeriggio. Solo all’angolo con corso Montecucco i funzionari richiamano la forza.
In questura devono aver deciso. Basta presidi solidali davanti ai CIE: i prigionieri devono restare isolati, come i tunisini rinchiusi nelle navi-prigione dopo aver incendiato il centro di contrada Imbriacola.
Diciamolo chiaro. A questi picchiatori in divisa, dopo quattro mesi rinchiusi nella gabbia di cemento e filo spinato alla Maddalena di Chiomonte, qualche soddisfazione bisognava pur darla. In Valsusa i manganelli, i calci in faccia, lo scricchiolar d’ossa sinora glielo hanno potuto concedere solo a piccole dosi. Gas sparati ad altezza d’uomo, qualche sasso dall’autostrada ma nulla più. In via Grattoni sanno che la Valsusa è una polveriera e non hanno il coraggio di scatenare i bufali.
Le rivolte e le fughe degli immigrati si stanno moltiplicando in tutta Italia, spezzando reti e rompendo le gabbie. A Torino il 22 settembre si sono ripresi la vita in 22.
La voglia di libertà brucia le frontiere, simboliche e reali messe a guardia di un ordine feroce. Spezzarlo è una scelta morale ben prima che politica.
Ormai lo stanno imparando anche i cuccioli di cane: c’è un lato sbagliato della strada, quello che corre lungo i muri cinti di filo spinato, difesi da uomini armati e cattivi.
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Lampedusa. I semi dell’odio

Giovedì 22 settembre. Dopo aver bruciato la gabbia che li rinchiudeva 1300 immigrati hanno trascorso la notte all’aperto. Mercoledì 21 si sono mossi in corteo gridando “Libertà! Libertà!”. Un gruppo ha preso della bombole del gas minacciando di farsi saltare: alcuni isolani li hanno presi a sassate, i ragazzi hanno risposto. La polizia li ha caricati e pestati selvaggiamente. Un video mostra i poliziotti che picchiano i tunisini obbligandoli a saltare un muro alto tre metri.
Il sindaco De Rubeis che non ha esitato a minacciare violenze definendo “delinquenti” i rivoltosi, ha raccolto i frutti avvelenati della sua propaganda d’odio.
Secondo quanto riferisce il Gazzettino vi sarebbero stati alcuni tentativi di linciaggio da parte di gruppi di lampedusani inferociti. Anche la troupe di Sky e quella della RAI avrebbero subito attacchi da parte di alcuni isolani.
Un tunisino è stato ferito gravemente e trasferito con l’elisoccorso in ospedale a Palermo
Maroni è corso ai ripari iniziando i trasferimenti. Undici immigrati sono stati arrestati e rinchiusi nel carcere di Agrigento con l’accusa di incendio, danneggiamento e resistenza a pubblico ufficiale.

Di seguito la cronaca di mercoledì 21 curata da TAZ laboratorio di comunicazione libertaria

