Da Il Piccolo del 10 settembre 2010
L’inchiesta
Nell’inferno del Cie poliziotti contro operatori
Grave conflitto di competenze tra i controllori mentre gli ospiti seminano il terrore.
Drammatico paradosso
di Giovanni Tomasin
Gradisca D’Isonzo. I dipendenti di una cooperativa costretti a fare i ”poliziotti” ma perseguiti dai poliziotti veri ogni volta che all’interno scoppia una rivolta. La Polizia che non può fare il proprio mestiere, gli ”ospiti” che ne combinano di tutti i colori. Beffa e paradossi nell’inferno del Cie.
Le evasioni in massa e le rivolte hanno guadagnato più volte un posto nelle cronache nazionali al Centro di intentificazione ed espulsione di Gradisca. Negli ultimi mesi, poi, questi eventi si sono ripetuti a scadenza quasi settimanale. Eppure sono soltanto gli effetti più eclatanti delle dinamiche e delle tensioni che si accumulano all’interno del centro: conficcato come un corpo estraneo nel bel mezzo alla campagna gradiscana, il Cie è un mondo a parte, privo di contatti con l’esterno. Dietro alle mura i rapporti tra i cosiddetti ”ospiti”, gli operatori socio-sanitari e le forze dell’ordine sono regolati da meccaniche proprie. Le porte del Cie sono ermeticamente chiuse per la stampa, così il Piccolo ha ricostruito la vita nel Cie facendola raccontare ad alcuni dei suoi protagonisti.
Lo scontro. «All’interno del Cie è in corso un vero e proprio conflitto tra operatori socio-sanitari e le forze dell’ordine, perché le funzioni degli uni e degli altri non sono chiare».
A dirlo è un sindacalista della Cisl che lavora all’interno del Cara, il centro per i richiedenti asilo che si trova all’interno del complesso. La controversia tra polizia e operatori è una conseguenza delle normative ambigue che regolano il centro: ufficialmente gli immigrati del centro non sono carcerati, ma persone trattenute per motivi amministrativi.
Per questo motivo le forze dell’ordine non sono autorizzate a trattare gli ospiti del Cie: si limitano a sorvegliare il perimetro esterno per evitare che si verifichino evasioni. I rapporti con gli immigrati sono gestiti invece dagli operatori socio-sanitari di Connecting People, il consorzio che ha in appalto la gestione del centro. Come dimostrano le rivolte delle ultime settimane questa organizzazione non è efficace nel gestire rivolte e fughe.
«Ora le forze dell’ordine pretendono che gli operatori facciano anche da guardie – dice il sindacalista -. E quando gli ospiti riescono a scappare la colpa viene data agli operatori».
le sospensioni. Tra agosto e settembre la prefettura ha sospeso l’accesso al Cie a due operatori di Connecting people impedendogli, di fatto, di lavorare: in entrambi i casi le sospensioni sono legate a evasioni di ospiti. «Ma dovrebbe essere la polizia a impedire le fughe – dice il sindacalista -. Sta passando il concetto per cui se il poliziotto sbaglia, è il dipendente a dover pagare». La Cisl ha richiesto un incontro con il prefetto Maria Augusta Marrosu per dirimere la questione: «Il problema è politico – prosegue -, e la prefettura deve stabillire con le responsabilità degli uni e degli altri».
La struttura. Il Cie è un mondo a sè, celato dietro il muro di cinta, alto diversi metri, che si affaccia sulla strada regionale 305. Se ci si addentra nella campagna retrostante il centro, però, si scopre il suo volto autentico. Sul retro della struttura non c’è traccia del muro in cemento: forse la sua presenza risponde a esigenze più estetiche che di sicurezza. Si vedono invece le sbarre altissime che servono a impedire le fughe degli ospiti, e gli edifici in cui vengono alloggiati. Lungo il perimetro passeggiano i militari del servizio di guardia.
Venerdì, 10 settembre 2010
Otto ospiti su 10 sono ex detenuti
Gradisca. Secondo un rapporto di Medici senza frontiere l’80% degli ospiti del Cie era composto da ex detenuti. Il rapporto risale al 2008 ma quella percentuale è valida ancora oggi, assicura la Cisl. La presenza di criminali all’interno di un centro pensato per trattenimenti a carattere amministrativo crea inevitabilmente pesanti scompensi: «Sconcerta la rilevante presenza di ex detenuti tra la popolazione detenuta nei Cie – spiega il rapporto di Msf – nei cui confronti sarebbe stato possibile procedere all’identificazione nel corso della detenzione. In tale modo, per l’incapacità delle strutture amministrative preposte, nei fatti si determina un indebito allungamento del periodo di detenzione». Gli ex detenuti intervistati intervistati da Msf denunciano il periodo di reclusione nel Cie con rabbia e frustrazione come un’estensione ingiustificata della pena già scontata. «La presenza di ex detenuti nei Cie – prosegue il rapporto -, oltre ad essere irragionevole rispetto alle finalità per cui è stato istituito il sistema di detenzione amministrativa, rischia di generare ripercussioni negative in termini di condizioni di vita e di modalità di erogazione dei servizi a danno di tutti gli altri trattenuti, soprattutto di quelli appartenenti a categorie vulnerabili».
Questi ultimi sono coloro che non hanno compiuto alcun reato e, non avendo permesso di soggiorno, vengono trattenuti in vista dell’espulsione: i clandestini. Il percorso con cui finiscono nel Cie è rocambolesco: dopo essere stato fermato dalle forze dell’ordine, l’immigrato riceve l’ordine di allontanamento dal territorio nazionale dalla questura. A quel punto viene portato davanti a un giudice di pace e gli viene affidato un difensore d’ufficio. Il giudice ne decreta infine il trattenimento nel Cie (fino a 180 giorni) ai fini dell’espulsione.
Il procedimento è macchinoso perché mima le dinamiche di un vero processo, come spiega Francesco Cecotti di Asgi – Ics (associazione studi giuridici sull’immigrazione): «Tutto questo iter procedimentale è necessario perché il provvedimento questorile è un mero atto amministrativo il quale, da solo, non può consentire il trattenimento fino a 180 giorni di un soggetto che non ha compiuto alcun reato. Perciò si tiene udienza presso il giudice di pace. La presenza di un difensore è necessaria perché deve essere rispettato il diritto di difesa dello straniero la cui libertà personale verrà limitata. A quel punto il giudice di pace, verificati tutta una serie di presupposti, emette un decreto motivato nelle successive quarantotto ore». È così che per l’immigrato si aprono le porte del Cie. «In quei centri si trovano anche persone con esperienze traumatiche di detenzione carceraria all’estero, persone con problemi psichiatrici – conclude Cecotti -, insomma, c’è di tutto». (g.tom.)