CIE. Cosa bolle nella pentola del governo?
Riportiamo in questa pagina in costante aggiornamento le cronache e le riflessioni delle ultime settimane sul fronte del CIE, per cercare di capire cosa stia davvero bollendo nella pentola del governo, dopo la campagna mediatica che ha ri-messo al centro dell'attenzione i centri per senza carte, le leggi razziste del nostro paese, la difficoltà del governo a fare fronte ad una spesa enorme, tra gestione dei centri, espulsioni, ristrutturazioni continue dei CIE danneggiati o distrutti dalle rivolte.
Siamo convinti che il governo intenda liberarsi della patata bollente, facendo sì che tutto cambi, affinché tutto resti come prima.
Proviamo a vedere come, andando oltre i toni intollerabilmente melensi dei media.
Iniziative contro il CIE di Gradisca in maggio e giugno
A pochi chilometri da noi a Gradisca d’Isonzo dal 2006 esiste un CIE (centro di identificazione ed espulsione). In questa prigione sono reclusi in condizioni durissime decine di cittadini non dell’unione europea per il solo motivo di non possedere (o non possedere più) un permesso di soggiorno valido. Divieto di leggere, di comunicare con l’esterno, psicofarmaci, privazioni e soprusi di ogni tipo sono pane quotidiano e provocano tra l’altro continui episodi di autolesionismo. Riteniamo importante far conoscere l’esistenza di questi luoghi e le logiche che li governano, promuovendo iniziative di informazione e denuncia. Invitiamo tutti e tutte a partecipare e a contribuire in modo attivo alle iniziative che si terranno nei prossimi giorni: Trieste, sabato 18 maggio dalle 17 in via delle Torri (dietro la chiesa di s.antonio) Pordenone, sabato 18 maggio dalle 17 in p.tta Cavour Udine, sabato 24 maggio al nuovo spazio sociale in viale Osoppo Le iniziative vogliono anche promuovere la partecipazione al presidio regionale che ci sarà sabato 1 giugno nel pomeriggio di fronte al CIE di Gradisca indetto dal Coordinamento regionale contro i CIE.Sabato 20 aprile – Il CIE tra la movida di Torino
ore 19,30 aperibenefit antirazzisti sotto processo ore 20,30 assemblea sui CIE con testimonianze ore 22 presidio antirazzista itinerante per portare il CIE in mezzo alla città. Appuntamento alle 19,30 in largo Saluzzo "Baldacci ti ricordi di Fatih? Croce Rossa assassina!" Questo striscione è apparso lo scorso mese davanti alla villa di Antonio Baldacci, responsabile del CIE di Torino. Fatih era un immigrato tunisino senza documenti rinchiuso nel CIE di Torino. Nella notte del 23 maggio 2008 stava male. Per tutta la notte i suoi compagni di detenzione chiesero inutilmente aiuto. La mattina dopo Fatih era morto. Non venne eseguita nessuna autopsia. Non sappiamo di cosa sia morto Fatih. Sappiamo però che in una struttura detentiva gestita dalla Croce Rossa nessuno lo ha assistito. Due giorni dopo il colonnello e medico Baldacci dichiarerà "gli immigrati mentono sempre, mentono su ogni cosa". Parole che ricordano quelle degli aguzzini di ogni dove. Il 2 giugno 2008 un gruppo di antirazzisti si recò a casa Baldacci per un "cacerolazo". Si batterono le pentole davanti alla sua casa, si distribuirono volantini, si appesero striscioni. La protesta di persone indignate per una morte senza senso. Oggi quella protesta è entrata nel fascicolo del processo contro 67 antirazzisti, che lottarono e lottano contro le deportazioni, la schiavitù del lavoro migrante, la militarizzazione delle strade. I 67 attivisti coinvolti nel processone sono accusati di fare volantini, manifesti, di lanciare slogan, di dare solidarietà ai reclusi nei CIE, di contrastare la politica securitaria del governo e dell'amministrazione comunale. L’impianto accusatorio della procura si basa su banali iniziative di contestazione. L'occupazione simbolica dell'atrio del Museo egizio - 29 giugno 2008 - per ricordare l'operaio egiziano ucciso dal padrone per avergli chiesto il pagamento del salario; la contestazione - 17 luglio 2008 - dell'assessore all'integrazione degli