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Due giorni di rivolta al CARA di Mineo

Nel CARA di Mineo sono ammassati oltre quattromila richiedenti asilo. La struttura di Mineo non ne potrebbe accogliere più di 2000. Venne aperta nel 2011 durante la guerra per la Libia per fare fronte all’ondata di profughi che approdarono a … Continua a leggere

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Fiamme al CIE di Torino

Sabato 22 febbraio. In prima serata alcuni reclusi tentano di scappare scavalcando le grate, ma vengono ripresi dalla polizia. La reazione degli altri prigionieri non si fa attendere: alcuni salgono sui tetti, altri incendiano le camerate di alcune sezioni. La polizia spara tanti gas lacrimogeni da rendere l’aria irrespirabile anche nelle zone vicine al CIE.
Un gruppetto di solidali si raduna sotto il CIE ma viene caricato da una squadra dell’antisommossa aizzata da una delle vicine di casa del CIE, indignata per la rumorosa solidarietà degli antirazzisti. Nessun turbamento per le urla, il gas e la violenza della polizia oltre il muro.
Il giorno dopo quattro rivoltosi saranno arrestati e condotti in carcere.
Domenica 24 va a fuoco l’area gialla. 20 dei 35 reclusi sono obbligati a dormire nei locali della mensa.
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Torino. Fuga dal CIE

Giovedì 22 settembre. La notte scorsa i prigionieri del Centro di Identificazione ed espulsione di corso Brunelleschi hanno tentato una fuga di massa. La seconda in meno di un mese.
In contemporanea hanno tentato di abbattere le porte delle recinzioni delle varie sezioni. In parecchi hanno scavalcato dall’uscita secondaria di corso Brunelleschi.
Alcuni ce l’hanno fatta, altri sono stati riacciuffati. Secondo La Stampa on line hanno riconquistato la libertà in 22, mentre altri 7 sono stati tratti in arresto con l’accusa di resistenza e lesioni.
Durante la notte, alcuni abitanti affacciati al balcone di corso Brunelleschi gridavano ai poliziotti “almeno questi li avete ripresi”.
Come in videogame. Un gioco feroce dove si smarrisce l’umanità.
Oltre quelle gabbie ci sono uomini e donne. Chi lo dimentica è complice.
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Lampedusa. I semi dell’odio

Giovedì 22 settembre. Dopo aver bruciato la gabbia che li rinchiudeva 1300 immigrati hanno trascorso la notte all’aperto. Mercoledì 21 si sono mossi in corteo gridando “Libertà! Libertà!”. Un gruppo ha preso della bombole del gas minacciando di farsi saltare: alcuni isolani li hanno presi a sassate, i ragazzi hanno risposto. La polizia li ha caricati e pestati selvaggiamente. Un video mostra i poliziotti che picchiano i tunisini obbligandoli a saltare un muro alto tre metri.
Il sindaco De Rubeis che non ha esitato a minacciare violenze definendo “delinquenti” i rivoltosi, ha raccolto i frutti avvelenati della sua propaganda d’odio.
Secondo quanto riferisce il Gazzettino vi sarebbero stati alcuni tentativi di linciaggio da parte di gruppi di lampedusani inferociti. Anche la troupe di Sky e quella della RAI avrebbero subito attacchi da parte di alcuni isolani.
Un tunisino è stato ferito gravemente e trasferito con l’elisoccorso in ospedale a Palermo
Maroni è corso ai ripari iniziando i trasferimenti. Undici immigrati sono stati arrestati e rinchiusi nel carcere di Agrigento con l’accusa di incendio, danneggiamento e resistenza a pubblico ufficiale.