I fatti di Lampedusa suscitano rabbia e amarezza. È successo quello che era prevedibile e che, per certi versi, è stato voluto a tutti i costi.
Più di mille persone concentrate in uno spazio ristretto e senza un motivo comprensibile non possono che perdere la testa. Per la gran parte tunisini, gli immigrati del CPSA di Lampedusa sono destinati a essere rimpatriati. Ma negli ultimi giorni, il consolato tunisino ha tirato il freno a causa del raggiungimento del tetto massimo di trasferimenti. I tempi lunghi della detenzione e la stessa prospettiva di essere rispediti in un paese oggettivamente insicuro per via della transizione politica del dopo-Ben Alì, hanno acceso la miccia dell’esasperazione. Martedì 20 settembre gli immigrati prigionieri a Lampedusa hanno dato fuoco al centro di “accoglienza” distruggendolo completamente. Dopo di che, si sono riversati in paese cercando in qualche modo di manifestare il loro dissenso per una condizione che è davvero inaccettabile. Così come è inaccettabile l’ipocrisia di tutto questo sistema che faceva dire al ministro della difesa La Russa, solo pochi giorni fa, che a Lampedusa tutto va bene e che gli immigrati non hanno niente di cui lamentarsi. Poi, come succede in tutti i campi di internamento per stranieri, una volta finita la visita ufficiale di questa o quell’autorità, i pasti serviti tornano a essere la solita schifezza, e le false premure di sbirri e inservienti ridiventano insulti e botte.
A Lampedusa è successo quello che non doveva succedere: scontri tra immigrati e popolazione locale. Forse è il primo caso eclatante di scontri razziali in Italia. Pare che alcuni tunisini prima abbiano fatto irruzione in un ristorante della zona del porto per poi minacciare di far saltare in aria delle bombole del gas, di quelle che si usano in cucina. A quel punto, il fronteggiamento con i lampedusani si trasforma in battaglia: gli isolani attaccano gli immigrati a sassate, gli immigrati rispondono, uomini si scagliano contro altri uomini. Poi la polizia carica gli immigrati, e ci sono immagini che mostrano l’accanimento vigliacco contro una folla con le spalle al muro che sfugge alle manganellate buttandosi da un’altezza di tre metri. Non tanto, forse. Ma quanto basta per farsi davvero male in una situazione di panico generalizzato.
Disgustosa, come sempre, la figura di Bernardino De Rubeis, sindaco di Lampedusa, che non ha perso occasione di spargere a piene mani i semi dell’odio parlando di una guerra in atto, e della capacità dei lampedusani di attrezzarsi in tal senso. E infatti, De Rubeis si è dovuto asserragliare nel suo ufficio, sorvegliato da agenti di polizia, perché all’esterno alcuni compaesani volevano prenderlo a sberle. Perché? Non perché sia un personaggio impresentabile; non perché sia stato indagato e arrestato per concussione; non perché fino a qualche mese fa aveva accolto in pompa magna Berlusconi reggendogli il gioco nelle sue sceneggiate propagandistiche. I lampedusani vogliono la pelle di De Rubeis perché, secondo loro, è stato troppo “morbido” nella gestione del problema-immigrazione. E così, De Rubeis ai giornali ha detto di sapersi difendere, con una mazza di baseball custodita in ufficio.
L’abbrutimento di Lampedusa è il frutto avvelenato della politica del governo italiano che continua a gestire l’immigrazione in maniera folle. Ora, al di là della scientifica criminalità delle leggi liberticide che reprimono i flussi migratori, a Lampedusa i problemi vengono ulteriormente esacerbati e ingigantiti dal pressappochismo, dalla trascuratezza, dalla volontà di rendere impossibili anche le cose semplici.
Nell’esasperazione collettiva di Lampedusa, la strada della solidarietà umana viene abbandonata in favore della scorciatoia razzista e rabbiosa. E non sappiamo quanto tutto questo possa essere davvero recuperato, stando così le cose.
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Torino. Inganni e deportazioni

Giovedì 9 giugno. La questura da appuntamento a tutti in corso Verona per la consegna del permesso di soggiorno. Ma è solo un trucco. Cinquanta egiziani vengono sequestrati, portati nella sede centrale di via Grattoni dove viene comunicata loro l’espulsione.
Fuori dalla questura si raduna un piccolo presidio di parenti e antirazzisti, che sperano si possa ancora impedire la deportazione. La risposta della polizia è rapida e brutale: carica con tanto di lacrimogeni.
Gli egiziani, caricati a forza sui pullman vengono portati all’aeroporto di Caselle dove in serata è già pronto un volo speciale della Mistral Air, la compagnia che ha l’appalto dal Ministero per questo genere di operazioni.

Il governo, in difficoltà con il proprio stesso elettorato, dopo il risultati delle consultazioni amministrative, reagisce con la consueta combinazione di stupidità e ferocia.
Purtroppo la solidarietà concreta contro le espulsioni è ancora pratica di una piccola minoranza. A noi tutti l’impegno a farla crescere.
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Rivolta e incendio al CIE di Santa Maria Capua Vetere

Giovedì 9 giugno. Nella notte tra martedì 7 e mercoledì 9 è scoppiata una rivolta nel nuovo CIE/tendopoli nell’ex caserma Andolfato. La scintilla le botte e gli sfottò verso un giovane immigrato che chiedeva di poter tornare a casa per il funerali del fratello.
La risposta della polizia è stata durissima: cariche, botte e lancio di lacrimogeni.
I lacrimogeni avrebbero innescato un incendio, che ha distrutto buona parte delle tende del CIE.
Completamente diversa la versione della polizia che accusa gli immigrati di aver incendiato le tende per coprire un tentativo di fuga.
Secondo il Corriere del Mezzogiorno la procura ha messo sotto sequestro il CIE e i 98 immigrati tunisini – venti dei quali malconci dopo gli scontri e l’incendio – sono stati trasferiti.
Repubblica riferisce che gli immigrati sarebbero stati prelevati nella notte e trasferiti in altre strutture dell’Italia meridionale. Secondo gli avvocati che hanno seguito per l’intera nottata la vicenda una trentina di loro dovrebbero ottenere il permesso, altrettanti hanno qualche possibilità, mentre per gli altri sarebbe certa l’espulsione.
Un fatto è certo. C’è un CIE di meno.
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Milano. Una Torre davanti alla Scala