immigrati Curti, dopo lo sgombero della casa occupata da rom in via Pisa; la giornata - 11 luglio 2008 - contro la proposta di prendere le impronte ai bambini rom di fronte alla sede leghista di largo Saluzzo; la protesta - 20 marzo 2009 - alla lavanderia "La nuova", che lava i panni al CIE di corso Brunelleschi… ma l'elenco è molto più lungo. Decine iniziative messe insieme per costruire un apparato accusatorio capace di portare in galera un po’ di antirazzisti. Nel CIE di Torino negli ultimi due mesi si sono susseguite le lotte e le rivolte. Tutte le sezioni del CIE sono state gravemente danneggiate. In febbraio la polizia ha pestato, gasato gli immigrati in rivolta dopo un fallito tentativo di fuga. Sei sono stati arrestati. Nonostante la repressione le lotte non si sono fermate. Per evitare la deportazione qualcuno si taglia, altri salgono sul tetto. Il CIE è quasi inagibile. In alcune sezioni gli immigrati dormono su materassi gettati in terra. La scorsa settimana tutti i reclusi, ormai solo 47, hanno fatto uno sciopero della fame di due giorni. Per la libertà. Nei CIE le lotte, le fughe, la gente che si taglia per sfuggire all'espulsione da lunghi anni sono pane quotidiano, come quotidiana è la resistenza di chi crede che, nell'Italia dei CIE, delle deportazioni, dei morti in mare, ribellarsi sia un'urgenza che ci riguarda tutti. Per questa ragione non accetteremo che le lotte di quegli anni vengano rinchiuse in un’aula di tribunale: porteremo le nostre ragioni nelle strade di questa città, continueremo a portare il CIE per le strade di Torino. Antirazzisti contro la repressione Ti ricordi di Fatih?Mercoledì 27 febbraio – processo agli antirazzisti
Mercoledì 27 febbraio prima udienza del processo a 67 antirazzisti torinesi
La Procura mette in scena un processo alle lotte.
Si vuole ad ogni costo ottenere condanne per togliere di mezzo compagni e compagne che in questi anni hanno lottato contro le leggi razziste del nostro paese, in solidarietà ai senza carte rinchiusi nei CIE, agli immigrati/schiavi.
I 67 attivisti coinvolti nei due processoni sono accusati di fare volantini, manifesti, di lanciare slogan, di dare solidarietà ai reclusi nei CIE, di contrastare la politica securitaria del governo e dell’amministrazione comunale. In altre parole sono accusati di avere idee scomode, che si traducono in scelte politiche scomode.
Se sperano di spaventarci si sbagliano.
In questi anni le iniziative di opposizione al razzismo, alle politiche securitarie, al militarismo allo sfruttamento si sono moltiplicate sul territorio.
L’urgenza politica e morale di allora è la stessa di oggi.
Ma l’indignazione non basta. Bisogna mettersi di mezzo.
Rompere il silenzio sugli orrori quotidiani dei CIE, opporsi alle deportazioni forzate, agli sgomberi delle baracche, ai militari nelle strade, allo sfruttamento dei più poveri.
Porteremo il loro processo nelle strade di questa città!Sabato 2 marzo – Portiemo il CIE nel salotto della città! – presidio antirazzista
Il 27 febbraio e cominciato il primo di due processi agli antirazzisti che, tra il maggio del 2008 e il maggio del 2009, attraversarono l'esperienza dell'Assemblea Antirazzista Torinese.
La lotta contro i CIE ha segnato alcuni momenti importanti di quell'anno ed è oggi un fronte sempre più caldo di resistenza al razzismo di Stato nella sua concreta, quotidiana, materialità.
La morte di Fathi, un immigrato tunisino lasciato senza cure nell'allora "nuovo" CPT di Torino, fu il banco di prova di una relazione politica ancora embrionale.
La lotta che ne seguì fece da catalizzatore per quelle che seguirono.
Oggi le protesta di fronte alla casa del colonnello e medico Antonio Baldacci, responsabile per la Croce Rossa militare della struttura detentiva di corso Brunelleschi, è entrata nel fascicolo del processo.“Il CIE nel salotto della città”
Il 2 marzo con un presidio itinerante per il centro cittadino porteremo quella storia negata e dimanticata in mezzo alla città.
