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Orrori quotidiani al CIE di Torino

Stefania Gatti è un giovane avvocato, al CIE di Torino, per visitare un suo assistito.
Mentre aspetta assiste ad una deportazione. Uno uomo viene condotto nell’atrio: ha con se tutte le sue cose e sa cosa lo aspetta. E’ tranquillo, sin troppo tranquillo. Poco dopo si sentono le urla dalla stanzetta in cui è rinchiuso. Quando si apre la porta Stefania vede l’uomo coperto di sangue: si è tagliato per cercare di evitare di essere imbarcato a forza su un aereo diretto a Tunisi. La sua vita è qui, non là. Dopo la medicazione viene comunque portato via.
I poliziotti si scusano con l’avvocato per il ritardo. “Sa, queste cose qui succedono tutti i giorni”.

Orrori quotidiani. La banalità del male di fronte alla quale l’indifferenza è complicità.

Ascolta la testimonianza di Stafania Gatti: Stefania
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L’Italia respinge in Grecia i profughi bambini

Dopo aver intervistato 29 bimbi e adulti respinti dai porti nostrani, Human rights watch ha stilato un rapporto in cui denuncia il comportamento delle autorità italiane che imbarcano in massa verso la Grecia profughi provenienti da paesi in guerra. Agli adulti non viene data la possibilità di fare domanda d’asilo, ai bambini non viene concessa l’ospitalità prevista dalle stesse leggi italiane.
In Grecia, i profughi, spesso provenienti dall’Afganistan, sono sottoposti ad abusi delle forze dell’ordine, condizioni detentive inumane e degradanti in un ambiente ostile, segnato da violenze xenofobe.
Nell’ultimo anno si sono moltiplicate le aggressioni contro gli stranieri dei neonazisti di “Xrisi Argi”, coperti e appoggiati dalla polizia. Solo le ronde antifasciste nei quartieri pongono un argine alle violenze naziste.
La maggior parte dei profughi considera la Grecia e l’Italia tappe di un viaggio con destinazione Gran Bretagna, Svezia, Norvegia, ma la legislazione europea, che impone di fare richiesta di asilo nel primo paese dell’Unione in cui si arriva, rende questo percorso molto difficile e rischioso.
Non è la prima volta che l’Italia entra nel mirino delle istituzioni umanitarie o transnazionali per il trattamento inflitto ad immigrati e richiedenti asilo.
Basti pensare alla condanna della corte di Strasburgo per tortura e trattamenti inumani per i respingimenti verso la Libia.

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Torino. Inganni e deportazioni

Giovedì 9 giugno. La questura da appuntamento a tutti in corso Verona per la consegna del permesso di soggiorno. Ma è solo un trucco. Cinquanta egiziani vengono sequestrati, portati nella sede centrale di via Grattoni dove viene comunicata loro l’espulsione.
Fuori dalla questura si raduna un piccolo presidio di parenti e antirazzisti, che sperano si possa ancora impedire la deportazione. La risposta della polizia è rapida e brutale: carica con tanto di lacrimogeni.
Gli egiziani, caricati a forza sui pullman vengono portati all’aeroporto di Caselle dove in serata è già pronto un volo speciale della Mistral Air, la compagnia che ha l’appalto dal Ministero per questo genere di operazioni.

Il governo, in difficoltà con il proprio stesso elettorato, dopo il risultati delle consultazioni amministrative, reagisce con la consueta combinazione di stupidità e ferocia.
Purtroppo la solidarietà concreta contro le espulsioni è ancora pratica di una piccola minoranza. A noi tutti l’impegno a farla crescere.
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Il gioco delle tre carte di Maroni

