“In Libia non c’era la libertà ma avevamo un lavoro, qui c’è la libertà ma niente lavoro”. Queste le parole di un giovane profugo, durante il corteo di ieri dei profughi dell’ex villaggio olimpico. Di lì ad un paio d’ore avrebbe appreso quanto agre fosse il sapore della libertà nel nostro paese.
Quel ragazzo è uno dei tanti rimasti in strada dopo la fine dell’emergenza nord africa, sancita con decreto ministeriale lo scorso 28 febbraio.
Sono alcune migliaia gli uomini, donne, bambini arrivati in Italia durante la guerra per la Libia. Nessuno di loro è libico. La Libia è un paese ricco, un paese nel quale approdano i sub sahariani per trovare lavoro. La guerra e le persecuzioni del nuovo regime che li considerava complici di Gheddafi li hanno obbligati alla fuga.
Spesso sono stati gli stessi soldati di Gheddafi e obbligarli a salire sui barconi. L’ultima zampata del tiranno di Tripoli all’Italia, che, dopo aver stretto trattati di amicizia con la Libia, ha rotto ogni accordo usando i propri bombardieri contro l’ex alleato.
Grazie agli accordi tra Roma e Tripoli, la Libia era diventata il gendarme che garantiva le frontiere italiane contro migranti e profughi dalle guerre africane. Nelle tante prigioni/lager i prigionieri subivano violenze, torture, stupri, ricatti. Molti, abbandonati nel deserto, vi morivano di fame e di sete. Un lavoro sporco, che l’Italia democratica aveva appaltato al tiranno di Tripoli.
La guerra ha fatto nuovi profughi e riaperto le frontiere.
Il governo italiano, costretto a fare buon viso a cattivo gioco, ha approntato un piano di accoglienza che è servito ad arricchire le tante associazioni del terzo settore, che hanno ampiamente lucrato sulle vite dei rifugiati non garantendo nulla di quanto previsto per loro sulla carta.
Un miliardo e 300 milioni di euro dissipati nelle tasche degli avvoltoi, che oggi piangono lacrime di coccodrillo perché hanno perso la gallina dalle uova d’oro.
La speranza del governo era una rapida diaspora dei profughi. Peccato che il permesso di un anno per ragioni umanitarie non valga nel resto dell’Europa. I profughi sono rimasti intrappolati in Italia, senza casa, senza prospettive reali di lavoro, senza possibilità di cercare fortuna altrove.
Una gabbia. Perché tutto fosse legale hanno dovuto firmare un pezzo di carta nel quale “liberavano” lo Stato italiano da ogni obbligo verso di loro in cambio di 500 euro.
A Torino il 30 marzo circa duecento uomini e donne hanno deciso di fare da se, occupando due palazzine dell’ex villaggio olimpico. Domenica scorsa, dopo la casa blu e quella gialla, è stata occupata anche la casa grigia, così altre 130 persone hanno trovato casa.
Il 10 febbraio i profughi hanno deciso di andare in centro città. Al teatro Regio la nuova presidente della camera, nonché ex rappresentante dell’alto commissariato dell’ONU per i rifugiati, Laura Boldrini, inaugurava la Biennale della democrazia.
Partiti in corteo da Porta Nuova, raggiunta in treno dalla stazione Lingotto, profughi e solidali hanno percorso via Roma per giungere in piazza Castello.
La piazza era interamente blindata dalla polizia, che ha imposto al corteo di passare tra due ali di poliziotti, ingabbiando tutti i partecipanti tra transenne sorvegliate da carabinieri in assetto antisommossa e file di blindati che chiudevano il passaggio alle auto.
Le porte del Regio, nel giorno dell’inaugurazione della biennale della democrazia, erano chiuse e sorvegliate da uomini in armi.
Finita la kermesse Laura Boldrini ha accettato di incontrare un gruppetto di profughi e una manciata di solidali. Ha riconosciuto le loro ragioni e fatto tante promesse. Pare che ne parlerà con il ministro dell’Interno. Persino il sindaco Fassino ha pronunciato parole di comprensione a favore delle telecamere.
I profughi sono usciti con in mano un pugno di mosche, che sono subito volate via.
In compenso hanno avuto una lectio magistralis di democrazia reale. Di questo potranno essere grati a Laura Boldrini, che ha offerto loro la possibilità di capire che dignità e la libertà si prendono e non si mendicano.
Vale la pena, al di là della cronaca, interrogarsi sulle apparenti anomalie che hanno segnato la gestione della fine “emergenza” nella nostra città.
Parte degli enti gestori dei vari luoghi di accoglienza: dalla Croce Rossa a Connecting People all’Arci si sono resi conto che la patata era bollente e rischiavano di scottarsi. Chi si specializza nell’umanitario teme i danni di immagine di una gestione maldestra. Sebbene per loro questo sia un business come un altro, resta il fatto che farsi un buon nome o mantenerlo può essere una posta importante per chi aspira a gestire i tanti luoghi in cui si articola il controllo nel nostro paese.
Hanno quindi deciso di chiudere lentamente le varie strutture, evitando di riversare in strada, tutti insieme, centinaia di profughi.
Nonostante tutto la questione continuava a scottare. I dormitori di Torino scoppiano da mesi, perché i senza casa aumentano di giorno in giorno. I profughi dormivano nelle stazioni o in alcune strutture abbandonate dai gestori ma ancora non chiuse. In strada sono finite anche persone che per motivi di salute avevano ancora diritto alla protezione.
L’occupazione delle palazzine dell’ex Moi ha tolto le castagne dal fuoco sia alle associazioni, sia ai loro referenti politici, sia al governo della città, che non era disponibile a tirare fuori dei soldi, ma non voleva fare cattiva figura.
È scattata la fiera del buonismo. Ampi articoli su Stampa e Repubblica che, lungi dal fare la solita propaganda terrorista contro le occupazioni illegali, hanno dato spazio alle ragioni degli occupanti, il prefetto di Pace ha dichiarato che la questione è umanitaria e non di ordine pubblico, il questore Cufalo ha fatto dichiarazioni tranquillizzanti, Boldrini ha incontrato, sia pure al volo, qualche profugo.
Se a questo si aggiunge la relativa tolleranza verso le ben più radicali occupazioni abitative promosse da sportelli e assemblee antisfratto ne emerge un quadro nuovo rispetto a pochi anni fa, quando la crisi non mordeva tanto a fondo nel corpo vivo di Torino.
Il governo della città con il proprio sottobosco di cooperative ed associazioni amiche non riesce ad affrontare le emergenze che le loro stesse scelte politiche hanno contribuito a creare.
Decidere di affidare la gestione delle questioni sociali al manganello rischierebbe di innescare una rivolta sociale dagli esiti imprevedibili.
Di qui la tolleranza per le occupazioni, le dichiarazioni rassicuranti, l’apertura al “dialogo”.
Improbabile che duri, perché disoccupazione, pensioni da fame, mutui e fitti capestro, bollette da pagare, trasporti che aumentano e linee tagliate, ospedali e presidi sanitari che chiudono sono gli indicatori di una situazione sociale che non potrà che peggiorare.
La scommessa, al di là delle scelte delle istituzioni, è costruire insieme ai rifugiati un percorso di autonomia reale.
Il Villaggio dei Profughi si trova in via Giordano Bruno 210.
tratto da Anarres