Appuntamento alle 15 in piazza Castello.
Sabato 23 febbraio punto info solidale con gli antirazzisti sotto processo
Sabato 23 febbraio punto info sul processo a 67 antirazzist*
a Porta Palazzo - sotto i portici all'angolo con corso GiulioRompere il silenzio
Negli ultimi vent’anni il disciplinamento dei lavoratori immigrati è stata ed è tuttora una delle grandi scommesse dei governi e dei padroni, che puntano sulla guerra tra poveri per spezzare il fronte della guerra di classe.
Nel nostro paese è stata costruita una legislazione speciale per gli immigrati, persone che, sebbene vivano in questo paese, devono sottostare a regole che ne limitano fortemente la libertà.
Chi si oppone alle politiche e alle leggi discriminatorie e oppressive nei confronti degli immigrati entra nel mirino della magistratura.
Tre anni fa la Procura giocò la carta dell’associazione a delinquere ed arrestò sei antirazzisti. Il teorema non resse in Cassazione ma la Procura voleva comunque mandare alla sbarra l’Assemblea Antirazzista torinese.
Oggi la Procura mette in scena un processo alle lotte. In due atti.
Il primo atto va in scena il 27 febbraioArance amare – mostra itinerante per i mercati di Torino – 26 gennaio 2013
Le arance, i mandarini, le clementine che fanno mostra di se nei mercati di Torino, sono state raccolte da lavoratori stagionali, che vengono pagati 50 cent alla cassetta di arance, 1 euro per cassetta di mandarini. Ogni cassetta pesa una media di 18/20 chili. In una giornata di lavoro la media arriva a 25 euro. In nero, non tutti i giorni ma solo quelli che il caporale ingaggiato dai padroni decide di sceglierti. Se alzi la testa, se reclami per i ritmi o per la paga, puoi anche andartene, perché nessuno ti chiamerà più.
I media ci raccontano di migrazioni epocali, di emergenze continue per giustificare le condizioni di vita indecenti di questi lavoratori. Per loro non ci sono tende o gabinetti funzionanti quando arrivano nella piana di Gioia Tauro per la raccolta degli agrumi. Di affittare una casa non se ne parla nemmeno: a Rosarno o a San Ferdinando una stanza costa come nel centro di Milano o Roma.
In realtà basterebbero pochi soldi per mettere su strutture decenti, basterebbero liste publiche per tagliare fuori i caporali, basterebbe che chi guadagna, e bene, sul lavoro degli stagionali, ci mettesse qualcosa del suo per garantire loro un letto e una doccia. Invece no. Così le tendopoli scoppiano subito, circondate da baracche fatte di lastre di amianto e teli di plastica, così per i bisogni ci sono buche a cielo aperto.
Quella dell'emergenza è una bufala che ci raccontano perché è più facile immaginare una fame tutta africana, che vedere la realtà. La realtà è fatta di operai del nord che hanno perso il lavoro e vengono a fare la raccolta per rimediare un salario, la realtà è fatta di richiedenti asilo che attendono da oltre due anni la risposta che consentirebbe loro di andare via, di cercarsi un lavoro stabile. La guerra in Libia è finita da due anni, ma i profughi di quella guerra vivono ancora in un limbo apolide.
Se vedessimo la realtà vedremmo che la condizione degli africani di Rosarno è ormai la condizione di tanta parte dei lavoratori italiani. L'unica emergenza è quella quotidiana di uno sfruttamento senza limiti, perché per i padroni non conta il colore delle pelle, ma quello dei soldi.
Le arance che mangiamo sono sempre più amare.Sabato 26 gennaio mostra itinerante e volantinaggio nei mercati delle zone popolari di Torino.
Appuntamento alle 9,30 in corso Palermo 46 - per info: 338 6594361Frontiere d’Europa. 30 nuovi centri di detenzione in Grecia
Grecia. Il ministro della protezione civile M. Chrysohoidis, ha annunciato ieri l'apertura di trenta nuovi centri di detenzione per immigrati in collaborazione con il ministero degli esteri.
