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Palermo. Navi-prigione per nuovi appestati

È proprio vero che al peggio non c’è mai fine. Dopo i fatti di Lampedusa, dopo quel naufragio dell’umanità che ha portato a una guerra civile fra immigrati e abitanti dell’isola e alla conseguente espulsione di tutti i tunisini, il governo italiano sta mettendo in atto un’operazione inaudita, degna dei peggiori regimi dittatoriali.
In queste ore, settecento immigrati che si trovavano a Lampedusa sono stati trasferiti e si trovano attualmente stipati e detenuti su tre navi ancorate al porto di Palermo: “Moby Fantasy” e “Audacia” di Grandi navi veloci, e la “Moby Vincent”. Il molo Santa Lucia è letteralmente blindato. Sono 650 gli agenti delle forze dell’ordine impiegati in questo internamento concentrazionario su quelli che, burocraticamente, sono definiti “centri di raccolta galleggianti”.
L’obiettivo è quello di rimpatriare a poco a poco tutti gli immigrati, ma la cosa agghiacciante è che le autorità stanno cercando di nascondergli come stanno realmente le cose. I telefonini dei migranti sono stati tutti sequestrati per evitare ogni contatto con l’esterno e scongiurare possibili rivolte a bordo delle navi. Nel frattempo, il governo di Tunisi tiene duro, e le operazioni di rimpatrio stanno subendo un evidente rallentamento.
Sulle navi le condizioni igieniche sono ai limiti della tollerabilità umana e la tensione cresce di ora in ora. Non dovrebbe più stupire nessuno, ma vale la pena di ricordare che tutto questo avviene al di fuori di ogni minima garanzia legale. Le detenzioni non giustificate da un provvedimento di un giudice sono contrarie al più elementare ordinamento giuridico democratico, così come sono legalmente vietate le espulsioni di massa. E invece, a Palermo, il governo italiano tiene segregate settecento persone su tre navi al porto, come se fossero appestati in quarantena, in attesa di disfarsene il prima possibile.
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Primo Marzo a Palermo. Un’occasione perduta

Martedì primo marzo si è svolto il corteo pomeridiano, indetto dal locale Comitato organizzatore, in occasione della giornata nazionale dello sciopero dei migranti. Una mobilitazione importante che, quest’anno, è stata dedicata in tutta Italia alla memoria di Noureddine Adnane, venditore ambulante marocchino che è morto proprio a Palermo il 19 febbraio dopo essersi dato fuoco in segno di protesta per i continui e vessatori controlli alla sua bancarella da parte dei vigili urbani. Purtroppo, siamo costretti a riferire che – nonostante il forte valore simbolico di una manifestazione organizzata proprio nella città in cui Noureddine è morto – in piazza sono scese poco più di cento persone.
Pochissimi gli immigrati, pochi gli italiani, assenti tutti i sindacati. E dire che, pochi giorni prima, davvero molta gente aveva partecipato al presidio antirazzista organizzato a una settimana dalla morte di Noureddine, proprio nel punto esatto in cui il ragazzo si era cosparso di benzina mentre i vigili urbani palermitani redigevano il solito, persecutorio verbale.
Un’occasione perduta, quella del primo marzo a Palermo, che fa riflettere sull’oggettivo stato di debolezza che sta attraversando il movimento antirazzista cittadino e sullo scarso radicamento delle lotte all’interno del tessuto sociale delle comunità immigrate. C’è ancora molto lavoro da fare, e non saremo di certo noi anarchici a tirarci indietro.
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Profughi, galere, affari

