Da Trapani a Gradisca. Etica e affari

allo-specchio_g1Si è chiusa con 13 richieste di rinvio a giudizio l’inchiesta giudiziaria sugli appalti al Cie e al Cara di Gradisca d’Isonzo. Il gup ha fissato per il prossimo 2 luglio l’udienza preliminare per tredici imputati.
Tra cui il viceprefetto Gloria Sandra Allegretto e il ragioniere capo della Prefettura Telesio Colafati accusati di falso materiale e ideologico in atti pubblici. I vertici di Connecting people, il consorzio siciliano che gestisce dal 2008 i due centri, vanno alla sbarra per associazione a delinquere finalizzata alla truffa ai danni dello Stato e a inadempienze di pubbliche forniture.

 

Gli imputati sono Giuseppe Scozzari presidente del Consiglio di amministrazione e legale rappresentante della Connecting people, Ettore Orazio Micalizzi vice presidente del Cda, Vittorio Isoldi direttore di Connecting people, il direttore del Cie Giovanni Scardina, e quella del CARA Gloria Savoia, Mauro Maurino componente del Cda e Giuseppe Vito Accardo sindaco supplente.

 

I vertici del “sinistro” consorzio avrebbero ottenuto somme ben più alte di quelle dovute sulla gestione degli immigrati. Avrebbero presentato fatture dove era gonfiato il numero di immigrati presenti al CARA e al CIE. Scozzari e la sua allegra compagnia si sarebbero intascato persino i soldi, che in base al capitolato d’appalto, erano destinati per l’acquisto di carte telefoniche e acqua.
Al vice prefetto Allegretto e al funzionario della Prefettura viene contestato il fatto di non aver verificato la congruità delle fatture presentate e di averle vistate autorizzandone il pagamento.

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Guerra. Mitraglia sul Mare Nostrum

mare nostrumSiamo sul ponte dell’unità della Marina militare italiana Aliseo, impegnata nell’operazione “mare nostrum”. C’é un inseguimento, si odono tre scariche di artiglieria, i proiettili colpiscono l’imbarcazione in fuga. Uno stacco. Poi si vede l’imbarcazione trainata a gran velocità dall’Aliseo finché il natante non si piega su un fianco, cominciando ad affondare.
Dopo la diffusione di questo video, girato da qualche militare in servizio sull’Aliseo, la Marina militare diffonde una nota nella quale si sostiene che bordo c’erano solo nove scafisti, tutti arrestati. Una versione strampalata che cerca di mettere una falla su un buco bello grosso. Il buco nell’omertà di Stato sull’operazione “Mare Nostrum”. Le regole di ingaggio delle unità impegnate nell’operazione Mare Nostrum non prevedono la facoltà di sparare. Anche agli scafisti.
La verità che questo video mostra è semplice.

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Ex Moi. Un anno di autogestione

mg_6316-copiaIl 30 marzo dello scorso anno 200 profughi rimasti in strada dopo la fine “dell’emergenza nordafrica“, occuparono una casa del villaggio olimpico, la “ex Moi” in via Giordano Bruno.
Tre palazzine rimaste vuote per 7 anni, divennero la nuova casa per uomini e donne, che il governo italiano aveva buttato in strada dal 28 febbraio 2013, quando per decreto era stata fissata la fine della protezione. Chiuse le strutture di accoglienza, ai profughi sono stati dati 500 euro in cambio di una firma su documento che liberava lo Stato italiano di ogni responsabilità nei loro confronti.
Nonostante la spesa esorbitante di un miliardo e 300 milioni di euro, ai profughi della guerra in Libia non era stato garantito alcun percorso di inserimento nella nostra società.
Per un anno e mezzo trascorso i profughi erano stati parcheggiati senza prospettive, tra incuria, assistenzialismo e mera carità.
Strutture in condizioni indegne, senza acqua calda e riscaldamento, persone stipate in posti sovraffollati, disservizi e malaffare sono stati il risultato della gestione emergenziale imposta da un governo che aveva deciso di elargire un miliardo e 300 milioni di euro ad una miriade di associazioni del terzo settore, che garantirono poco o nulla nulla di quanto previsto per loro sulla carta.
Ai rifugiati provenienti dalla Libia non venne data alcuna opportunità di rendersi autonomi, indipendenti ed inserirsi nei nostri territori. Niente corsi di formazione, nessuna traccia dell’inserimento lavorativo, zero inserimento abitativo.
Ancora una volta “l’emergenza umanitaria” era stata una buona occasione di lucro per le tante organizzazioni del terzo settore che l’avevano gestita, bandando a ricavarne il più possibile.

