Si deve scoprire un crimine che si adatti alla punizione
e ricostruire la natura dell’internato per adattarla al crimine
(Erving Goffman, Asylums.
Le istituzioni totali: i meccanismi dell’esclusione e della violenza.)
Con questa citazione da Goffman si apre il rapporto di Medici per i diritti umani – MEDU – sul CIE di Ponte Galeria, visitato, tra mille difficoltà, nell’ottobre di quest’anno.
“Il centro presenta l’aspetto di una struttura penitenziaria. Il perimetro del CIE è delimitato da alte mura ed è posto sotto la vigilanza delle forze di pubblica sicurezza.
All’interno, le aree maschili e femminili sono delimitate da recinzioni costituite da sbarre alte 5 metri.”
Una giovane immigrata nel CIE da quattro mesi racconta “Spesso ci davano da mangiare il cibo scaduto il giorno prima. Nei bagni c’erano i topi e nel centro c’era sporcizia ovunque. Una volta un ragazzo africano ha provato a scappare sui tetti ma è stato raggiunto da venti poliziotti che lo hanno riempito di botte. Da parte degli operatori c’era poco rispetto verso noi donne, forse perché la maggior parte di noi veniva dalla strada.”
“…lo stesso responsabile dell’ente gestore ha definito ‘disumana’ la decisione di prolungare i tempi di trattenimento a 6 mesi in posti ‘dove al massimo si potrebbe resistere 15 giorni’.”
L’ente gestore del lager di Ponte Galeria è la cooperativa Auxilium, subentrata a gennaio alla Croce Rossa che ha gestito il CPT e poi il CIE sin dal 1998, quando la legge firmata da Livia Turco e Giorgio Napolitano li istituì.
Verrebbe da chiedere al responsabile dell’Auxilium come mai sia disposto a gestire un luogo progettato in maniera tanto disumana. Ma la risposta la sappiamo già: i Centri sono un affare decisamente lucroso. Et pecunia non olent. I soldi non puzzano.
Nelle conclusioni gli autori auspicano un superamento della detenzione amministrativa ed un diverso modo di trattare la clandestinità, perché “in effetti, quella dei CIE appare essere proprio la storia sbagliata di un’istituzione, per troppi aspetti, inumana, ingiusta, inefficiente ed inutile.”
Anche chi è attento alla tutela della persone non vede che la clandestinità la fanno le leggi.
Senza Stati, confini, barriere, filo spinato, nessun essere umano è illegale.
Scarica qui il rapporto.
Di seguito un articolo comparso su Repubblica del 17 novembre
Rapporto sul CIE di Ponte Galeria “Disumano, inefficiente, inutile”
Roma – “Veniamo da Paesi poveri, alcuni sono scappati per vedere il mondo e dimenticare tutto, ma hanno trovato solo sbarre e cancelli. Ci danno sonniferi e tranquillanti tutto il giorno, un giorno a settimana la barba e uno i capelli, la carta igienica viene distribuita due giorni a settimana, ci danno da mangiare cibo scaduto”. Era giugno scorso quando una lunga lettera raggiunse la stampa da dentro il CIE, Centro di Identificazione ed Espulsione di Ponte Galeria, a pochi giorni dall’ultima rivolta degli immigrati, che lì vengono rinchiusi anche per sei mesi, in base all’ultima decreto sicurezza del governo. Il CIE più grande d’Italia, quello che un anno fa il prefetto di Roma Giuseppe Pecoraro annunciava di voler chiudere e trasformare in luogo di transito di rom, è invece sempre lì. Gli ultimi ad entrarci per un sopralluogo, lo scorso 14 ottobre, sono stati quattro esponenti di Medici per i diritti umani (Medu), che a Ponte Galeria avevano già fatto quattro sopralluoghi fra il 2005 e il 2008, quando ancora la legge permetteva di trattenere gli irregolari in corso di identificazione per 60 giorni e non per i sei mesi attuali.