Il ministro si è incontrato con i governatori di dieci province greche per verificare la loro disponibilità ad ospitare i centri. Ha anche fornito assicurazione che l'Unione Europea si è impegnata a versare 250 milioni di euro per i prossimi tre anni.
Per ciascuno dei centri sarà istituito un apposito presidio di polizia di almeno 150 agenti oltre a 70 guardie private, ogni 250 immigrati detenuti.
Secondo il piano presentato ogni centro sarà diviso in quattro sezioni, in ciascuna delle quali saranno rinchiusi 250 immigrati. Ognuno dei nuovi lager "ospiterà" 1000 senza carte, per un totale di 30.000 prigionieri.
La Grecia si candida così al ruolo di paese cuscinetto tra i paesi più ricchi dell'Unione e le aree di emigrazione. Un avamposto di frontiera, ben pagato per il servizio reso.-
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200 profughi occupano all’ex villaggio olimpico
Torino, 30 marzo 2013. Questa mattina 200 profughi rimasti in strada dopo la fine “dell’emergenza nordafrica”, hanno occupato una casa del villaggio olimpico, la “ex Moi” in via Giordano Bruno 201.
La palazzina blu, rimasta vuota per 7 anni, da oggi sarà la nuova casa per uomini e donne, che il governo italiano ha buttato in strada dal 28 febbraio, quando per decreto è stata fissata la fine della protezione. Chiuse le strutture di accoglienza, ai profughi sono stati dati 500 euro in cambio di una firma su documento che liberava lo Stato italiano di ogni responsabilità nei loro confronti.
Nonostante la spesa esorbitante di un miliardo e 300 milioni di euro, ai profughi della guerra in Libia non è stato garantito alcun percorso di inserimento nella nostra società. Ancora una volta “l’emergenza umanitaria” è stata una buona occasione di lucro per le tante organizzazioni del terzo settore che l’hanno gestita.
Occupare una casa vuota è stata la scelta di lotta e di autonomia di gente che lo Stato italiano voleva invisibile, dispersa tra le vie di una nuova cavalcata per l’Europa delle frontiere, nascosta in qualche buco per clandestini, accampata nelle campagne della raccolta e delle schiavitù. Continua a leggere
Pisa. I profughi resistono ed occupano
La fine dell'”Emergenza nordafrica” è stata stabilita per decreto governativo il 28 febbraio.
Alla gran parte dei ventimila uomini e donne arrivati in Italia due anni fa è stato negato il diritto d’asilo, perché nonostante fuggissero una guerra, erano nati in uno dei tanti paesi dell’Africa subsahariana.
In questi giorni si sono moltiplicate le proteste di chi si è ritrovato in strada con cinquecento euro e un permesso umanitario di un anno.
I profughi di guerra accolti in una struttura della Croce Rossa a Pisa hanno deciso di resistere, occupando i prefabbricati, per ottenere il completamento di un percorso di inserimento mai intrapreso davvero dagli enti che hanno lucrato sui grandi fondi messi a disposizione dei profughi di guerra provenienti dalla Libia.
La risposta del comune è stata l’immediato taglio del gas. Nelle prossime ore probabilmente taglieranno anche acqua e luce.
I profughi sono decisi a non mollare.
Ne abbiamo parlato con Luca, un compagno del gruppo anarchico Kronstadt di Pisa, che con tanti altri, specie studenti, sta dando una mano nell’occupazione.
Ascolta la diretta realizzata dall’informazione di radio Blackout Continua a leggere
Profughi in strada. Finita la festa per il terzo settore
Il prossimo 28 febbraio è prevista la fine della cosiddetta “Emergenza Nordafrica”: migliaia di rifugiati in tutta Italia rischiano di finire in strada.
Nell’anno e mezzo trascorso dall’inizio del Piano di Accoglienza sono stati parcheggiati senza prospettive, tra incuria, assistenzialismo e mera carità.
Strutture in condizioni indegne, senza acqua calda e riscaldamento, persone stipate in posti sovraffollati, disservizi e malaffare sono il risultato della gestione emergenziale imposta da un governo che ha deciso di elargire un miliardo e 300 milioni di euro ad una miriade di associazioni del terzo settore, che hanno ampiamente lucrato sulle vite dei rifugiati non garantendo nulla di quanto previsto per loro sulla carta.