Il tempo è galantuomo e, prima o poi, il conto lo si paga sempre. Oggi l’Europa si trova a fronteggiare un brusco aumento dei flussi migratori dai paesi del Nordafrica, ovvero quei paesi incendiati nelle ultime settimane da rivolte popolari inedite, contro il caro-vita, per la libertà, contro l’autoritarismo di regimi pluridecennali foraggiati proprio dalle classi dirigenti occidentali.
Tunisia ed Egitto, su tutti. Ma anche Algeria, Yemen, Bahrein, Libia. Popoli incredibilmente giovani rispetto alle medie anagrafiche di un’Europa vecchia e malconcia, e altrettanto affamati di futuro. Dopo la caduta di Ben Alì in Tunisia e di Mubarak in Egitto, a tremare sono gli altri dittatori del Maghreb. Anche il colonnello Gheddafi, una vecchia conoscenza del governo italiano, comincia a sudare freddo e reagisce con la ferocia che lo contraddistingue.
Sono più di 5.000 gli immigrati, per lo più tunisini, approdati in Sicilia e nelle sue isole minori come Lampedusa e Pantelleria. Un esodo massiccio e abbastanza prevedibile dopo le rivolte dei giorni scorsi. In particolare, la situazione politica e sociale in Tunisia è in continuo mutamento: i sostenitori di Ben Alì non mollano ed è palpabile la sensazione che possano innescarsi meccanismi da guerra civile se la transizione non riuscirà a fare piazza pulita dei residui del vecchio regime. La gente comune è spaventata, e tenta il tutto per tutto. L’Italia rappresenta, oggi più di ieri, il primo passo per spiccare il volo verso il futuro in Europa. Come al solito, la risposta del governo italiano è in linea con la miseria dei suoi esponenti.
Il ministro dell’Interno Roberto Maroni parla di emergenza umanitaria, ma i dispositivi che si stanno predisponendo – con l’immarcescibile Protezione civile – fanno pensare a una gestione da internamento di massa davvero inquietante. Maroni parte dal presupposto che le migliaia di immigrati che stanno arrivando in Italia sono tutti “clandestini” e, in quanto tali, vanno trattati alla stregua dei criminali. Pertanto, il governo sta procedendo alla individuazione di strutture per la “accoglienza” di queste persone purché queste strutture siano controllabili, fuori dai centri abitati e impermeabili a tentativi di evasione.
Un concetto di accoglienza, quello di Maroni, che conosciamo benissimo. Per far fronte all’emergenza, è stato riaperto il Centro d’Identificazione ed Espulsione di Lampedusa. Poi sarà riaperto il CIE di Caltanissetta con annesso Centro per richiedenti asilo, una struttura che era stata praticamente messa fuori uso un anno e mezzo fa da una durissima rivolta di immigrati. Anche Trapani viene mobilitata con il suo piccolo, ma famigerato, lager – il CIE “Serraino Vulpitta” – con il più capiente centro per rifugiati di contrada Salinagrande, e con molte altre strutture sparse in provincia e saldamente controllate dalla Caritas.
Nel resto della Sicilia, saranno utilizzati conventi, strutture ecclesiastiche, alberghi in disuso. A Palermo si prevede l’impiego dell’area in cui sorgeva la Fiera del Mediterraneo: capannoni e edifici che un tempo ospitavano la famosa (e fallimentare) fiera campionaria, potrebbero contenere 200 persone. Ma è nella Sicilia orientale che il governo ha davvero superato se stesso. A parte l’ipotesi agghiacciante di allestire delle tendopoli nel ragusano e nel siracusano, in provincia di Catania il governo vorrebbe impiegare il Villaggio degli aranci, un complesso residenziale che ospitava i militari di stanza nella base Usa di Sigonella. Settemila posti in un’area rigorosamente militarizzata e facilmente controllabile. Settemila posti per altrettanti richiedenti asilo che vivono in tutta Italia e che verrebbero convogliati a Mineo, nella piana di Catania, sradicati dai territori in cui – a grande fatica – stanno rifacendosi una vita. Un’ipotesi davvero allucinante ma che rappresenterebbe un’occasione ghiotta per il proprietario del residence, l’azienda parmigiana Pizzarotti, che proprio non sapeva come fare per utilizzare quelle 404 villette dopo il rifiuto del governo Usa a rinnovare il canone d’affitto. Adesso pagherà il governo italiano, sicuramente con i soldi che Maroni ha chiesto, pestando i piedi, all’Unione europea.
Insomma, con l’aumento degli sbarchi aumentano anche le occasioni di profitto per chi lucra su un modello di gestione dei flussi migratori che non ha niente a che fare con l’accoglienza. Dopo aver investito tutto sulla repressione e sulla criminalizzazione dei migranti e del loro status di clandestini, il governo italiano deve fare i conti con migliaia di persone che avrebbero tutto il diritto di chiedere il permesso di soggiorno per motivi umanitari alla luce delle condizioni sociali e politiche in cui versano i loro paesi di origine. Per loro, il trattenimento nei Centri di Identificazione ed Espulsione, e il successivo rimpatrio, sarebbero un abuso giuridico ancora più intollerabile, così come l’internamento coatto in qualunque altra struttura circondata e guardata a vista da poliziotti, preti e militari.
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Palermo. Noureddine che si è dato fuoco