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Svizzera a braccia chiuse

svizzera-referendum-sulle-quote-sulla-immigrazione-vincono-i-si“La Svizzera ci accolse a braccia chiuse”. Così l’incipit di una vecchia canzone di migranti italiani nel paese elvetico.
La recente consultazione che ha reintrodotto le quote di ingresso per gli immigrati pare riportare indietro le lancette dell’orologio.
Le dinamiche, soprattutto culturali, che hanno permesso la vittoria, sia pure di misura, delle istanze dei partiti di destra, sono tuttavia molto differenti.
I sì alla chiusura delle frontiere hanno toccato quote vicine al 70% nelle zone di frontiera con l’Italia e la Germania, come il Ticino e la Turgovia. Il provvedimento colpisce soprattutto gli immigrati dai paesi UE, che sinora godevano della possibilità di circolare liberamente in Svizzera.
L’esito della consultazione mette in difficoltà la Svizzera, pressata dagli imprenditori, cui fa comodo la manodopera a poco prezzo e incalzata dall’UE che promette ritorsioni.
L’Unione Europea, per bocca della presidenza greca, ha detto chiaro alla Svizzera che non può prendersi il bambino e buttare l’acqua sporca. Gli accordi bilaterali sottoscritti da Berna prevedono infatti sia la libera circolazione del capitali che degli esseri umani. Colpisce che un rappresentante dell’Europa di Schengen, dell’Europa fortezza, rinfacci alla Svizzera l’arroccamento nel proprio castello montano. “Si è sempre i terroni di qualcun altro”, questa verità, scriveva ieri sulle pagine del Manifesto “Alessandro Dal Lago” è dimostrata dal voto svizzero.

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Grecia. Le frontiere dell’odio

grecia120 gennaio. A Farmakonisi, sulla costa greca, si consuma l’ennesima strage di Stato in mare. Una barca carica di immigrati proveniente dalla Turchia è stata abbordata da un’unità della Guardia Costiera. La barca era in panne: la polizia ha cominciato a trainarla verso la Turchia. Una manovra folle continuata finché l’imbarcazione non si è rovesciata. I superstiti che tentavano di salire a bordo sono stati respinti brutalmente.
Il mare e la ferocia del governo ha inghiottito 12 persone, tra cui 9 bambini piccoli.

In una conferenza stampa organizzata il 25 gennaio da alcune organizzazioni per i diritti umani, uno dei superstiti, Safi Ehsanullah, che quella notte aveva perso la moglie e i quattro figli, ha raccontato: “Eravamo in 26, 23 afgani e 3 siriani. Siamo partiti intorno alle 10 di sera dalla Turchia: due ore dopo eravamo vicini alla costa greca quando la nostra barca ha avuto un’avaria. Non eravamo troppo lontani dalla costa, stavamo pensando di fare una catena umana per sbarcare, quando è arrivata un’unità della polizia costiera greca. Ci hanno gridato di non muoverci, due di loro sono saliti a bordo ed hanno legato la nostra imbarcazione alla loro. Pensavamo fosse arrivata la salvezza. Inaspettatamente quando sono risaliti sul guarda coste, hanno cominciato a trainarci a velocità folle, andando a zig zag verso la Turchia. La nostra barca si è scontrata con quella che la trainava, cominciando ad affondare, i poliziotti hanno provato a trainarla ancora ma ormai imbarcava acqua e stava affondando. Lo scafo era vecchio e malandato e non ha retto all’impatto. E’ infine scoppiato un incendio e solo per caso alcuni di noi sono riusciti a salire a bordo della guarda coste, mentre altri sono stati respinti a calci e grida. Un rifugiato siriano che tentava di aiutare una donna a salire a bordo allungandole un bastone è stato brutalmente pestato dai poliziotti.

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CIE. Tutto cambia, tutto resta come prima

5183659551_87dc4ea26d_zLo scorso 23 dicembre quotidiani ed agenzie hanno battuto la notizia che il governo avrebbe deciso di ridurre ad un mese il tempo di reclusione nei CIE prima dell’espulsione.
Il primo ministro Enrico Letta, nella conferenza stampa di fine anno, ha dichiarato che “la discussione della Bossi-Fini sarà uno dei temi di gennaio. Gennaio è passato ma il governo Letta non ha fatto seguire alle parole i fatti.
In questo mese l’unico segnale è arrivato dal Senato che ha abolito il reato di “immigrazione clandestina”, limitandolo alla recidiva. Un fiore all’occhiello senza nessuna conseguenza reale, poichè dopo l’adeguamento forzato alla direttiva europea sui rimpatri, non era più
previsto il carcere ma una multa che nessuno pagava.
Di un fatto siamo sicuri. Se davvero venissero cancellati i 18 mesi di CIE questo non sarebbe certo dovuto alla buona volontà del governo, ma alle lotte degli immigrati, che in questi anni li hanno fatti a pezzi, pagando un prezzo durissimo. Botte, umiliazioni, arresti, condanne.