Da settimane il governo italiano – in prima fila il ministro dell’Interno Roberto Maroni – sta ballando tra Tunisi, Parigi e Berlino.
Alti funzionari dell’ENI viaggiano per la Cirenaica scossa dalla guerra per convincere il Governo di transizione a mantenere i contratti firmati da Gheddafi. Nel frattempo dalla Libia partono barconi pieni di profughi dal corno d’Africa. I primi dopo lo stop imposto dal trattato di amicizia italo-libica. Chi non ce la fa chiude la sua vita nella grande bara azzurra del Mediterraneo.
Maroni, Berlusconi e Frattini hanno provato senza troppo successo a comprarsi il governo tunisino. Dopo aver annunciato in pompa magna che Tunisi si riprendeva in blocco i 22.000 ragazzi sbarcati negli ultimi mesi in cambio di soldi e armi, il governo italiano è stato smentito da Essebsi. Sono seguite trattative convulse. Tunisi, dopo aver incassato i permessi temporanei per chi era già in Italia, non sta mantenendo l’impegno di fermare nuove partenze.
Nel frattempo è arrivato il no dell’Unione Europea alla libera circolazione dei tunisini provenienti dall’Italia.
La premiata ditta gabbie, respingimenti e deportazioni sta facendo acqua da tutte le parti. Maroni prova a fare il gioco delle tra carte tra Roma, Tunisi e Parigi. E perde.

Vi proponiamo le principali tappe di questa vicenda nella ricostruzione di TAZ laboratorio di comunicazione libertaria
“Il mare ne ha inghiottiti duecentocinquanta. Quella che si è consumata il 6 aprile è stata una delle peggiori tragedie – se mai fosse possibile stilare una classifica dell’orrore – tra quelle conosciute nel Canale di Sicilia. Il mare era agitatissimo, la presenza del barcone viene segnalata in acque maltesi, ma le autorità della Valletta non intervengono perché «impossibilitate». I soccorsi partono dunque dall’Italia: tre motovedette, un aereo e un elicottero. C’è anche il peschereccio mazarese “Cartagine” che riesce a recuperare tre persone. Il mare forza 6 e una falla nel barcone rendono tutto complicatissimo. Gli immigrati cadono in acqua, donne e bambini compresi, proprio durante i tentativi di trasbordo. Se ne salveranno solo quarantotto, per la maggior parte eritrei e somali.
Nel frattempo, la politica ha messo in scena le sue miserie. È entrato in vigore lo speciale decreto del presidente del consiglio con il quale viene riconosciuto a tutti gli immigrati tunisini presenti in Italia da gennaio uno speciale permesso di soggiorno della durata di tre mesi, concepito per garantire la libera circolazione all’interno dell’area di Schengen. Il provvedimento è stato varato partendo dal presupposto che la stragrande maggioranza dei tunisini approdati nelle ultime settimane a Lampedusa ha manifestato apertamente la volontà di andare in Francia o in Germania considerando l’Italia una testa di ponte. E proprio da Francia e Germania è arrivata la doccia fredda. Parigi ha dapprima contestato la legittimità dei permessi di soggiorno concessi dall’Italia, e poi è stata diramata una direttiva a tutte le prefetture d’Oltralpe che stabilisce requisiti molto rigidi per consentire l’apertura delle proprie frontiere ai tunisini. Stessa indisponibilità da parte della Germania, mentre la stessa Unione Europea – per mezzo di Cecilia Malmstrom, titolare del portafoglio interni della Commissione europea – ha chiarito che i permessi temporanei italiani non possono garantire la libertà di circolazione nell’area Schengen perché i tunisini sono migranti economici, e quindi sempre passibili di espulsione.
Non si pensi che, in tutto questo, il governo italiano sia formato da uomini giusti ma incompresi. L’accordo italo-tunisino voluto da Maroni prevede, infatti, che gli immigrati che arrivano in Italia da questo momento in poi vengano rimpatriati subito con procedure semplificate. Ovvero, deportazioni sbrigative dall’aeroporto di Lampedusa. In cambio, l’Italia donerà alle forze dell’ordine di Tunisi sei motovedette, quattro pattugliatori e un centinaio di fuoristrada per controllare meglio le coste e impedire nuove partenze. Un meccanismo che Maroni ha cinicamente descritto come una “chiusura del rubinetto”. Intanto, Lampedusa è stata evacuata dagli immigrati deportati nelle tendopoli allestite in Italia (specialmente al Sud), ma tutto è durato davvero poco perché gli sbarchi sono ripresi massicciamente.
Dalle tendopoli si riesce a scappare, specialmente a Manduria e Caltanissetta. Più blindata la tendopoli di Kinisia, nelle campagne fra Trapani e Marsala. Cinquecento immigrati vivono in un’area circondata da un doppio perimetro di rete metallica sorvegliato a vista da un agente in tenuta antisommossa ogni dieci metri, seduto su una sedia. Nonostante tutto, dieci immigrati sono riusciti a fuggire, ma solo in sei hanno effettivamente riconquistato la libertà.”
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Lampedusa. Sul confine della vergogna

