Martedì 30 novembre. Gheddafi, dalla tribuna della conferenza tra l’Unione Africana e UE, chiede soldi. E tanti. Non è la prima volta che il leader libico batte cassa: lo aveva già fatto il 30 agosto in occasione della sua visita in Italia per il secondo anniversario della stipula del trattato di Bengasi. Era trascorso un anno dalla firma degli accordi sui respingimenti in mare. L’argomento è sempre lo stesso: se volete un cane da guardia alle porte del Mediterraneo dovete pagare. Cinque miliardi di euro è la sommetta che Gheddafi pretende dall’Unione Europea, chiedendo una “maggior cooperazione tra Africa ed Europa” sul modello dell’intesa tra Italia e Libia.
Per essere più persuasivo Gheddafi usa gli stessi argomenti dei leghisti, descrivendo la Libia come unica barriera verso un continente pronto a riversarsi in Europa come un fiume in piena.
Una barriera insanguinata, costellata di morti senza tomba, immonde galere, mercanti d’uomini.
Da quando il governo italiano e quello libico hanno firmato l’accordo, migliaia di immigrati, profughi, richiedenti asilo sono stati intercettati nel Mediterraneo e ricacciati indietro, verso l’inferno da cui provenivano.
Lo scorso anno disse a Repubblica “Ho eseguito gli ordini ma mi vergogno. Quei disperati ci chiedevano aiuto”. Chi sa se il militare che lo scorso anno rilasciò queste dichiarazioni – rigorosamente anonime – al quotidiano Repubblica si vergogna ancora? O ci ha fatto l’abitudine?
La collaborazione tra Libia ed Italia per il contrasto dell’immigrazione risale al 2003: le prime motovedette, assieme ai soldi necessari a pagare i voli di rimpatrio e tre campi di prigionia sono arrivate allora. Nel 2004 veniva promulgata la legge n. 271, che attribuiva al Ministero dell’Interno la possibilità di finanziare la realizzazione, in paesi terzi, di “strutture utili ai fini del contrasto di flussi irregolari di popolazione migratoria verso il territorio italiano”. Il governo Prodi nel 2007 si assunse l’impegno di regalare a Gheddafi altri pattugliatori. Gli ultimi tre sono stati consegnati il 10 di febbraio di quest’anno. Il contrasto attivo dell’immigrazione, in barba alle convenzioni sui rifugiati, profughi e richiedenti asilo, è una costante della politica estera dell’Italia da un governo all’altro.
Il 13 settembre di quest’anno uno dei mezzi donati a Gheddafi intercettò un peschereccio siciliano e aprì il fuoco: per poco non ci scappò il morto. A bordo della motovedetta libica c’erano sei finanzieri italiani. Le dichiarazioni ufficiali sostennero la tesi che si fosse trattato di un “errore”: i marittimi italiani sarebbero stati scambiati per “clandestini”. Vien da chiedersi quanti altri “incidenti” si siano verificati nel Mediterraneo.
I quotidiani in questi giorni si sono concentrati sulle “rivelazioni” di Wikileaks su Gheddafi e Berlusconi. Che Silvio e Muammar siano due puttanieri non è una novità per nessuno. Cosa abbiano significato gli accordi italo-libici per migliaia di uomini e donne invece lo sanno in pochi. Gli altri, quelli che non hanno voce, li hanno incisi indelebilmente nella loro carne.
Sulle galere libiche vi suggeriamo di rileggere il reportage pubblicato nel febbraio dello scorso anno sul blog Fortresse Europe. Sullo stesso blog trovate anche un articolo sui container di metallo rovente usati per deportare uomini, donne e bambini nei campi nel deserto.
Sul destino dei respinti in mare leggete questo pezzo uscito su Peacereporter.