Una storia sbagliata. Il titolo del rapporto è la sua sintesi. La conclusione, dopo aver precisato che le criticità emerse a Ponte Galeria risultano comuni alla gran parte degli altri 12 Cie presenti sul territorio italiano – come documentato da proprie e altre indagini, per esempio di Medici Senza Frontiere – spiega: “Quella dei CIE appare essere proprio la storia sbagliata di un’istituzione per troppi aspetti inumana, ingiusta, inefficiente e inutile”. E il primo dato da sottolineare è quello sull’efficacia dell’intero meccanismo. “Dal primo gennaio al 27 settembre 2010 – è scritto nel rapporto – le persone trattenute-transitate a Ponte Galeria sono state 1.727, le rimpatriate 747: il 43% del totale. Nello stesso periodo dell’anno precedente, i trattenuti-transitati sono stati 2.667, i rimpatriati 1.159: il 43% del totale”.
La prova del fallimento. Il prolungamento del trattenimento a sei mesi era entrato in vigore l’8 agosto 2009. Le due percentuali, identiche, sono la certificazione di un fallimento anche tecnico, oltre che umano. A queste, si aggiunge la gelida cifra di quanti in tutto il 2009 hanno ottenuto lo status di rifugiato o comunque “una forma di protezione internazionale”: 56 persone delle 3.249 (il maggior numero di tutti i centri italiani) passate per Ponte Galeria. Quei 56 sono l’1,7% del totale.
Il 14 ottobre. Era dall’ottobre 2008 che il Medu non entrava nel centro: per tutto il 2009 il permesso di visita era stato negato. Nell’unica giornata concessa, gli operatori erano accompagnati da “un rappresentante della Prefettura, il direttore del centro e il responsabile sanitario”. Il poco tempo disponibile ha reso impossibili dei “colloqui privati con i trattenuti”. La richiesta di una seconda visita per poterli svolgere è stata rifiutata. E il Medu non è certo il primo a dichiarare un’evidenza: oggi, in Italia, è molto più facile visitare un carcere che un Centro di detenzione ed espulsione.
I disegni. Siccome non era neppure permesso scattare foto, è stato uno del gruppo, Guido Benedetti, a illustrare il rapporto con dei disegni. Erbacce, mura, piloni con il neon in cima, sbarre. Cubi di pietra e ferro con dentro esseri umani: un disegno può essere più duro da guardare di una fotografia. La cronaca del rapporto, fra un’immagine e l’altra, racconta a chi non lo sapesse che dall’apertura del 1998 fino al febbraio del 2010 “la struttura è stata gestita dalla Croce Rossa Italiana”, mentre da marzo è gestita dalla cooperativa Auxilium. Attuale “budget giornaliero per ospite”: 42 euro. Una breve rievocazione delle proteste, degli scioperi della fame e delle rivolte dei “trattenuti” che “hanno più volte denunciato condizioni di vita inumane” serve a evocare la richiesta di chiusura ribadita di recente dal prefetto per “una struttura non sufficientemente rispettosa della dignità umana”.
Sfruttate assieme agli sfruttatori. Il 14 ottobre il centro ospitava 100 uomini in prevalenza del Maghreb e 150 donne in prevalenza nigeriane. Secondo la Prefettura, i più rappresentati nel 2010 sono stati i romeni, seguiti da nigeriane, marocchini, algerini, ucraini e serbi. L’80% degli uomini viene dal carcere, l’80% delle donne dalla prostituzione. E riguardo a loro, vittime quasi sempre della tratta, il Medu sottolinea come, nonostante la presenza settimanale nel centro di una serie di associazioni fra cui quelle dedite proprio alle vittime di tratta come Differenza Donna 3, solo pochissime chiedono aiuto. Motivo: “i condizionamenti ambientali all’interno del centro, ove spesso le vittime si trovano a subire una situazione di convivenza e controllo da parte di persone responsabili o coinvolte nel loro sfruttamento”.