Mercoledì 30 marzo. Oggi a Lampedusa è arrivato anche Berlusconi. Camicia nera, demagogia e promesse. Adesso che c’è lui tutto andrà a posto. Finora “non aveva le idee chiare” ma ora sa cosa si deve fare e lo sta facendo. Sgombero dell’isola, pulizia, rimpatri, agevolazioni fiscali e anche la candidatura al Nobel per la Pace. Su questo scoglio di frontiera la neolingua del premier chiama pace la guerra. Intanto la premiata ditta gabbie e polizia è all’opera. Tendopoli miserabili, e la minaccia dei rimpatri. Sempre che il governo di Tunisi sia in grado di mantenere gli impegni presi con Maroni e Frattini e di incassare il premio pattuito.

Vale la pena leggere la cronaca e l’analisi dalla Sicilia di Taz, laboratorio di comunicazione libertaria.

Alla fine ci sono riusciti. Con le rivolte del Nordafrica e con lo scoppio della guerra dichiarata dalle potenze occidentali alla Libia, l’aumento degli sbarchi di immigrati e profughi nell’isola siciliana di Lampedusa è servito al governo italiano per non gestire una situazione che si è trasformata, inesorabilmente, in una emergenza. Nel momento in cui scriviamo, le presenze di immigrati a Lampedusa hanno superato le 6.000 unità. Davvero una quantità considerevole se si pensa che i lampedusani residenti sono, abitualmente, cinquemila. In realtà, il vero problema è un altro, e cioè le condizioni inumane nelle quali il governo ha abbandonato al loro destino gli immigrati e, insieme a loro, la popolazione autoctona. Per giorni e giorni il governo ha indugiato nel predisporre un piano sostenibile per un’accoglienza decente e per la progressiva evacuazione dell’isola, e così – a fronte di una oggettiva intensificazione degli sbarchi – non si è provveduto a un contestuale decongestionamento di Lampedusa. Una volontà politica criminale che discende direttamente dalla generale impostazione repressiva delle leggi in materia di immigrazione in Italia. L’emergenza-Lampedusa rappresenta un quadro, grottesco e realistico nello stesso tempo, della pericolosità sociale di chi sta governando il paese. A Lampedusa gli immigrati sono stati dapprima stipati nel Centro di prima accoglienza, pieno fino all’inverosimile (1.500 persone), altri 450 nella ex base Loran, 420 nelle strutture ecclesiastiche, e ben 4.000 nella stazione marittima, nell’area del porto e sulla “collina della vergogna” dove essi stessi hanno improvvisato un accampamento. Si tenga presente, giusto per fare un esempio, che a Lampedusa per alcuni giorni 2.000 immigrati non hanno mangiato perché la cooperativa che gestisce il Centro è abilitata a fornire un massimo di 4.000 pasti. Inevitabili le proteste dei migranti, e altrettanto inevitabile la reazione rabbiosa dei lampedusani: dapprima i blocchi del porto con la volontà di non fare attraccare più alcun barcone, e poi l’occupazione dell’aula consiliare del Comune in segno di protesta. A fare da sfondo a tutto questo, il radicato sentimento di frustrazione della popolazione isolana, di fatto costretta a subire le scelte dissennate del governo centrale. Il conflitto si sta consumando, pur nella sua fisiologica ritualità, anche a livello istituzionale, con la Regione siciliana – presieduta dal governatore Lombardo – che ha denunciato le mancate promesse da parte del Ministro dell’Interno Maroni in direzione di una distribuzione degli immigrati su tutto il territorio nazionale. D’altra parte, quel galantuomo di Umberto Bossi ha sbrigativamente liquidato l’argomento auspicando che gli immigrati se ne vadano «fuori dalle palle» il prima possibile.