Oggi rimangono aperte solo quattro galere per immigrati senza documenti (Torino, Roma, Pian Del Lago, Bari), le altre, una dopo l’altra, sono state fatte a pezzi e bruciate dai reclusi. Il governo ha dovuto chiudere i CIE di Gradisca, Trapani Vulpitta, Bologna, Modena, Crotone, Milano, Trapani Milo.
Di un mese fa l’annuncio che il CIE di Modena, usato per punire gli immigrati più ribelli, ha chiuso per sempre i battenti.
Gli altri ufficialmente sono tutti in attesa di ristrutturazione, ma non c’é nessuna notizia certa su una possibile riapertura. Si diceva che a gennaio avrebbe riaperto il Centro di Bologna ma il centro di via Mattei è ancora chiuso.
A Santa Maria Capua Vetere (Caserta) e Palazzo San Gervasio (Potenza) potrebbero sorgere due nuovi CIE, dopo l’avventura presto finita dell’emergenza Nordafrica. Il governo ha stanziato 13 milioni di euro ma non si sa se i lavori abbiano preso l’avvio e che punto siano.

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QUANDO CHIUDE UN LAGER

milo3Questo documento parla di centri di internamento, di discriminazioni, di razzismo, di scenari di guerra. Lo si può considerare, nel Giorno della Memoria, un contributo affinché tale ricorrenza venga onorata nella sua tragica attualità.

Per la prima volta, dopo molti anni, a Trapani non sarà più attivo alcun Centro di Identificazione ed Espulsione per immigrati.
Il recente annuncio con il quale la prefettura ha comunicato la prossima chiusura del campo di internamento di contrada Milo, rappresenta – di per sé – una buona notizia.
Purtroppo, però, non è possibile rallegrarsi più di tanto. Il CIE resterà chiuso per lavori di adeguamento orientati a un ulteriore accanimento repressivo: saranno impiegati più di 660.000 euro di soldi pubblici per innalzare i muri di cinta e blindare ancora di più una struttura che, in soli tre anni di esistenza, è stata letteralmente devastata dalle persone che vi sono state rinchiuse. Solo nell’anno appena trascorso, per stessa ammissione del prefetto, sono stati più di seicento i tentativi di fuga, con il drammatico corollario di proteste, rivolte, scontri, violenza poliziesca.
Tra chiusure più o meno forzate, il numero dei CIE attivi in tutta Italia si è praticamente dimezzato. Si tratta di strutture gravemente danneggiate dalle rivolte, ingestibili, criticate da più parti, meno appetibili persino per le stesse associazioni che lucrano sulla detenzione camuffata da accoglienza.

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Colpo di spugna al reato. La clandestinità resta

ufficio immigrazioneIeri al Senato è stato approvato l’emendamento presentato dal governo per limitare il reato di clandestinità ai casi di recidiva. Il ddl dovrà tornare alla Camera per l’approvazione definitiva.
Il provvedimento prevede che l’immigrazione clandestina non sia più reato e torni a essere un illecito amministrativo: mantiene tuttavia valenza penale ogni violazione di provvedimenti amministrativi emessi in materia di immigrazione (come rientrare in Italia una volta espulsi).
A illustrare l’emendamento al Senato è stato il sottosegretario alla Giustizia Cosimo Ferri. “Da un lato il reato viene abrogato – ha spiegato – dall’altro viene trasformato in illecito amministrativo”. Ciò significa “che chi per la prima volta” entra clandestinamente nel nostro paese “non verrà sottoposto a procedimento penale, ma verrà espulso”. Ma, se rientrasse, a quel punto “commetterebbe reato”.