Martedì 7 dicembre. C’erano i lavoratori dello spettacolo, c’erano gli studenti in lotta contro la riforma Gelmini, c’erano anche gli immigrati e gli antirazzisti. E c’era una torre di legno e cartone, simbolo della ciminiera di via Imbonati occupata per 28 giorni da immigrati in lotta contro la sanatoria truffa. Da questa torre gli immigrati hanno raccontato le loro storie di lavoratori/schiavi e della lotta contro un apparato legislativo che picchia duro chi non si inginocchia. Nelle stesse ore, dall’aeroporto di Bologna veniva deportato Abder, uno dei due immigrati rimasti sino allo stremo sulla torre.
La risposta della polizia non si è fatta attendere: una prima carica ha accolto un gruppo di studenti che arrivava in piazza, una seconda prendeva alle spalle i manifestanti che erano già lì. Studenti, lavoratori, immigrati antirazzisti hanno resistito alle cariche: la giornata si è conclusa con un corteo spontaneo sino a S. Babila.
In via Imbonati il presidio degli immigrati continua. Giorno e notte. Continua a leggere

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Bologna, Brescia, Torino. Cortei, cariche, arresti

Sabato 13 novembre, Bologna. Diverse migliaia di persone partecipano al corteo regionale contro la truffa della sanatoria colf e badanti, il permesso di soggiorno a punti, la Bossi-Fini, i CIE.
Sabato 13 novembre, Brescia. Il corteo indetto dalla “Rete antifascista bresciana”, aperto dallo striscione “Fuochi di resistenza” ha sfilato sino alle transenne piazzate dalla polizia per impedire di avvicinarsi alla gru. Qui è arrivata la notizia la notizia dell’ennesimo rifiuto alla richiesta di portare cibo e coperte ai quattro ragazzi lassù da 14 giorni: i manifestanti hanno provato a spostare le transenne, lanciato slogan e bottiglie contro la polizia. Il corteo è stato caricato con violenza per ben tre volte: numerosi i feriti. Cinque compagni sono stati fermati e altri tre arrestati.
Sabato 13 novembre, Torino. Un gruppetto di antirazzisti – solidali con le lotte dei migranti bresciani – fa un giro per il quartiere S. Salvario armato di striscione e megafono. Arrivano tre pattuglie di carabinieri e subito comincia un dialogo a suon di manganellate. Cinque compagni vengono portati nella caserma di via Guido Reni. Una trentina di compagni si raduna lì: in tarda nottata pareva certo li avessero arrestati tutti. Continua a leggere

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Brescia: cariche e fermi al presidio solidale

Lunedì 8 novembre. La polizia arriva in forze alle 6 del mattino per sgomberare il presidio solidale sotto la gru, sulla quale da sei giorni resistono sei immigrati in lotta contro la sanatoria truffa.
Violentissime cariche si susseguono per l’intera mattinata.
Numerosi i feriti e i fermati. Il centro della città è sotto assedio.
La violenza dello Stato in armi è la risposta di Maroni al grande corteo di sabato scorso. Continua a leggere

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Brescia. La polizia carica gli immigrati, in nove salgono su una gru. Un arresto

Sabato 30 ottobre. Il corteo contro la sanatoria truffa era stato vietato con il pretesto che in centro, ma in un’altra zona, c’era un raduno degli alpini. Un migliaio tra immigrati e antirazzisti è partito ugualmente: la celere di Padova ha caricato. Alla fine il bilancio è stato di 10 feriti e un arrestato.
Nove immigrati sono saliti su una gru del cantiere della metropolitana in piazza Battisti: sono indiani, pachistani, senegalesi, marocchini. Staranno là finché sulla questione della sanatoria colf e badanti non sarà aperto un tavolo di trattativa. Chiedono anche la riapertura del presidio permanente davanti alla questura, distrutto dalla polizia. Il vicesindaco di Brescia, il leghista Rolfi, ha approfittato delle cariche per mandare le ruspe a distruggere la baracca degli immigrati che, resistono con determinazione dal 28 settembre. Continua a leggere

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