Infatti, dopo che l’emergenza è stata creata ad arte, il governo ha giocato un’altra, incredibile, carta: le tendopoli. Tredici siti di proprietà demaniale (per lo più di origine militare) sarebbero stati individuati in tutta Italia per allestire accampamenti destinati alla “sistemazione” dei migranti (il governo ci ha già abituati a questo genere di provvedimenti sull’onda delle “emergenze”). Ancora una volta però, sembra che siano solo la Sicilia e il Sud a dover sostenere il peso di questa strategia terroristica del governo. Le tendopoli in fase di allestimento potrebbero contenere 800 persone ciascuna, e si trovano a Manduria (in provincia di Taranto), a Caltanissetta (vicino al Centro di identificazione ed espulsione) e a Kinisia, vicino Trapani. In quest’ultimo caso, si tratta dell’area dell’ex aeroporto militare, a pochissima distanza dall’attuale base militare di Birgi (da dove partono i Tornado italiani che fanno la guerra in Libia). L’ex aeroporto di Kinisia si trova in aperta campagna, è un edificio diroccato e abbandonato, e la tendopoli sarà montata sulla pista e in tutta la vasta area circostante. Anche qui, la popolazione locale ha già dato segni di pericolosa insofferenza bloccando i mezzi dei vigili del fuoco per impedire la realizzazione dell’accampamento. I trapanesi che vivono nella tranquilla periferia rurale della città non vogliono gli immigrati “per non fare la fine di Lampedusa”, “perché abbiamo paura”, “perché temiamo per i nostri bambini”. Reazioni scomposte e irrazionali che si aggiungono alla rabbia per il danno economico derivato dalla forzata (prima totale poi parziale) chiusura dell’aeroporto civile a seguito dell’inizio delle operazioni di guerra. Al di là di questa brutta piega che stanno prendendo gli eventi, non si può ignorare come la Sicilia occidentale si confermi un terreno di inaudita sperimentazione repressiva sulla pelle degli immigrati. A Trapani ci sono già un Centro d’Identificazione ed espulsione (Cie) e un Centro richiedenti asilo, entrambi colmi. E poi c’è il nuovo Cie di contrada Milo, in fase di ultimazione.
Dall’altra parte dell’isola, c’è il “Villaggio della solidarietà” (ex residenza dei militari Usa di Sigonella) a Mineo, in provincia di Catania. Anche in questo caso, l’approssimazione si è accompagnata a un innalzamento ingiustificato della tensione e dell’ingestibilità. Adesso quello di Mineo è ufficialmente un Centro per richiedenti asilo (CARA), era stato concepito per trasferirvi i rifugiati già presenti in tutti i Centri italiani, ma poi – con l’emergenza – ha finito con l’ospitare anche alcuni immigrati subsahariani appena arrivati a Lampedusa.
Ed è qui che – mentre scriviamo – si aspetta l’arrivo di sei navi (una militare, la San Marco, e altri cinque traghetti) per l’immediata evacuazione dell’isola, dopo settimane di incuria e lassismo. Ma è davvero concreta la sensazione che, in tutta questa vicenda, gli immigrati siano trattati come pacchi postali da ri muovere, deportare e parcheggiare senza alcun criterio di umanità.
All’origine di questo scempio ci sono molti fattori. Le leggi razziste, innanzitutto, che rendono materialmente impossibile la vita degli immigrati marchiati come “irregolari”. Se ci si potesse spostare liberamente, la maggior parte di questi problemi non ci sarebbero. Le persone non sarebbero considerate “extracomunitarie”, né si creerebbero pretestuose distinzioni tra “clandestini”, “profughi” e “richiedenti asilo” con tutta la burocrazia assassina che ne deriva. E poi c’è la situazione internazionale. Non è possibile pretendere che le persone non cerchino di fuggire dalle situazioni di pericolo o di precarietà. Le rivolte nel Maghreb e l’instabilità sociale e politica in Tunisia ed Egitto sono tutti motivi più che comprensibili per emigrare. Infine, non bisogna dimenticare che siamo in guerra. I paesi occidentali hanno scatenato l’intervento militare in Libia, l’Italia si è accodata volentieri in questa impresa scellerata, e adesso si pretende di non avere a che fare con le sue conseguenze disastrose.
Agli anarchici spetta un compito epocale, quello di fare fronte a questa deriva infame. In questa fase la lotta antirazzista non può prescindere da un rilancio dell’attività antimilitarista. In entrambi i casi occorre lavorare nel corpo sociale per arginare gli effetti nefasti del terrorismo mediatico con cui il governo dipinge gli immigrati come pericolosi invasori, descrive l’intervento in Libia come un provvedimento umanitario, impaurisce e distrae l’opinione pubblica costruendo a tavolino le situazioni emergenziali per poi giustificare strette repressive e discriminatorie assolutamente devastanti.
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Il prezzo di Tunisi: 150 milioni di euro

