Il 24 settembre si è tenuto a Torino un punto info informativo sui CIE.
Nell’occasione è stata esposta una piccola mostra con la cronologia delle rivolte nei CIE da luglio a settembre.
Ed un volantino che riportiamo sotto.
L’Italia al tempo dei lager e delle deportazioni
Frontiere d’odio
Oggi, quelli che si salvano dal mare, dai trafficanti d’uomini, dalle guardie di frontiera ma non da uno Stato che li definisce “illegali” vengono rinchiusi nei CIE, i Centri di Identificazione ed Espulsione. I piemontesi che andavano in Argentina finivano negli “Alberghi” degli immigrati. Felicia Cardano riporta i racconti sentiti in famiglia: “Mio padre arrivò a Buenos Aires nel 1889 a bordo del ‘Frisca’. Durante il viaggio morirono il suo migliore amico e altre trenta persone. Lo misero all’Hotel della Rotonda, un enorme baraccone di legno, dove si stava stipati come sardine insieme ai pidocchi e alla puzza.”.
Sono storie di ieri, storie dei tanti piemontesi che partirono alla volta del Sudamerica per cercare “suerte”, fortuna, ma videro la morte in faccia, poi le baracche/prigioni, il disprezzo, lo sfruttamento bestiale. Tanti scappavano dalla guerra, la prima, quella che si mangiò la vita di tanti giovani contadini ed operai mandati a morire per spostare un confine.
Tanti di quelli che oggi arrivano qui, da noi in Piemonte, fuggono le guerre e la miseria come i nostri bisnonni. Chi arriva ha negli occhi il deserto, le galere libiche, il mare, i pescherecci che passano senza fermarsi, i militari che vanno a caccia di uomini. Hanno negli occhi il ricordo dei tanti lasciati per strada, morti senza tomba né umana pietà. Pochi di loro trovano “suerte”, fortuna: per i più c’è lavoro nero, salari infimi, paura, discriminazione. Chi viene pescato finisce nei CIE e di lì via, indietro, ancora verso l’inferno.
Il diritto legale di vivere nel nostro paese è riservato solo a chi ha un contratto di lavoro, a chi accetta di lavorare come qui nessuno più era obbligato a fare. Oggi i migranti, con permesso o in nero, sono i nuovi schiavi di quest’Europa fatta di confini e filo spinato. Gente la cui vita vale poco o nulla.
È scritto nelle leggi. Leggi razziste.
I CIE sono le galere che lo Stato italiano riserva a quelli che non servono più. Sono posti dove finisci per quello che sei, non per quello che fai. Come nei lager nazisti. Raccontano che nei CIE stanno i delinquenti, ma mentono sapendo di mentire. Nei CIE rinchiudono chi ha perso il lavoro e, quindi, anche le carte, oppure chi un lavoro a posto con i libretti non l’ha mai avuto e quindi nemmeno le carte in regola.
Chi resta, dopo aver ricevuto un decreto di espulsione, rischia la galera perché – da un anno – l’immigrazione clandestina è un reato penale. Pensate se succedesse a voi. Perdete il lavoro – di questi tempi non è difficile – e un giorno venite intercettati da una pattuglia e poi “ospitati” in un CIE, per sei mesi, in attesa di essere deportati lontano dalla vostra vita, dai vostri affetti, dai vostri figli.
Da sempre nei CIE – ieri CPT – soprusi, pestaggi, cure negate, sedativi nel cibo sono pane quotidiano. Le lotte degli immigrati rinchiusi nei CIE hanno segnato l’ultimo decennio. Una lunga resistenza, spesso disperata, fatta di braccia tagliate, bocche cucite, lamette o pile ingoiate. Qualcuno ha preferito la morte alla deportazione e l’ha fatta finita. In tanti si sono ribellati, bruciando materassi, distruggendo suppellettili, salendo sul tetto. Un po’ ovunque ci sono stati tentativi di fuga.
Ovunque, nelle gabbie per immigrati, si levano urla. Urla nel silenzio.
È tempo di rompere il silenzio.
Viviamo tempi grami, tempi feroci e folli, tempi di guerra. La guerra contro i poveri e gli immigrati, la guerra contro chiunque si opponga alla barbarie.
Ci vogliono nemici dei lavoratori immigrati, per farci deimenticare che il nemico, quello vero, sfrutta e comanda le nostre vite, siede nei consigli di amministrazione delle aziende, sui banchi del governo.
Il filo spinato e le mura dei CIE sono il simbolo concreto della frontiera d’odio che attraversa la nostra società. Una delle tante frontiere da abbattere.
Se un giorno ci chiederanno “dov’eravate quando la gente moriva in mare e nel deserto? Dov’eravate ai tempi dei lager e delle deportazioni? Vorremmo poter rispondere “ero lì, con gli altri, a resistere”.
Mettersi in mezzo è un’urgenza che parla a ciascuno di noi.
Se non ora, quando? Se non io, chi per me?