Di seguito la cronaca di mercoledì 21 curata da TAZ laboratorio di comunicazione libertaria

I fatti di Lampedusa suscitano rabbia e amarezza. È successo quello che era prevedibile e che, per certi versi, è stato voluto a tutti i costi.
Più di mille persone concentrate in uno spazio ristretto e senza un motivo comprensibile non possono che perdere la testa. Per la gran parte tunisini, gli immigrati del CPSA di Lampedusa sono destinati a essere rimpatriati. Ma negli ultimi giorni, il consolato tunisino ha tirato il freno a causa del raggiungimento del tetto massimo di trasferimenti. I tempi lunghi della detenzione e la stessa prospettiva di essere rispediti in un paese oggettivamente insicuro per via della transizione politica del dopo-Ben Alì, hanno acceso la miccia dell’esasperazione. Martedì 20 settembre gli immigrati prigionieri a Lampedusa hanno dato fuoco al centro di “accoglienza” distruggendolo completamente. Dopo di che, si sono riversati in paese cercando in qualche modo di manifestare il loro dissenso per una condizione che è davvero inaccettabile. Così come è inaccettabile l’ipocrisia di tutto questo sistema che faceva dire al ministro della difesa La Russa, solo pochi giorni fa, che a Lampedusa tutto va bene e che gli immigrati non hanno niente di cui lamentarsi. Poi, come succede in tutti i campi di internamento per stranieri, una volta finita la visita ufficiale di questa o quell’autorità, i pasti serviti tornano a essere la solita schifezza, e le false premure di sbirri e inservienti ridiventano insulti e botte.
A Lampedusa è successo quello che non doveva succedere: scontri tra immigrati e popolazione locale. Forse è il primo caso eclatante di scontri razziali in Italia. Pare che alcuni tunisini prima abbiano fatto irruzione in un ristorante della zona del porto per poi minacciare di far saltare in aria delle bombole del gas, di quelle che si usano in cucina. A quel punto, il fronteggiamento con i lampedusani si trasforma in battaglia: gli isolani attaccano gli immigrati a sassate, gli immigrati rispondono, uomini si scagliano contro altri uomini. Poi la polizia carica gli immigrati, e ci sono immagini che mostrano l’accanimento vigliacco contro una folla con le spalle al muro che sfugge alle manganellate buttandosi da un’altezza di tre metri. Non tanto, forse. Ma quanto basta per farsi davvero male in una situazione di panico generalizzato.
Disgustosa, come sempre, la figura di Bernardino De Rubeis, sindaco di Lampedusa, che non ha perso occasione di spargere a piene mani i semi dell’odio parlando di una guerra in atto, e della capacità dei lampedusani di attrezzarsi in tal senso. E infatti, De Rubeis si è dovuto asserragliare nel suo ufficio, sorvegliato da agenti di polizia, perché all’esterno alcuni compaesani volevano prenderlo a sberle. Perché? Non perché sia un personaggio impresentabile; non perché sia stato indagato e arrestato per concussione; non perché fino a qualche mese fa aveva accolto in pompa magna Berlusconi reggendogli il gioco nelle sue sceneggiate propagandistiche. I lampedusani vogliono la pelle di De Rubeis perché, secondo loro, è stato troppo “morbido” nella gestione del problema-immigrazione. E così, De Rubeis ai giornali ha detto di sapersi difendere, con una mazza di baseball custodita in ufficio.
L’abbrutimento di Lampedusa è il frutto avvelenato della politica del governo italiano che continua a gestire l’immigrazione in maniera folle. Ora, al di là della scientifica criminalità delle leggi liberticide che reprimono i flussi migratori, a Lampedusa i problemi vengono ulteriormente esacerbati e ingigantiti dal pressappochismo, dalla trascuratezza, dalla volontà di rendere impossibili anche le cose semplici.
Nell’esasperazione collettiva di Lampedusa, la strada della solidarietà umana viene abbandonata in favore della scorciatoia razzista e rabbiosa. E non sappiamo quanto tutto questo possa essere davvero recuperato, stando così le cose.
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Bari. Otto ore di rabbia