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Immigrazione. Outsoucing della violenza: l’Italia delega alla Libia

profughi-sinaiNei giorni scorsi i principali quotidiani davano ampio spazio alla testimonianza dell’unica superstite della strage di Lampedusa, una ragazza eritrea, che testimoniando contro uno degli mercanti di carne umana sotto processo nel nostro paese, ha raccontato le botte, gli stupri continui, i ricatti, gli omicidi che avevano segnato la sua vita di ragazza all’alba della vita. La sua storia era lo specchio di tante altre. Con lei erano centinaia di profughi incappati nel destino obbligato di chi fugge guerre e persecuzioni, attraversando il deserto ed il mare.
Le pagine dei giornali trasudavano commozione, sdegno, solidarietà umana. Da settimane persino le istituzioni paiono voler cambiare rotta, eliminare il reato di clandestinità, ridurre la detenzione nei CIE, fors’anche spezzare il legame tra permesso di soggiorno e contratto di lavoro. Sinora però il governo non è andato al di là delle chiacchiere.
I fatti, di ben altro segno, non trovano alcuno spazio nei media.
Il 28 novembre il governo Letta ha stipulato un nuovo accordo con la Libia per il controllo congiunto delle frontiere: droni italiani nel sud della Libia, militari libici e bordo delle unità della marina militare impegnate nell’operazione Mare Nostrum.
Ma non solo. E’ cominciato a Cassino l’addestramento dei militari libici che verranno impiegati nella repressione dell’immigrazione clandestina. Letta come Berlusconi, Alfano come Maroni nel 2009 decidono di esternalizzare la repressione, affidando ai libici il lavoro sporco di fermare, imprigionare, respingere profughi e migranti.
Le storie come quella di F., la diciottenne eritrea, picchiata, stuprata, venduta, scampata per un pelo al Mare Nostrum, non le racconterà più nessuno. La sabbia sarà il sudario che coprirà ogni cosa.
Di questo non troverete traccia sui principali organi di informazione, ma solo su blog e siti di nicchia.

Qui sotto riportiamo  l articolo di Antonio Mazzeo su questo tema.

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Ancona: continua l’occupazione e l’esperienza della “casa de nialtri”

nialtriDal 22 dicembre  continua l’occupazione di una scuola, chiusa alcuni anni fa, da parte di una settantina di senza casa (di provenienza diversa, da tutte le parti del mondo) appoggiati da una trentina di solidali. Un’azione che ha scosso la città. Forte la solidarietà attorno all’occupazione che ha permesso di avere in breve tempo reti, materassi, coperte, tavoli, viveri, ecc. per gestire la nuova situazione che si è creata. L’occupazione è il risultato di una mobilitazione ed autorganizzazione che in questo ultimo mese ha visto una lotta su più fronti di un’unica emergenza, dai picchetti antisfratto alle assemblee dei senza casa e di chi dormiva al freddo. In questo movimento e nell’occupazione tutti i compagni del Gruppo Malatesta di Ancona e dell’USI-AIT Marche sono molto attivi e presenti.

Ascolta l’intervista a un compagno del Malatesta su Radio Blackout

Guarda l’intervista ad una tv locale

Dichiarazione di Adam, a nome degli occupanti della Casa di Nialtri, esperienza autogestita ad Ancona, alla sindaca venuta per tentare di dividere gli occupanti, vendere fumo e a minacciare lo sgombero.

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DAL “SERRAINO VULPITTA” A LAMPEDUSA QUATTORDICI ANNI DI STRAGI DI STATO

28dicDAL “SERRAINO VULPITTA” A LAMPEDUSA
QUATTORDICI ANNI DI STRAGI DI STATO

FOTO DEL PRESIDIO

Il ricordo resta sempre vivo. Lo sgomento per la strage di immigrati nel Centro di permanenza temporanea “Serraino Vulpitta” di Trapani si rinnova ogni anno nel dolore e nella rabbia per le morti e le sofferenze che, ancora oggi, colpiscono gli immigrati nel nostro paese e in tutta Europa.
Solo pochi mesi fa, anche se nessuno ne parla più, centinaia di donne, bambini e uomini sono morti affogati al largo di Lampedusa, nell’ennesima strage dell’immigrazione. Nelle nostre campagne, a Campobello di Mazara, un ragazzo senegalese è bruciato vivo per l’esplosione di una bombola nella baracca allestita nel campo di lavoro dove gli immigrati lavorano la terra in condizioni infami, sottopagati da padroni italianissimi a cui poco o nulla importa dei diritti di questi nuovi schiavi.
Pochi giorni fa, un ragazzo eritreo di 21 anni si è impiccato nel Centro richiedenti asilo di Mineo, vicino a Catania, annichilito dall’attesa per un pezzo di carta che gli desse la libertà di andare per la sua strada.

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CIE. Una polpetta avvelenata e uno zuccherino

24 dicembre. Mentre il governo si esibisce in promesse la vita pressata dietro le sbarre urge.
A Roma, dove i reclusi con la bocca cucita erano diventati dieci, sono cominciate le prime, veloci espulsioni di chi protesta.
A Lampedusa, dove continua la protesta del deputato PD autorecluso nel CIE, sono cominciati, dopo tre mesi, i trasferimenti sulla terraferma di un centinaio di scampati al naufragio.
Il quotidiano “La Stampa” ci serve in prima pagina alcune storie di vite spezzate, di profughi scampati al mare.
A Torino i reclusi sono in sciopero della fame dopo il feroce pestaggio nel settore femminile del giorno prima.