Ai rifugiati provenienti dalla Libia non è stata data alcuna opportunità di rendersi autonomi, indipendenti ed inserirsi nei nostri territori. Niente corsi di formazione, nessuna traccia dell’inserimento lavorativo, zero inserimento abitativo.
Dulcis in fundo, il ritardo con cui il Governo ha disposto il rilascio dei permessi di soggiorno ha letteralmente ingabbiato i rifugiati: senza permesso, senza carta d’identità, senza titolo di viaggio, senza quindi poter scegliere di restare, di lavorare, oppure di ripartire verso altre mete.
Ne abbiamo parlato con Gianluca Vitale, avvocato da sempre in prima fila sul fronte dell’immigrazione.
Un ulteriore approfondimento con Federico un compagno di Trieste che lavora in una onlus, una delle poche che non hanno partecipato alla grande abbuffata, i cui “ospiti” hanno tutti trovato una sistemazione in Italia o sono stati da tempo aiutati a raggiungere i paesi dove avevano scelto di vivere.
L’Italia respinge in Grecia i profughi bambini
Dopo aver intervistato 29 bimbi e adulti respinti dai porti nostrani, Human rights watch ha stilato un rapporto in cui denuncia il comportamento delle autorità italiane che imbarcano in massa verso la Grecia profughi provenienti da paesi in guerra. Agli adulti non viene data la possibilità di fare domanda d’asilo, ai bambini non viene concessa l’ospitalità prevista dalle stesse leggi italiane.
In Grecia, i profughi, spesso provenienti dall’Afganistan, sono sottoposti ad abusi delle forze dell’ordine, condizioni detentive inumane e degradanti in un ambiente ostile, segnato da violenze xenofobe.
Nell’ultimo anno si sono moltiplicate le aggressioni contro gli stranieri dei neonazisti di “Xrisi Argi”, coperti e appoggiati dalla polizia. Solo le ronde antifasciste nei quartieri pongono un argine alle violenze naziste.
La maggior parte dei profughi considera la Grecia e l’Italia tappe di un viaggio con destinazione Gran Bretagna, Svezia, Norvegia, ma la legislazione europea, che impone di fare richiesta di asilo nel primo paese dell’Unione in cui si arriva, rende questo percorso molto difficile e rischioso.
Non è la prima volta che l’Italia entra nel mirino delle istituzioni umanitarie o transnazionali per il trattamento inflitto ad immigrati e richiedenti asilo.
Basti pensare alla condanna della corte di Strasburgo per tortura e trattamenti inumani per i respingimenti verso la Libia.
Mineo. Una discarica per richiedenti asilo
Era la primavera del 2011. Migliaia di tunisini presero la via del mare per cercarsi un’altra vita in Europa. La rivolta che aveva scosso il paese, contagiando quelli vicini, aveva reso meno chiuse le frontiere. Il ministro dell’Interno, il leghista Maroni, affrontò l’ondata di sbarchi da par suo, trasformando Lampedusa in un gigantesco carcere a cielo aperto, nella vana speranza di scaricare la patata bollente agli altri Stati Europei. Quando la situazione divenne incandescente decise di aprire campi-tenda e vecchie caserme per rinchiudere gente che voleva solo proseguire il proprio viaggio.
Finì all’italiana. Quelli arrivati entro il 5 aprile ottennero un permesso di sei mesi, quelli sbarcati dopo erano clandestini.
In questo caos in cui la criminalità del governo era pari solo alla sua cialtroneria i CIE si riempirono all’inverosimile di gente più che disponibile ad animare rivolte su rivolte. L’intero sistema concentrazionario italiano andò in crisi. In questo clima maturò l’affare Mineo.
A Mineo, 35 chilometri dalla base militare di Sigonella, la ditta della famiglia Pizzarotti aveva costruito un residence per le famiglie dei militari statunitensi. Nella primavera del 2011 il residence è vuoto, perché gli americani hanno optato per soluzioni più comode ed economiche.
Pizzarotti si ritrova una patata bollente che non riesce a piazzare in nessun modo, finché un governo amico non decise di togliergli le castagne dal fuoco trasformando il residence in CARA, ossia un centro per richiedenti asilo. Lì vennero deportati richiedenti asilo da ogni angolo di’Italia, interrompendo le pratiche già in atto, spezzando le relazioni con la gente del luogo. In questo modo i CARA si potevano trasformare in CIE e la famiglia Pizzarotti non ci rimetteva un euro.