Lunedì 1 agosto, Bari palese. È rivolta. Esplode la rabbia degli stranieri “parcheggiati” nel C.A.R.A., il centro per richiedenti asilo di Bari. Attendono, giorno dopo giorno, in un limbo del tutto simile ad un carcere, il riconoscimento dello status di rifugiati.
Dall’inizio dell’anno è iniziato l’iter solo per solo 506 delle 3731 domande presentate a Bari.
Da mesi attendono di sapere se avranno o meno il pezzo di carta, che per la legge, fa la differenza tra esistere e non esistere.
Non ne possono più. Sono stanchi del silenzio, della mancanza di risposte, dell’impossibilità di spostarsi altrove, di costruirsi una vita, di cercare un lavoro che non sia la schiavitù riservata a chi non ha diritti da far valere.
In 200 scendono in strada all’alba. Prima incendiano materassi e suppellettili nel centro che, nonostante le porte aperte, somiglia sin troppo ad una gabbia.
Otto ore di rabbia. Occupano la stazione e bloccano il traffico sulla statale, gridando “libertà. La polizia risponde con lacrimogeni e manganelli.
Due giorni dopo era prevista la riunione di una commissione tecnica cui avrebbe partecipato anche il sottosegretario Mantovano: loro miravano a far pressione per ottenere il permesso per motivi umanitari.
Mantovano, dopo la rivolta, annuncerà l’istituzione di una seconda commissione per sveltire le procedure ma – al tempo stesso prometterà “tolleranza zero”.

Il bilancio della giornata è pesante: una ventina di manifestanti feriti e 28 arrestati.
Intanto i media parlano di un’indagine volta a svelare una regia nazionale delle rivolte. Negli stessi giorni nei CARA del sud serpeggia la rivolta da Mineo a S. Anna di Capo Rizzuto, dove la sera stessa i richiedenti asilo scendono in strada, bloccando la statale 106 jonica. La polizia carica e due manifestanti vengono arrestati.
I media parlano di “infiltrati”, sostenendo che la rivolta era “troppo” ben pianificata e si era dimostrata la conoscenza di “tattiche di guerriglia”.
Come sempre, per chi ha il potere e per i tutori dell’ordine costituito, l’azione diretta autorganizzata è qualcosa di difficile da mandare giù.
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Palazzo S. Gervasio. Muri, ciabatte, rivolte e censura

Palazzo S. Gervasio. Qui, in provincia di Potenza sorge una delle tante tendopoli/CIE messe su in fretta e furia da Maroni, quando è stato chiaro che l’Unione Europea non aveva alcuna intenzione di farsi carico delle migliaia di profughi e migranti stipati a Lampedusa.
Nato il primo aprile come centro di accoglienza è stato trasformato in CIE “temporaneo” con un decreto del consiglio dei ministri del 21 aprile. Stessa sorte della tendopoli di Kinisia in provincia di Trapani e dell’ex caserma Andolfato, chiusa dopo l’incendio dell’8 giugno.
Qui cose banali come visite di avvocati, giornalisti o amici sono un miraggio.
Raffaella Cosentino nel suo reportage su questo blocco di cemento a filo spinato al confine tra Basilicata a Puglia scrive “Isolati nelle campagne lucane al confine con la Puglia, i giovani della rivoluzione dei gelsomini vedono svanire in un incubo il sogno dell’Europa. “Ammar 404” era il nome dato alla censura del dittatore Ben Alì dagli internauti tunisini. 1305 è il numero della circolare interna del Viminale che instaura la censura sui centri per migranti in Italia a partire dal primo aprile, vietandone di fatto l’accesso ai giornalisti ‘fino a nuova disposizione’. In questo momento è più facile entrare in un carcere di massima sicurezza che in una tendopoli.”
Secondo la Questura tutto va bene e i ragazzi tunisini chiusi dietro al filo spinato vivono nel migliore dei mondi possibili.
Dopo due mesi la giornalista di Repubblica è riuscita ad ottenere dalla Prefettura di Potenza il permesso di parlare ai reclusi dietro le spesse maglie metalliche della prima recinzione. Il articolo, arricchito da un video fatto filtrare dai reclusi racconta un storia diversa.
Qui nessuno ha più le scarpe: gliele hanno sequestrate per impedire loro di imitare la trentina di ragazzi che si sono arrampicati, hanno saltato la recinzione, guadagnandosi la strada per proseguire il viaggio.
Quelli di Connecting People, che hanno preso in gestione la struttura senza alcuna gara di appalto, non forniscono neppure i moduli per la richiesta di asilo.
Per loro l’unico problema dei reclusi è la mancanza di peperoncino nel cibo.
Il video passato alla giornalista di Repubblica mostra una rivolta e un tentativo di fuga di massa: ci sono immigrati feriti e agenti in tenuta antisommossa.
Checché ne dicano secondini prezzolati di Connecting People, l’unica fame vera è quella di libertà.
Guarda il video sul sito di Repubblica.
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Rivolta e incendio al CIE di Santa Maria Capua Vetere