23 dicembre. Questa mattina quotidiani ed agenzie hanno battuto la notizia che il governo avrebbe deciso di ridurre ad un mese il tempo di reclusione nei CIE prima dell’espulsione.
Ancora non è chiaro se faranno un decreto legge o presenteranno in Parlamento una proposta di legge più organica. Il primo ministro Enrico Letta, nella conferenza stampa di fine anno, ha dichiarato che “La discussione della Bossi-Fini sarà uno dei temi di gennaio e il governo ha anche intenzione di mettersi al lavoro subito per una revisione degli standard dei Cie” aggiungendo: “dobbiamo essere più efficaci anche nell’espletamento delle pratiche burocratiche”.
Se la detenzione nei CIE fosse ridotta ad un mese, come nel 1998, quando la Turco-Napolitano li istituì sarebbe comunque una bella notizia. Non bella come la fine della reclusione amministrativa ma comunque positiva. Anche se, ricostruendo gli avvenimenti degli ultimi mesi, la situazione potrebbe essere meno rosea di quanto appare.
Di un fatto siamo sicuri. Se davvero venissero cancellati i 18 mesi di CIE questo non sarebbe certo dovuto alla buona volontà del governo, ma alle lotte degli immigrati, che in questi anni li hanno fatti a pezzi, pagando un prezzo durissimo. Botte, umiliazioni, arresti, condanne.

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Due giorni di rivolta al CARA di Mineo

mineoNel CARA di Mineo sono ammassati oltre quattromila richiedenti asilo. La struttura di Mineo non ne potrebbe accogliere più di 2000. Venne aperta nel 2011 durante la guerra per la Libia per fare fronte all’ondata di profughi che approdarono a Lampedusa dopo l’attaco alla Libia. La rottura del trattato di cooperazione siglato dal governo italiano con quello libico riaprì la rotta verso Lampedusa, che la politica dei respingimenti di massa e della detenzione nelle prigioni di Gheddafi aveva chiuso per quasi due anni.
I CARA della penisola vennero vuotati per fare spazio ai nuovi arrivati, gli altri vennero concentrati a Mineo. Una soluzione perfetta per tutti. Perfetta per la ditta Pizzarotti di Parma, costruttrice e proprietaria del “Recidence Aranci”, vuoto da tempo dopo l’abbandono dei militari statunitensi di stanza a Sigonella per le cui famiglie era stato edificato. Perfetta per il governo che si toglieva le castagne dal fuoco. La società Pizzarotti non risuciva a venedere né affittare una struttura sorta in campagna, lontana dai centri abitati, lontana dagli sguardi, il governo aveva proprio bisogno di un posto così.
Dopo due anni la situazione è esplosiva. Pochi giorni fa si è tolto la vita un ragazzo eritreo, stanco di attendere un pezzo di carta che lo autorizzasse a ri-cominciare la sua vita interrotta dalla guerra, dalla diserzione, dal deserto, dai trafficanti di uomini, dai guardiani delle frontiere. La Commissione territoriale per la valutazione delle richieste di asilo venne installata a due mesi dall’apertura del maxi CARA di Mineo, dopo una prima rivolta degli immigrati.

Le cooperative che gestiscono la struttura, tra queste la Sisifo di Lampedusa, la stessa nell’occhio del ciclone per la pulizia etnica di Lampedusa, praticano la politica del “divide et impera”, spacciandola come autogestione da parte dei reclusi su base etnica. Di fatto i “rappresentanti” individuati dai gestori sono una sorta di kapò che fanno la spia e cercano di impedire l’unità tra i rifugiati. In cambio godono del privilegio di vivere in villette più grandi, pulite con ampi spazi a disposizione.
Mercoledì 18 nella struttura viene fatta un’assemblea cui partecipano anche gli antirazzisti catanesi, che promuove una protesta per il giorno successivo.