Venerdì 25 marzo. Maroni e Frattini, in visita a Tunisi, hanno fatto un’offerta di quelle che non si possono rifiutare. Un credito sino a 150 milioni di euro più pattugliatori e uomini della Guardia di Finanza per l’addestramento. In cambio il governo tunisino ha promesso di fermare le partenze verso l’Italia. Nel pacchetto sottoscritto dal premier Essebsi anche un impegno per i rimpatri.
Vi ricorda niente? Il governo italiano fece con il governo libico un accordo del tutto simile.
I libici a dire il vero offrivano il servizio completo: respingimenti, galere, abbandono nel deserto.
Ne sanno qualcosa i profughi di guerra eritrei rinchiusi per anni nelle prigioni di Misurata e di Brak. Chi volesse rinfrescarsi la memoria sul quell’accordo se lo può rileggere sul sito della Camera dei deputati.
È significativo che sinora non siano approdati a Lampedusa i fantomatici profughi libici, mentre da ieri le agenzie battono la notizia di un barcone con trecento eritrei forse disperso in mare. Sarebbero i primi profughi di guerra ad arrivare in Italia dopo l’accordo italo-libico.
Chi sa? Forse la crisi libica ha riaperto la rotta del Mediterraneo.
Sarebbe interessante sapere se i pattugliatori donati dal governo italiano alla Libia siano ancora in azione sulle coste della Tripolitania. In settembre, quando uno di questi mezzi aprì il fuoco su un peschereccio di Mazara del Vallo, a bordo c’erano sei uomini della Guardia di Finanza. Saranno rientrati in Italia o sono ancora lì, fianco e fianco con le guardie del Colonnello?
Sapremo nelle prossime settimane se governo tunisino sarà in grado di mantenere gli impegni presi con Maroni e Frattini – incassando così il proprio compenso – o dovrà fare marcia indietro. Se il vento delle recenti rivolte soffia ancora potrebbe non essere facile.
Un fatto è certo: i conti non tornano. Se le cifre diffuse dal ministero dell’Interno sono vere, se negli ultimi due mesi e mezzo sono sbarcati 15.700 tunisini, ne mancano parecchi all’appello. Solo una minima parte è stata trasferita nei CIE o nei CARA o nel “residence degli aranci” di Mineo. Tre/quattromila li smisteranno nelle varie regioni nei prossimi giorni.
E gli altri? O le cifre degli sbarchi sono state volutamente gonfiate oppure i tunisini fantasma sono andati ad ingrossare – in Italia e in Francia – le file dei senza carte, che campano lavorando in nero.
Il contrasto dell’immigrazione illegale è il pedaggio da pagare ad un elettorato cresciuto nell’odio e nella paura dei “clandestini” e, allo stesso tempo, il mezzo per disciplinare i lavoratori stranieri. Con o senza carte.
Padroni e padroncini ringraziano per l’arrivo di carne fresca da mettere al lavoro. Senza tutele, senza orari, senza pretese.
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Mineo. Il governo fa marcia indietro