Giovedì 9 giugno. Nella notte tra martedì 7 e mercoledì 9 è scoppiata una rivolta nel nuovo CIE/tendopoli nell’ex caserma Andolfato. La scintilla le botte e gli sfottò verso un giovane immigrato che chiedeva di poter tornare a casa per il funerali del fratello.
La risposta della polizia è stata durissima: cariche, botte e lancio di lacrimogeni.
I lacrimogeni avrebbero innescato un incendio, che ha distrutto buona parte delle tende del CIE.
Completamente diversa la versione della polizia che accusa gli immigrati di aver incendiato le tende per coprire un tentativo di fuga.
Secondo il Corriere del Mezzogiorno la procura ha messo sotto sequestro il CIE e i 98 immigrati tunisini – venti dei quali malconci dopo gli scontri e l’incendio – sono stati trasferiti.
Repubblica riferisce che gli immigrati sarebbero stati prelevati nella notte e trasferiti in altre strutture dell’Italia meridionale. Secondo gli avvocati che hanno seguito per l’intera nottata la vicenda una trentina di loro dovrebbero ottenere il permesso, altrettanti hanno qualche possibilità, mentre per gli altri sarebbe certa l’espulsione.
Un fatto è certo. C’è un CIE di meno.
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Restinco. Fiamme, repressione e una gola tagliata

Restinco, 21 marzo. Sono inagibili buona parte delle camerate del CIE brindisino, teatro di una rivolta scoppiata nella notte tra lunedì 14 e martedì 15 marzo. Buona parte delle camerate sono state investite dalle fiamme: per bloccare i tunisini protagonisti della sommossa, la questura ha dovuto inviare, oltre ai vigili del fuoco, anche poliziotti dell’antisommossa e della digos.
I giornali danno notizia dell’incendio che ha distrutto il CIE solo sabato 19 marzo.
Gli immigrati sono stati ammassati nella sala mensa. Anche qui, è il modello Gradisca che fa scuola.
Lo dimostra la mancata chiusura del centro annunciata nei giorni scorsi da numerosi giornali. Il capo di gabinetto della prefettura, Erminia Cicoria, dice testualmente: “Restano lì dove sono”. Una chiusura momentanea del Centro salentino non è al momento in agenda.
Nella tarda serata di domenica 20 marzo un ragazzo tunisino si è tagliato la gola, dopo una discussione molto animata con l’ispettore del centro, che lo aveva preso di mira, con amenità del tipo “mi scopo tua sorella”. L’ambulanza venuta a soccorrere il ferito è stata mandata indietro dal medico del CIE. Il ragazzo si troverebbe ora in infermeria. Gli altri reclusi hanno annunciato uno sciopero della fame.
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Gradisca. A terra, come bestie