Noureddine Adnane ha 27 anni ed è nato in Marocco. Vive in Italia dal 2002 e si guadagna da vivere facendo l’ambulante. Lo conoscono tutti nel quartiere, e tutti gli vogliono bene, al punto che i palermitani lo chiamano “Franco”. Noureddine riesce a portare a casa una ventina di euro al giorno. Mette i soldi da parte, con ostinazione e speranza, perché vuol far venire in Italia sua moglie e la loro bambina di due anni.
Ma a Palermo i venditori ambulanti, specialmente immigrati, devono fare i conti con la polizia municipale: retate nei mercatini, ispezioni, multe, sequestri della merce, intimidazioni. Noureddine non è un abusivo, ma riceve la visita dei vigili urbani per cinque volte in una settimana: davvero troppo per chi deve sbarcare il lunario tra mille difficoltà.
Di fronte all’ennesimo controllo, alla minaccia di sequestro della merce, Noureddine si è sentito solo e in preda al panico, ha preso la benzina, se l’è versata addosso, e s’è dato fuoco. Il vigile urbano che stava redigendo il verbale cerca di coprire le fiamme col giubbotto, mentre gli avventori di un bar tentano di spegnere con l’acqua delle bottiglie quella torcia umana. Il corpo di Noureddine è tutto ustionato, e viene ricoverato d’urgenza all’ospedale Civico dove sta lottando contro la morte.
Questo è il prodotto dell’esasperazione che nasce dalla repressione dilagante nei confronti degli immigrati, dei poveri, dei senza-carte, anche a Palermo.
L’anno scorso le forze dell’ordine si sono scatenate più volte a piazzale Giotto: pistole spianate ed elicottero che volteggiava sul mercatino settimanale. Un incredibile spiegamento di uomini e mezzi per dar la caccia a chi vende cinture o borse a buon mercato. Per non parlare della persecuzione nei confronti dei lavavetri ai semafori, con retate in grande stile contro “pericolosi clandestini” armati di secchio e tergicristallo.
A Palermo è in vigore dall’anno scorso la famigerata ordinanza per il “decoro urbano”, uno dei tanti provvedimenti con cui – in tutta Italia – i sindaci hanno applicato le direttive del pacchetto-sicurezza. La legalità si svela per ciò che è realmente: l’esercizio del potere per schiacciare i più deboli.
Nella Sicilia vessata dal potere mafioso e dal malaffare politico, la “sicurezza” viene garantita perseguitando i soggetti più vulnerabili, come se in questa terra il problema fossero i lavavetri ai semafori o gli ambulanti che vendono la roba sui marciapiedi.
Noureddine voleva solo lavorare in pace e il suo gesto è un urlo assordante contro l’ingiustizia e la criminalità del potere.
Sabato 19 febbraio. Noureddine non ce l’ha fatta: è spirato questa mattina. Continua a leggere

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