Due anni dopo il CARA di Mineo è strapieno, luogo di proteste e rivolte da parte di profughi e rifugiati, dimenticati in questa prigione nel deserto. Le pratiche, tutte concentrate a Catania, si sono allungate all’infinito, le risposte tardano, Mineo è diventata una polveriera.
Grecia. Il muro di Evros e la guerra all’immigrazione
La Grecia ha deciso: il muro lungo il confine con la Turchia si farà. Lo ha annunciato il ministro “per la protezione dei cittadini” Michalis Chrisochoidis. L’Unione Europea non finanzierà il progetto, peraltro caldeggiato da Sarkozy, ma non si opporrà a quello che l’incaricata UE Cecilia Malmström, ha definito un “affare interno”.
La pressione dell’estrema destra xenofoba, che i sondaggi danno in crescita, il tentativo di spezzare il fronte della lotta di classe giocando la carta della guerra tra poveri, sono all’origine della scelta di dare una ulteriore svolta disciplinare all’immigrazione nel paese ellenico.
Molti immigrati sono afgani, spesso minorenni, cui è negato l’asilo politico o il riconoscimento dello status di profughi, perché provengono da una paese “democratico” e non hanno “motivo” di fuggire.
Tanti si ammassano in campi di fortuna alle spalle di Patrasso, nella speranza di guadagnare un passaggio clandestino verso l’Italia. Nel nostro paese se ne parla solo quando qualcuno muore schiacciato dalle ruote di un camion cui si era aggrappato.
Il muro di Evros è solo uno dei tasselli – forse solo il più visibile – di una politica di repressione dell’immigrazione clandestina, che nei prossimi mesi porterà alla costruzione di 30 centri di detenzione da mille posti l’uno.
Nei quartieri periferici di Atene, la grande città dove si concentrano gran parte degli immigrati che provano, attraverso la Grecia, ad approdare nell’Europa più ricca, si moltiplicano le aggressioni fasciste.
Ne abbiamo parlato con Georgios del gruppo di comunisti libertari di Atene.
Ascolta l’intervista a radio Blackout
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Respingimenti in mare. Strasburgo condanna l’Italia per tortura
La Corte europea dei diritti umani di Strasburgo ha condannato l’Italia per i respingimenti verso la Libia. La condanna riguarda il caso “Hirsi”. 24 persone per le quali non è stato rispettato l’articolo 3 della Convenzione sui diritti umani, quello sui trattamenti degradanti e la tortura.
I 24 facevano parte di un gruppo di 200 profughi di guerra somali ed eritrei, intercettati in mare il 6 maggio del 2009, caricati su navi italiane e portati in Libia contro la loro volontà, senza dare loro la possibilità di fare richiesta di asilo.
In Libia sono stati per mesi in prigioni dove hanno subito abusi di ogni genere. La loro vicenda non è stata seppellita nel silenzio e nell’indifferenza per un mero caso. Intercettati in Libia dal Cir – consiglio italiano rifugiati – hanno incaricato gli avvocati Anton Giulio Lana e Andrea Saccucci dell’Unione forense per la tutela dei diritti umani di presentare ricorso dinanzi alla Corte europea dei diritti dell’uomo.
L’Italia dovrà pagare il risarcimento a 22 delle 24 vittime: 15.000 euro più le spese. Gli altri due sono morti in un nuovo tentativo di raggiungere l’Italia.
Ma è solo un dato simbolico, perché il prezzo vero di quelle vite non lo pagherà nessuno. Il prezzo per quelli annegati in mare, per quelli torturati, struprati e umiliati nelle prigioni libiche, per chi è morto di fame e di sete nel deserto perché non aveva denari per pagare i mercanti d’uomini. Nessuno pagherà il prezzo per i bambini che quel giorni e in tanti altri giorni anonimi e non saputi di questi anni di guerra ai poveri hanno visto chiudersi l’orizzonte della loro vita.
Una lunga strage. Una strage di Stato.