Mercoledì 23 marzo. Ieri vi abbiamo raccontato della deportazione a Mineo dei primi tre richiedenti asilo provenienti dal CARA di Gradisca. Gli altri, blanditi con promesse di casa e lavoro, si stavano abituando all’idea del prossimo trasferimento. Oggi, all’improvviso, è arrivato il contrordine “non partite più”.
I media stanno diffondendo la notizia che il governo avrebbe fatto marcia indietro, rinunciando a concentrare a Mineo tutti i residenti asilo ospitati nei CARA. Oggi hanno cominciato a trasferire i 600 tunisini, imbarcati ieri dalla S. Marco, al “Residence degli aranci”.
Sempre oggi sei voli speciali da cento persone l’uno sarebbero partiti da Lampedusa.
Per quale ragione il governo avrebbe attuato un così rapido cambiamento di rotta?
È possibile che sia stata una questione di tempo.
Le operazioni di trasferimento dai CARA a Mineo stavano andando a rilento: in alcune località, come Roma, la resistenza dei richiedenti asilo e delle associazioni antirazziste stava mettendo i bastoni tra le ruote al ministero dell’Interno. Sul piano istituzionale il presidente della Regione Puglia, Vendola, ha scritto a Maroni denunciando le condizioni disumane in cui avvenivano i trasferimenti dal CARA di Bari a Mineo.
Nel frattempo la situazione a Lampedusa, già grave, stava diventando esplosiva, rendendo difficile tergiversare ancora.
Ancora non è chiaro lo status dei tunisini portati a Mineo: con ogni probabilità saranno considerati clandestini.
L’ambiguità deriva dalle dichiarazioni dello stesso ministro, che ha detto chiaramente che solo i libici hanno diritto a chiedere asilo, mentre i tunisini sono immigrati illegali. Tuttavia sinora la struttura di Mineo ha funzionato come centro per richiedenti asilo. La trasformeranno in un CIE?
Un richiedente asilo, trasferito negli ultimi giorni al “residence degli aranci” da una delle tante strutture della penisola, si è messo in contatto con gli antirazzisti della zona da cui proveniva. Ha raccontato che la situazione è molto tesa: alcuni sarebbero fuggiti, altri hanno inscenato proteste.
Un quadro che potrebbe complicarsi quando la struttura raggiungerà la massima capienza. D’altro canto al ministero dell’interno sono criminali ma non stupidi: immaginavano sin troppo bene che bomba avrebbero innescato concentrando a Mineo duemila tunisini.
Per questo hanno cercato sino all’ultimo di evitarlo.
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Da Lampedusa a Mineo. Frontiere d’odio

Venerdì 18 marzo. A Lampedusa si susseguono gli sbarchi, il centro di accoglienza è al collasso. Nonostante le contestazioni che hanno accolto la visita di due campioni dei diritti umani quali Mario Borghezio e Marine Le Pen, nell’isola soffia forte il vento dell’odio e della paura. In queste ore un centinaio di isolani ha cercato di impedire l’attracco di una barca carica di immigrati.
A Mineo ha aperto i battenti il Villaggio della Solidarietà. Il governo ha deciso di concentrarvi tutti i residenti asilo dei CARA, per poter velocemente riconvertire a CIE i CARA. Nuova linfa per la premiata ditta galera e deportazione. I primi tre sono giunti in auto da Trapani, altri 157 li hanno deportati da Bari.
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Lenzuola annodate

Brescia, sabato 18 dicembre. La vendetta dello Stato contro gli immigrati più attivi nella lotta contro la sanatoria truffa non accenna a placarsi: retate, fermi, deportazioni. Per fortuna non sempre le ciambelle riescono con il buco. Noureddine ed Andrei, fermati e portati al CIE di Modena, perché la loro domanda di regolarizzazione è stata respinta, sono stati liberati per un vizio di forma. Ascolta Noureddine e Andrej ai microfoni di radio Onda D’urto.
Immigrati e antirazzisti si preparano alle festività di fine anno annunciando che non ci sarà nessuna tregua natalizia. Sabato pomeriggio c’è stato un presidio davanti alla stazione e all’interno del centro commerciale “Freccia Rossa”.