Gradisca, 1 marzo. Il CIE è ormai inagibile da giorni: le rivolte e gli incendi della scorsa settimana hanno distrutto quasi tutto. Restano in piedi le aree comuni e una stanza da soli otto letti, per i cento immigrati.
Maroni non sa più che pesci prendere: i CIE sono stracolmi e non c’è più posto da nessuna parte. Ammettere il fallimento nelle politiche repressive verso i clandestini sarebbe uno smacco troppo grande per un Ministro dell’Interno leghista, che sulla “durezza” verso gli immigrati ha costruito gran parte delle proprie fortune. Per questo, infischiandosene allegramente delle condizioni di vita dei reclusi, Maroni fa finta che nulla sia capitato.
Maroni deve anche fare i conti con la Questura goriziana, che da tempo vuole che il CIE sia chiuso durante i lavori di ristrutturazione e mal tollera la scelta di mantenere comunque aperta la struttura.
Viene il dubbio che la scarsa solerzia dimostrata durante l’ultima rivolta – gli stessi reclusi davano per spariti i poliziotti – non sia stata del tutto casuale.
Domani i poliziotti dell’UGL faranno un presidio alla prefettura di Gorizia per protestare contro il mancato intervento del Viminale. Naturalmente agli uomini e alle donne in divisa non importa nulla degli immigrati: vorrebbero solo più personale, per evitare che tocchi a loro occuparsi di “questa tipologia di persone”. Una tipologia con spiccata attitudine alla resistenza, alla rivolta, alla libertà.
A rendere la vita difficile al povero Maroni ci si mettono anche gli antirazzisti, che provano a rompere il muro di silenzio che circonda i CIE.
Questa mattina sul sito di Fortresse Europe sono comparse alcune foto scattate il primo marzo nel CIE di Gradisca. I prigionieri dormono e mangiano in terra, in giacigli di fortuna, come bestie.
Vale la pena di far girare queste immagini, perché tutti sappiano quello che succede all’interno dei moderni lager della democrazia.
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Fiamme nell’area gialla del CIE di Torino

Lunedì 28 febbraio. Un incendio è divampato questa sera nell’area gialla del CIE di Torino. In quest’area sono concentrati parecchi immigrati sbarcati a Lampedusa dalla Tunisia.
Gran via vai di vigili del fuoco e auto della polizia intorno alla struttura di corso Brunelleschi.
Il vento di rivolta che attraversa le prigioni per immigrati diventa sempre più forte.
Seguiranno aggiornamenti.
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CIE di Gradisca. Demolito, stanza dopo stanza

Gradisca, domenica 27 febbraio.
“A quasi cinque anni dall’apertura, passati tra continue rivolte, atti di autolesionismo e violente repressioni, il CIE di Gradisca d’Isonzo è stato distrutto dai suoi stessi reclusi molti dei quali provengono dalle rivolte nordafricane.”

Questo l’incipit del comunicato dei compagni del Coordinamento Libertario Isontino. Ed è anche l’epilogo di una vicenda cominciata il 7 marzo del 2006, quando tra scontri, botte e lacrimogeni, venne fatto entrare a forza il primo “ospite” della ex caserma Polonio.
Negli ultimi tre giorni i reclusi hanno dato alle fiamme la loro prigione, demolendola, stanza dopo stanza. Nel pomeriggio di oggi sono andate a fuoco altre sei camere. Per i 105 “ospiti” restano solo 8 letti: gli altri sono ammassati senza nulla nelle aree comuni.
Un’altra bella manciata di sabbia è stata lanciata nel motore della macchina delle espulsioni.
Giornata di informazione e lotta il 12 marzo al CIE di Gradisca.
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CIE: rivolta a Gradisca, sciopero della fame a Torino