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Lampedusa. Una devastante normalità

Iprofughil cortile di una prigione, i reclusi che si devono spogliare davanti a tutti, irrorati con un tubo di benzoato di benzina. Le immagini trasmesse in prima serata dal TG2 hanno mostrato una realtà che non ha nulla di eccezionale. Per anni dai CIE e dai CARA, uscivano furtivamente riprese sfocate della brutalità della polizia, degli insulti, botte umiliazioni inflitti a immigrati, profughi, richiedenti asilo. Una devastante normalità.
I politici hanno fatto la loro parte mostrandosi indignati e pronti a reagire. La commissaria UE Cecilia Maelstrom ha minacciato di far perdere all’Italia il sostegno europeo.
Inevitabilmente ci si chiede perché proprio oggi la quotidianità dei CIE e dei CARA irrompe nelle case degli italiani all’ora di cena. Perché ora? Cosa sta cambiando? Bisogna credere a Letta, che sostiene il superamento della Turco-Napolitano-Bossi-Fini?
La situzione nei CIE e nei Cara del nostro paese è insostenibile da anni. Due giorni fa un immigrato eritreo, rinchiuso nel CARA di Mineo, un limbo in cui sono ammassati e dimenticati migliaia di richiedenti asilo, si è tolto la vita. Pochi giorni prima al CARA di Bari è nuovamente scoppiata la rivolta. La situazione dei CIE è nota: la metà sono chiusi, gli altri sono in buona parte inagibili. Le continue rivolte degli immigrati hanno demolito, pezzo a pezzo, i centri italiani.

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Il 9 dicembre dei profughi

Taranto, arrivo dei profughi libici da LampedusaQuando, dopo l’incontro del 26 novembre con l’assessore Tisi, la decisione sulle richieste di residenza dei rifugiati e profughi che occupano l’ex MOI, era stata rimandata al 9 dicembre, nessuno o quasi pensava alla coincidenza con la serrata di negozi e mercati nel primo giorno di blocchi del “coordinamento 9 dicembre“.

Per quelli dell’ex MOI e per altri occupanti di case la posta in gioco era molto importante: la residenza apre le porte a numerosi servizi, dalla sanità all’asilo per i figli, alle liste per il lavoro.
Il sabato precedente sulla stampa era apparsa la notizia di una risposta positiva da parte del comune, che avrebbe concesso a tutti la residenza in una via che non c’è, inventata per l’occasione.
In bilico tra il radical chic e il kitch, il comune, approfittando anche dell’occasione per celebrarlo, avrebbe assegnato loro la residenza in via Mandela. Sono tutti neri, Nelson Mandela li rappresenterà benissimo…
Per gli altri occupanti niente via Mandela, niente residenza. Tutti, italiani e stranieri, sono tornati davanti al Municipio per ribadire che la residenza è un’esigenza per tutti, italiani ed immigrati, profughi e non.

Da via XX Settembre partiamo in circa 200 alla volta del Comune in piazza Palazzo di Città. Mentre si va ci informano che nella piazza la polizia sta caricando quelli del “Coordinamento 9 dicembre”.
In piazza troviamo esponenti dei centri sociali, altri occupanti di case oltre ad un folto gruppo di forconati.
Ci piazziamo davanti ai cordoni di polizia schierati in assetto antisommossa con slogan, canti e balli.
Una parte di manifestanti si unisce ai cori appropriandosene e scandendone di nuovi, con uno stile più vicino al tifo da stadio che alle istanze sociali.
La situazione è surreale.
Tanti di quelli che sono lì capiscono ben poco di quello che succede, ma è chiaro che le istanze degli uni e degli altri di fatto dividono in due la piazza.
Dopo l’entusiasmo iniziale è presto chiaro che le due anime faticano a comunicare: non mancano neppure un paio di zuffe tra ultrà visibilmente ubriachi e alcuni compagni.
Fortunatamente la notizia di un nuovo blocco in piazza Statuto induce la maggioranza degli aderenti al “coordinamento 9 dicembre” ad abbandonare la piazza.
L’incontro con il sindaco salta perché la Digos teme che i “forconati” possano reagire male, anche tra chi manifesta c’è timore di strumentalizzazioni da parte dell’altra parte della piazza. Alla fine una delegazione viene ricevuta e all’uscita annuncia che anche agli altri occupanti sarà concessa la residenza.
Saranno i fatti a dimostrare se la giunta rispetterà i patti o meno. Altrimenti riprenderà la lotta con l’auspicio di una migliore compagnia.