La condanna della corte di Strasburgo rappresenta tuttavia un duro colpo alla politica delle espulsioni collettive, sancita dal trattato di amicizia italo-libica voluta da Prodi, siglata da Berlusconi e perseguita di recente dal governo Monti, nel corso della visita in Libia del 21 gennaio.
Ma – lo sappiamo bene – non cambierà le politiche della Fortezza Europa.
Finché ci saranno frontiere, muri, filo spinato, finché ci saranno uomini in armi a sorvegliarne i confini, le convenzioni, i diritti umani, le corti internazionali non saranno che l’alibi umanitario, la foglia di fico di un’Europa chiusa, spaventata, arroccata intorno ai propri privilegi.
I 22 salvati di Strasburgo ci ricordano le migliaia di sommersi senza nome che il mare nostrum ha inghiottito. 1500 solo nel 2011. Da qualche parte, in un campo profughi, in un villaggio remoto c’è qualcuno che ne ha memoria. Qui da noi non sono che i numeri che scandiscono il ritmo di una guerra. La guerra ai poveri.
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Il prezzo di Tunisi: 150 milioni di euro
Venerdì 25 marzo. Maroni e Frattini, in visita a Tunisi, hanno fatto un’offerta di quelle che non si possono rifiutare. Un credito sino a 150 milioni di euro più pattugliatori e uomini della Guardia di Finanza per l’addestramento. In cambio il governo tunisino ha promesso di fermare le partenze verso l’Italia. Nel pacchetto sottoscritto dal premier Essebsi anche un impegno per i rimpatri.
Vi ricorda niente? Il governo italiano fece con il governo libico un accordo del tutto simile.
I libici a dire il vero offrivano il servizio completo: respingimenti, galere, abbandono nel deserto.
Ne sanno qualcosa i profughi di guerra eritrei rinchiusi per anni nelle prigioni di Misurata e di Brak. Chi volesse rinfrescarsi la memoria sul quell’accordo se lo può rileggere sul sito della Camera dei deputati.
È significativo che sinora non siano approdati a Lampedusa i fantomatici profughi libici, mentre da ieri le agenzie battono la notizia di un barcone con trecento eritrei forse disperso in mare. Sarebbero i primi profughi di guerra ad arrivare in Italia dopo l’accordo italo-libico.
Chi sa? Forse la crisi libica ha riaperto la rotta del Mediterraneo.
Sarebbe interessante sapere se i pattugliatori donati dal governo italiano alla Libia siano ancora in azione sulle coste della Tripolitania. In settembre, quando uno di questi mezzi aprì il fuoco su un peschereccio di Mazara del Vallo, a bordo c’erano sei uomini della Guardia di Finanza. Saranno rientrati in Italia o sono ancora lì, fianco e fianco con le guardie del Colonnello?
Sapremo nelle prossime settimane se governo tunisino sarà in grado di mantenere gli impegni presi con Maroni e Frattini – incassando così il proprio compenso – o dovrà fare marcia indietro. Se il vento delle recenti rivolte soffia ancora potrebbe non essere facile.
Un fatto è certo: i conti non tornano. Se le cifre diffuse dal ministero dell’Interno sono vere, se negli ultimi due mesi e mezzo sono sbarcati 15.700 tunisini, ne mancano parecchi all’appello. Solo una minima parte è stata trasferita nei CIE o nei CARA o nel “residence degli aranci” di Mineo. Tre/quattromila li smisteranno nelle varie regioni nei prossimi giorni.
E gli altri? O le cifre degli sbarchi sono state volutamente gonfiate oppure i tunisini fantasma sono andati ad ingrossare – in Italia e in Francia – le file dei senza carte, che campano lavorando in nero.
Il contrasto dell’immigrazione illegale è il pedaggio da pagare ad un elettorato cresciuto nell’odio e nella paura dei “clandestini” e, allo stesso tempo, il mezzo per disciplinare i lavoratori stranieri. Con o senza carte.
Padroni e padroncini ringraziano per l’arrivo di carne fresca da mettere al lavoro. Senza tutele, senza orari, senza pretese.