Dopo un periodo di relativa calma la rabbia degli immigrati torna a esplodere nella struttura gradiscana.
Non sappiamo quando sia iniziata la rivolta.
Un’attivista antirazzista che passava di lì riferisce che intorno alle 20 al di là delle mura si vedeva un gran fumo. Poi sono arrivati i vigili del fuoco e un’ambulanza.
L’onda lunga delle proteste che investono da giorni numerosi CIE, da Bari a Restinco, da Modena a Torino, è arrivata anche a Gradisca.
Proprio ieri, trasferiti con un volo speciale da Lampedusa, erano arrivati 50 tunisini. Trenta richiedenti asilo sono stati portati al CARA, gli altri sono stati rinchiusi nel CIE.
La situazione potrebbe diventare ancora più incandescente, perchè le migliaia di tunisini approdati in pochi giorni in Italia potrebbero essere l’avanguardia di un esodo molto più ampio.
Al CIE di Torino gli immigrati sono in sciopero della fame da sabato sera. La maggior parte di loro viene dalla Tunisia. Sono preoccupati per le famiglie, non riescono a mettersi in contatto e temono per la loro sorte. Tutti sentono il vento di libertà che viene dal nordafrica.
La sezione delle donne è stata svuotata per far posto agli immigrati approdati a Lampedusa.
Domenica notte un gruppetto di antirazzisti ha fatto un veloce saluto ai reclusi: petardi, battitura di ferri, slogan. Da dentro si è levato un gran fragore.
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Per il pane e la libertà

Tunisia, Algeria, Marocco, Egitto, Albania. L’altro Mediterraneo, quello da dove partono le barche degli immigrati, a caccia di fortuna e di un pizzico di libertà è in rivolta.
In Tunisia la fuga del dittatore – ma la fine del sistema di potere che per decenni ha schiacciato sotto un tallone di ferro il paese ancora non si vede – è costata centinaia di morti.
Leggi il comunicato di solidarietà con le popolazioni in lotta emesso dalla Commissione di Relazioni Internazionali della FAI.

A fianco della rivolta Tunisina
Nel 1999, l’ammiraglio Fulvio Martini, già dirigente del Servizio Segreto Militare (SISMI) riferì alla Commissione Stragi del Parlamento italiano: “Negli anni 1985-1987 organizzammo una specie di colpo di Stato in Tunisia, mettendo il presidente Ben Ali a capo dello Stato, sostituendo Bourguiba (esponente di primissimo piano nella lotta di indipendenza dal colonialismo francese, NdR)”. Martini, inoltre, nel suo libro “Nome in codice: Ulisse” precisò che le direttive venivano da Craxi e da Andreotti, allora rispettivamente presidente del consiglio e ministro degli esteri.
Successivamente l’oppositore del regime dittatoriale di Ben Ali, Taoufik Ben Brik ha denunciato come i governanti italiani abbiano rinforzato il regime “rimpinguando i suoi forzieri e armando il suo braccio contro il popolo”. Non a caso fu in Tunisia che il latitante Craxi si rifugiò, riverito, protetto e seppellito, per sfuggire alle condanne inflittegli.

La rivolta e la lotta in corso in Tunisia ci appartengono, le sentiamo come nostre, sia perché sono contro un regime dittatoriale, arrogante e corrotto sia perchè nate per conquistare, non solo migliori condizioni di vita, ma anche libertà di parola e di organizzazione. Le sosteniamo in quanto espressione autonoma di esigenze popolari, sganciate da logiche di compatibilità geopolitiche.

Mentre a destra e manca si denuncia il rischio dell’anarchia, e le classi dirigenti tunisine, con i loro protettori europei, stanno cercando di piegare ed ingabbiare la protesta popolare dentro un processo elettorale, per disarmare la volontà di lotta delle masse; mentre si è costituito un governo fantoccio, di fatto controllato dagli amici e colleghi di Ben Ali per garantire la continuità del sistema di sfruttamento e di oppressione; mentre il ministro Frattini si pronuncia per la “stabilità” dell’area (ove “stabilità” sta per “ordine e disciplina”) è importante pronunciarsi e manifestare a favore del tentativo di autoemancipazione popolare e sostenere con forza la protesta e la rivolta in corso, che si sta misurando con l’esercito e le bande armate fedeli all’ex presidente, fuggito con più di una tonnellata di lingotti d’oro.