(queste note sono liberamente tratte dal resoconto di Matteo, un antirazzista che sostiene la lotta dei rifugiati dell’ex MOI. In questi giorni abbiamo sentito più volte la favola della fraternizzazione tra profughi e forconi, che questo racconto contribuisce ampiamente a smitizzare)

tratto da Anarresinfo

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Torino. Brindisi ai CIE che bruciano!

brindisi-ai-cie-che-bruciano-copyVenerdì 6 dicembre corso palermo 46

ore 20 aperitivo con brindisi ai CIE che bruciano

ore 21  proiezione video

– Papà non torna più

– L’amore ai tempi della frontiera

 ore 22 assemblea

Mercoledì 18 dicembre ore 9 aula 3 tribunale   di Torino udienza del processo antirazzista

Da marzo a novembre 2013, mentre si susseguivano le udienze del processone contro 67 antirazzisti/e per iniziative contro i CIE e il razzismo, i Centri di Identificazione ed Espulsione di Bologna, Modena, Crotone, Gradisca, Trapani Vulpitta sono stati chiusi per le incessanti rivolte dei reclusi, che uno dopo l’altro li hanno distrutti. A Milano una sola sezione è agibile.
Oggi solo 6 CIE (Roma, Pian del Lago, Trapani Milo, Milano, Bari, Torino) su 13 sono aperti anche se spesso molto danneggiati e in parte inagibili. I soldi per rimetterli a posto non ci sono. Il governo tace. Sempre più persone vorrebbero l’abolizione di questi lager.

Una serata per… un bel brindisi ai CIE che bruciano e per discutere come proseguire la lotta contro il razzismo e i Centri di Identificazione ed Espulsione.
Alla faccia della Procura che continua ad accanirsi contro No Tav, antirazzisti e chi lotta per un mondo più giusto e libero.

Antirazzisti contro la repressione

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Rom a Milano. Sgomberi e sfruttamento

romrubattino-thumb700 persone gettate in strada all’inizio dell’inverno. E’ successo a Milano il 25 novembre. Una vecchia fabbrica dismessa tra via Montefeltro e via Brunetti era il rifugio per uomini, donne e bambini senza casa, in buona parte rom rumeni. Per portare a termine l’operazione sono stati impiegati 400 tra vigili e poliziotti dell’antisommossa.
Liquami e topi, immondizia e fetore, un brutto posto per vivere, ma pur sempre meglio della strada alla quale sono stati consegnati dopo lo sgombero invocato da tanti “bravi” cittadini contrari al degrado. Tanti bravi cittadini cui poco importa dove vivano i rom: l’importante per loro è che siano cacciati. Lontano. Lontano dalle loro case, lontano dalle paure alimentate dal pregiudizio.
L’amministrazione comunale ha promesso una sistemazione nei centri di emergenza, ma tutti sanno che la gran parte delle persone sgomberate non potrà accedere ad alcun alloggio.
Da lunedì vagano per Milano. Il tentativo di occupare una cascina dismessa ai margini del nulla metropolitano è stato bloccato dai vigili che hanno rispedito in strada chi provava, senza chiedere nulla, a procurarsi un riparo.

 

La politica dell’amministrazione Pisapia è in linea di continuità con quelle del centrodestra che ha governato per vent’anni Milano.
La formula è sempre la stessa: i campi. In quelli legalizzati c’é il filo spinato come nei lager e tutto è regolato come in una caserma: le visite, l’orario di entrata e di uscita, la selezione di chi entra e di chi esce.
A controllare e a lucrare il multiforme universo dell’umanitario, che sui rom ha fatto e fa lauti guadagni.
Milano è lo specchio dell’Italia, un paese dove il governo italiano sin dal dopoguerra ha scelto di puntare sui campi rom. Campi di transito per una popolazione nomade, cui tuttavia è stata progressivamente negata la possibilità di esercitare i mestieri tradizionali, poi seppelliti dalla modernità che li ha resi desueti.
Oggi i rom non sono più nomadi, tuttavia la politica di relegarli in campi fatti di baracche e roulotte non è mai stata abbandonata, rendendo stabile, oltre alla baracca, anche l’emarginazione.

 

Un vicolo cieco. In fondo al vicolo fango, topi, polizia e un persistente pregiudizio.

 

Ascolta la diretta realizzata dall’info di radio Blackout con Paolo Finzi, redattore di Arivista, curatore del libro e DVD “A forza di essere vento”, dedicato allo sterminio nazista di rom e sinti.

 

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Uno dopo l’altro. Gli immigrati chiudono i CIE

cie chiusoL’ultimo ad essere vuotato è stato il CIE di Milano, scosso domenica dalla quinta rivolta da settembre. Ogni volta la struttura di via Corelli, appena ristrutturata, è stata danneggiata dai reclusi. Buona parte degli immigrati è stata trasferita al CIE di Trapani-Milo, alcuni, accusati dell’incendio che ha reso inagibile la quarta sezione, sono stati arrestati e trasferiti in carcere. A due settimane dalla rivolta che ha portato alla chiusura del Centro di Gradisca, un altro CIE è di fatto inagibile. Uno dietro l’altro i centri per senza carte vengono chiusi dai prigionieri, che fanno a pezzi le loro gabbie.