La cittadina Nabruka Mimuni. Ci sono corsi d’italiano, arte terapia, danza. C’è il cineforum, un campo di calcetto e una piccola biblioteca. Ci sono le tv nelle camerate. Ma c’è assistenza sanitaria solo di primo livello. Ci sono psicologhe e medici, però ogni intervento specialistico è reso difficile dal fatto che il personale della Asl Roma D, quella di zona, non ha accesso al centro e mandare un paziente in strutture esterne per visite specialistiche o accertamenti è possibile solo “in ambulanza e con la scorta”. Quanto all’autolesionismo, i tagli di braccia e gambe con la lametta e le simulazioni di impiccagione, “secondo il direttore sanitario” sono molto diminuiti, mentre il medico riferisce che “il primo periodo” (della nuova gestione) “la gente si tagliava in continuazione”. Nel 2009 tre delle quattro morti avvenute all’interno dei Cie italiani, ricorda il Medu, sono state a Ponte Galeria. Una nota precisa: “La cittadina tunisina Nabruka Mimuni, in Italia da vent’anni, si è tolta la vita nel Cie di Ponte Galeria la notte del 6 maggio 2009, il giorno prima del suo rimpatrio”.
La “soluzione psicofarmaco”. La prima dichiarazione è quella del direttore sanitario: c’è “una forte richiesta di sedativi da parte dei trattenuti”. Il 50% circa li assume, precisa. Il medico spiega che l’Auxilium ha trovato una situazione nella quale c’era “prescrizione eccessiva e impropria di psicofarmaci a scopo sedativo”. Il direttore sanitario sostiene che ha razionalizzato la somministrazione “con successo”. Il Medu conclude: “I farmaci vengono ancora somministrati da parte del personale medico senza consulenza psichiatrica”. E sottolinea come non ci sia un regolamento scritto di ogni aspetto della vita interna dei “trattenuti”, al contrario di quanto prescritto.
L’altra punizione. È così che la maggior parte degli immigrati vive la chiusura in un Cie. Fra gli uomini, lo riferisce la stessa Auxilium, “quattro su cinque provengono dal carcere. Accade così che detenuti in condizioni d’irregolarità non siano identificati durante la permanenza in carcere e allo scadere della pena invece di essere rimpatriati siano trasferiti al centro, dovendo così scontare un periodo aggiuntivo di trattenimento”, mentre le donne vittime di tratta lì non trovano alcun modo per “avviare gli opportuni percorsi di assistenza”.
Socialmente indesiderato. Solo nell’ultimo disegno che accompagna il rapporto appare un volto fra due sbarre, occhi neri, capelli crespi, bocca chiusa: Ponte Galeria, provincia extraterritoriale d’Italia, un acquario, un bestiario dove tutto può accadere, per quelle braccia buone al lavoro ma impossibili da accettare insieme ai corpi interi che le portano. Corpi che spaventano: squali, tigri, serpenti infidi. Il Medu, ripetute le scarse cifre degli avvenuti rimpatri, chiude il rapporto con una considerazione che ha il tono di chi vuol far ragionare i pazzi, ma sa che con chi ha la paura – e la forza – dalla sua parte, ci vuole molta pazienza: “Esclusa dunque un’efficacia dal punto di vista degli scopi dichiarati dei Cie – ossia l’identificazione e l’effettiva espulsione dei migranti in condizione d’irregolarità – rimarrebbe per queste strutture la funzione di strumento punitivo ed emblematico di una politica di contrasto all’immigrazione clandestina basata su un approccio esclusivamente securtario. Funzione punitiva che risulta essere sovente la stessa ragione per cui si costruisce e si giustifica un’istituzione totale, insieme al ruolo di contenimento e segregazione per categorie diverse di persone socialmente indesiderate”.
Alessandra Baduel