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Gheddafi batte cassa
Martedì 30 novembre. Gheddafi, dalla tribuna della conferenza tra l’Unione Africana e l’UE, ribadisce che vuole soldi. E tanti. Non è la prima volta che il leader libico batte cassa: lo aveva già fatto il 30 agosto in occasione della sua visita in Italia ad un anno dalla stipula degli accordi sui respingimenti in mare. L’argomento è sempre lo stesso: se volete un cane da guardia alle porte del Mediterraneo dovete pagare. Cinque miliardi di euro è la sommetta che Gheddafi pretende dall’Unione Europea, chiedendo una “maggior cooperazione tra Africa ed Europa” sul modello dell’intesa tra Italia e Libia.
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Egitto/Israele. Un altro muro
L’ultimo di cui sappiamo lo hanno ammazzato l’11 novembre. Aveva solo ventun’anni e fuggiva dalla guerra infinita che sta inghiottendo le vite di tanti giovani eritrei. Ma la guerra, quella contro immigrati e profughi, lo ha raggiunto ad un passo dal confine tra Egitto ed Israele. La polizia di frontiera egiziana gli ha sparato nel deserto del Sinai.
I giovani eritrei sono obbligati ad un servizio militare senza fine. Molti disertano e sono disposti a tutto pur di non tornare indietro. Chi viene riacciuffato è torturato atrocemente. “Non uccideteli. Se muoiono non soffriranno abbastanza”: sono le parole rivolte ai colleghi da una guardia carceraria eritrea.
Dopo gli accordi tra Italia e Libia per i respingimenti in mare di profughi e immigrati sono sempre di più quelli che provano la nuova rotta, aperta dai rifugiati dal Darfur, dopo la strage del 30 dicembre 2005. Quel giorno l’esercito egiziano assalì 3.500 sudanesi disarmati che da tre mesi erano accampati in segno di protesta nel parco “Mustafa Mahmoud”, al Cairo, non lontano dagli uffici dell’Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i rifugiati. Fu una strage. Tra i 25 morti c’era anche una bambina di quattro anni. Da allora i sudanesi del Darfur, cui è negato lo status di rifugiati, non provano più a rimanere in Egitto e tentano la strada per Israele.
Una traversata pericolosa come quella del mare, tra un deserto e guardie pronte a sparare.
Israele, dopo una breve stagione di accoglienza, ha deciso di sigillare le proprie frontiere. Con un Muro. Un altro muro delle vergogna, simile a quello costruito in Cisgiordania, verrà eretto lungo 110 dei 240 chilometri di confine con l’Egitto. La costruzione è cominciata il 22 novembre.
Non sappiamo se raggiungerà lo scopo di tenere fuori i 700 immigrati che ogni settimana provano a passare la frontiera. Sappiamo tuttavia che altri ragazzi vedranno spegnersi contro quel muro le loro speranze.
Sappiamo anche che le tariffe dei mercanti d’uomini sono destinate ad aumentare. È del 25 novembre la denuncia dell’associazione Habeshia diffusa dall’agenzia Amisnet di “ottanta profughi eritrei sequestrati al confine tra Egitto e Israele.” Pare siano partiti dalla Libia, pagando duemila dollari, ma ora i passeur pretendono di più.”
“Sono tenuti legati con le catene ai piedi, non hanno acqua per lavarsi da venti giorni, sono segregati in case nel deserto del Sinai, sotto minaccia di morte se non pagano ottomila dollari ai trafficanti di uomini”. La denuncia arriva dall’associazione Habeshia.
Leggi l’articolo pubblicato da PeaceReporter e quello comparso su Il pane e le rose
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Torino. Arrestati due rifugiati
Torino mercoledì 20 ottobre, stazione di Porta Nuova. Quattro ragazzi vengono fermati dalla polizia al binario dove uno di loro sta per partire. Hanno fretta, chiedono agli agenti della Polfer di rinunciare alla perquisizione dei bagagli, perché il treno è in partenza. Niente da fare. Anzi. I poliziotti trascinano in guardiola i quattro. Due finiscono alle Vallette con l’accusa di lesioni e resistenza, gli altri hanno in tasca una denuncia per resistenza.
Il conto non vi torna?
Dimenticavamo un particolare senza apparente importanza. I quattro ragazzi sono etiopi. I documenti in regola, il biglietto pagato, lo status di rifugiati non sono bastati. Sono neri e tanto basta. Continua a leggere