Ormai sono ancora aperti i CIE di Torino, Roma, Trapani, Bari, Caltanissetta.

Il governo, di fronte al fallimento delle politiche di repressione dell’immigrazione, resa clandestina dalle leggi che limitano la libera circolazione delle persone, tace.
Il governo Letta punta ad una politica di prevenzione basata sui pattugliamenti in mare e sugli accordi con i paesi di partenza e transito, nonostante queste scelte abbiano già mostrato tutta la loro inefficacia.

Resta il fatto che, nonostante la scarsa incisività dei movimenti antirazzisti, le lotte nei CIE hanno inceppato più volte la macchina delle espulsioni.
D’altra parte l’eliminazione delle “eccedenze” si sta rivelando un mestiere poco remunerativo anche per le varie organizzazioni e cooperative, che negli anni si sono contese la gestione di queste prigioni amministrative. Appalti al ribasso, difficoltà di gestione, obiettiva complicità con i poliziotti/secondini incaricati della repressione hanno reso sempre meno appetibile l’affare CIE.

Ascolta la diretta realizzata dall’info di Blackout con Alberto, antirazzista siciliano, impegnato nella lotta contro i CIE.

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Il CIE di Gradisca verso la chiusura

E’ una rivolta senza fine quella dei reclusi nel lager di Gradisca –il CIE modello– da sempre particolarmente attraversato da lotte, rivolte, fughe, tensioni, scandali.  La nuova ondata di rabbia inizia nella notte fra il 30 e il 31 ottobre: un gruppo di prigionieri prima tenta la fuga e di seguito brucia materassi, rompe vetrate e divelge alcune reti per protestare contro le condizioni di vita all’interno della struttura e per la lunghezza dell’internamento. Alla fine i vigili del fuoco dichiarano inagibili cinque stanze su otto e un paio di immigrati vengono portati all’ospedale per intossicamento ma per fortuna senza gravi conseguenze. L’inagibilità delle stanze fa si che i reclusi vengano fatti dormire per terra nei corridoi al freddo e senza materassi. Un pugno di ferro già visto dopo le rivolte del febbraio-marzo 2011. Nella notte  fra il 1 e il 2 novembre e fra il 2 e il 3 novembre l’opera di distruzione del CIE viene completata con l’incendio alle camere rimaste agibili. Ormai la struttura è completamente al collasso e inagibile ma nonostante questo i quasi 70 prigionieri (ma sono iniziati  i primi trasferimenti e espulsioni) dormono all’addiaccio, facendo i conti con le continue provocazioni della polizia.

Qui e qui la rassegna stampa. A breve sono previste nuove mobilitazioni degli antirazzisti.

Aggiornamento del 05 novembre: da ieri è iniziato lo svuotamento del CIE. Alcuni reclusi hanno avuto in mano il foglio di espulsione o sono stati rimpatriati, mentre 38 di essi saranno trasferiti stamattina al lager di Trapani. Dalle ultime voci pare che lo svuotamento non sarà totale ma rimarranno in 18.

Aggiornamento del 06 novembre: completato questa mattina lo svuotamento del lager con gli ultimi trasferimenti.

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Mineo. Blocchi e scontri: la rivolta dei rifugiati

mineo23 ottobre

“Ad altezza d’uomo, sparate ad altezza d’uomo”. E’ una voce fuori campo che grida ai poliziotti dell’antisommossa di sparare i candelotti lacrimogeni, mirando al corpo degli uomini in rivolta nella campagna di Mineo.

La tensione che stava crescendo da mesi nel Centro di accoglienza per rifugiati e richiedenti asilo in provincia di Mineo è esplosa ieri. La nona rivolta in meno di due anni, la più dura.
Circa mille rifugiati e richiedenti asilo, parcheggiati da mesi ed anni nella struttura, stanchi delle infinite attese imposte dalla burocrazia italiana, si sono riversati in strada bloccando tutte le strade intorno all’ex recidence Aranci, una struttura isolata nella campagna siciliana.
Nonostante la polizia, chiamando rinforzi dall’intera provincia, abbia colpito con estrema durezza, caricando più volte con violenza, la sommossa è durata per l’intera giornata.
Bloccata per ore la Catania-Gela, una statale con il traffico di un’autostrada, chiusa anche la provinciale che porta al centro città, la cittadina di Mineo è di fatto rimasta isolata.

Il CARA di Mineo è una potenziale polveriera sin dalla primavera del 2011, quando, in seguito alla cosidetta “emergenza nordafrica”, il governo, per far fronte ai nuovi arrivati, decise di concentrarvi tutti o, quasi, i richiedenti asilo ospitati nei CARA della penisola.

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