La lotta insurrezionale tunisina sta aprendo la strada ad altre lotte in Algeria, Marocco ed Egitto, innescate dagli effetti disastrosi della crisi sociale; da questa parte del Mediterraneo dobbiamo mobilitarci affinché tali lotte e rivolte non vengano stroncate da nuove dittature, preparate e sostenute dai governi europei, stroncando ogni possibile forma di paternalismo e di razzismo tendenti a separare e a contrapporre quelli che sono gli interessi comuni di ogni lavoratore e di ogni essere umano: la dignità, la libertà, la giustizia sociale.
Commissione Relazioni Internazionali FAI
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Milano. Tentata fuga e rivolta al CIE

Milano, notte tra l’11 e il 12 dicembre. Hanno provato a scavalcare le recinzioni per riprendersi la libertà. Quando la polizia li ha bloccati hanno dato vita ad una rivolta: smontati i caloriferi li hanno usati come arieti spaccando tutto quello che potevano in due sezioni. Poi è partita la mattanza.
Un gruppetto di solidali si è radunato all’esterno del Centro per monitorare la situazione. Le ambulanze hanno portato via cinque immigrati, tre al S. Raffaele e due al S. Rita. Secondo quanto riferiscono le agenzie gli immigrati sarebbero stati dimessi in nottata. Non si sa se le sezioni danneggiate siano ancora agibili.
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CIE di Torino. Sale la tensione

Mercoledì 27 ottobre. Metà dei settanta algerini, trasferiti dalla Sardegna con un volo speciale, dopo la rivolta che ha reso inagibile il CPA di Elmas, sono rinchiusi in corso Brunelleschi.
Tenuti isolati dagli altri prigionieri temono un’espulsione imminente. Il 20 ottobre il console algerino è andato al CIE per i “riconoscimenti” di rito. In genere questo è il segnale di una prossima deportazione.
Il 26 ottobre scoppia una protesta: gli immigrati fanno a pezzi quello che capita. Alla fine tre di loro vengono arrestati e tradotti al carcere delle Vallette. Continua a leggere

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Sardegna. Nuova rivolta al centro di Elmas

Non cala la tensione ad Elmas, il centro di prima accoglienza per immigrati, nei pressi dell’eliporto di Cagliari. Il primo ottobre in una prima rivolta erano state danneggiate un paio di camerate. Questa notte è andato a fuoco un intero piano. Ora è inagibile. Ogni materasso bruciato è un gesto di sabotaggio concreto alla macchina delle espulsioni. Continua a leggere

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Sardegna. Incendi di protesta al CIE di Elmas

Venerdì 1 ottobre. Come ricorderete, pochi giorni fa, nella notte tra il 23 e il 24 settembre, ci sono stati diversi sbarchi di immigrati tunisini ed algerini sulle coste sarde. Trasferiti nel centro di prima accoglienza di Elmas, questa mattina si … Continua a leggere

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CIE di Gradisca. Nuova rivolta

Lunedì 13 settembre. Al CIE di Gradisca gli immigrati in sciopero della fame vengono picchiati dai poliziotti dell’antisommossa. I reclusi protestano, perché da settimane sono chiusi in cella senza possibilità di uscire all’aria aperta. Dopo il pestaggio vanno a fuoco materassi e lenzuola. Le celle restano chiuse nonostante il fumo abbia invaso le camerate. Continua a leggere

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Torino. Rivolte, occupazioni, resistenza alle espulsioni

Oltre il muro Un’altra estate calda sul fronte delle espulsioni. A Torino, in luglio, per due settimane si susseguono rivolte, tentativi di evasione, braccia tagliate, proteste sul tetto. Dall’altro lato del muro gli antirazzisti fanno occupazioni, blocchi, un presidio permanente di … Continua a leggere

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