Torino, sabato 18 dicembre. Presidio antirazzista in piazza Castello per parlare delle ultime lotte al CIE di Torino, delle rappresaglie a Brescia, di Eldhy lasciato senza cure e morto in una cella gelida… ossia dell’Italia al tempo dei lager. Si conclude con un giro informativo in via Garibaldi e poi al mercatino davanti al comune. Leggi qui il volantino distribuito per l’occasione. Ascolta l’intervista a radio Onda d’Urto di una compagna della Rete “10 luglio antirazzista”.

Malpensa, sabato 18 dicembre. Una cinquantina di persone hanno dato vita ad un corteo contro le deportazioni all’aeroporto di Malpensa. La polizia, presente in forze, non ha permesso ai manifestanti di entrare nel terminal. Un gruppetto armato di striscione e volantini è comunque riuscito a passare. I manifestanti hanno ricordato la vicenda di “Mimmo”, deportato per aver partecipato alla lotta degli immigrati bresciani. Un cartello invitava al boicottaggio delle compagnie che collaborano alle espulsioni. Qui trovi il volantino di indizione e qui puoi leggere un resoconto della giornata.

Milano, domenica 19 dicembre. Ci hanno provato in undici, ma solo quattro sono riusciti a riguadagnare la libertà, fuggendo dal CIE di via Corelli. Lenzuola annodate e poi e poi via, lontano.

Tante iniziative nell’auspicio che tante altre lenzuola si annodino, che cresca la solidarietà e la resistenza alla barbarie.
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Milano. Una Torre davanti alla Scala

Martedì 7 dicembre. C’erano i lavoratori dello spettacolo, c’erano gli studenti in lotta contro la riforma Gelmini, c’erano anche gli immigrati e gli antirazzisti. E c’era una torre di legno e cartone, simbolo della ciminiera di via Imbonati occupata per 28 giorni da immigrati in lotta contro la sanatoria truffa. Da questa torre gli immigrati hanno raccontato le loro storie di lavoratori/schiavi e della lotta contro un apparato legislativo che picchia duro chi non si inginocchia. Nelle stesse ore, dall’aeroporto di Bologna veniva deportato Abder, uno dei due immigrati rimasti sino allo stremo sulla torre.
La risposta della polizia non si è fatta attendere: una prima carica ha accolto un gruppo di studenti che arrivava in piazza, una seconda prendeva alle spalle i manifestanti che erano già lì. Studenti, lavoratori, immigrati antirazzisti hanno resistito alle cariche: la giornata si è conclusa con un corteo spontaneo sino a S. Babila.
In via Imbonati il presidio degli immigrati continua. Giorno e notte. Continua a leggere

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Deportato il ragazzo della torre

7 novembre. La vendetta dello Stato non si è fatta attendere. Abder, il ragazzo marocchino che, insieme all’italoargentino Marcelo, aveva resistito per 28 giorni sulla torre di via Imbonati a Milano, è stato trasferito dal CIE di Modena all’aeroporto di Bologna e da lì deportato in Marocco.
Abder ha una sola colpa: aver lottato per emergere dalla clandestinità, aver lottato contro un sistema che vuole gli immigrati schiavi per legge. Questo governo non fa sconti a nessuno: lo ha dimostrato espellendo in Egitto gli immigrati rastrellati sotto la gru a Brescia e chi, come “Mimmo”, cercava di impedirlo, lo dimostra oggi, presentando un conto salato ad Abder. Bisogna prenderne atto e allargare la rete di solidarietà attiva a chi lotta. È una scommessa che non possiamo permetterci di perdere. Continua a leggere

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