Torino. Un pomeriggio al fronte

Torino, mercoledì 6 ottobre. Sul fronte della guerra tra poveri, nel cuore di Barriera di Milano.
Ci siamo piazzati in un microgiardinetto in corso Vercelli, a due passi dall’incrocio dove veleggiano i rondisti. Striscione con “Fuori i razzisti dal quartiere. Casa per tutti!”, un altro con “no ronde”.
In zona da qualche tempo hanno fatto la loro comparsa le ronde contro lo spaccio e per la sicurezza, sostenute da leghisti e fascisti. Dopo il corteo del 17 settembre sembra che ne vogliano fare un altro il 22 ottobre.
Un pomeriggio animato. Si fermano in tanti. Alcuni discutono, altri approvano, altri ancora insultano. Il gruppetto dei rondisti si piazza in zona: chi appoggiato ad un muro con l’aria di fare niente, chi di fronte a gambe divaricate, chi invece passa, discute, strilla.

In questi anni l’orizzonte della guerra tra poveri, tra chi ha – ancora – diritti e chi non li ha mai avuti – ha oscurato quello della guerra di classe.
Un tizio – uno di quelli che ciondolano al bar di quelli delle ronde – dice “facevo il muratore, poi sono arrivati quelli e hanno abbassato i salari. Io, per quattro soldi, non lavoro e sono rimasto a casa. Quelli se ne devono andare”. Siamo a Torino, in Barriera di Milano, ma potremmo anche essere altrove: le periferie si somigliano tutte. La gente fatica ad arrivare alla fine del mese e se la prende con quelli che stanno peggio.
Capita così che il consenso alla disuguaglianza venga proprio da quelli che l’uguaglianza vera non sanno bene cosa sia.
Un’anziana delle case popolari urla contro quei “colossi alti due metri che stazionano sul corso dopo le nove”. È incazzata con lo striscione “no ronde”, l’altro, quello antirazzista, le va bene. A chi le fa notare che senza il proibizionismo non ci sarebbe nemmeno lo spaccio, risponde sorprendentemente “allora scrivete ‘liberare la droga’, non ‘no ronde’!”
Due ragazzine passano e ci dicono: “era ora che qualcuno lo dicesse!” Un’anziana ci offre dei soldi, dice che lei gli zingari li aiuta, “perché la gente mica è tutta uguale: ci sono quelli bravi e quelli cattivi”.
I rondisti, alcuni con cane feroce, non hanno un aspetto troppo rassicurante. Dopo un po’, oltre al manipolo di Digos, che come sempre staziona all’angolo, arriva un gippone dell’antisommossa.
I rondisti da una parte, i marcantoni dell’antisommossa dall’altra, gli anarchici in mezzo. Una situazione idillica. Per fortuna tanto tuonò che non piovve.
Superiamo anche il confronto con cinque o sei fascistelli che vorrebbero che “la droga la vendessero gli italiani”. Uno di loro, il più esagitato, va in giro con una tuta con i colori rasta e la foglia di marijuana. Un altro, “toni” da operaio e aria stanca, stravaccato sul cofano di un’auto in sosta, sostiene che lui lavora, eccome se lavora. Il padrone lo fa lavorare anche 12 ore e lui non ne può più… di quelli che spacciano e girano con il mercedes!
Un’africana si ferma al banchetto dei libri e compera “Che cos’è la proprietà”. Chi sa se uno come il giovane operaio fascistello di prima se lo leggerà mai?
Una donna sulla sessantina si ferma e chiede la biografia di Durruti: è pensionata e collabora con il sindacato pensionati della CGIL. Una ragazza giovane con il suo bambino decide di fermarsi lì in segno di solidarietà, suggerisce di tornare quando faranno la festicciola della strada.
Uno dei rondisti più vecchi va e viene: all’inizio insulta, poi si ferma a parlare, appoggiato alla nipote che ci guarda come fossimo marziani. Alla fine, prima di allontanarsi tra il serio e il faceto ci dice “però non mi picchiate quando mi vedete in giro”.
Alcuni erano giovani, molti avevano una certa età, abbastanza per ricordare che spacciatori e tossici in Barriera ci sono sempre stati.
Abbastanza per ricordare e sapere che i problemi per chi ci vive sono ben altri. Ben più importanti.
Il lavoro non c’è, e, quando c’è, è precario, pericoloso, malpagato. Il problema è il lavoratore immigrato che accetta salari e condizioni da paura, perché altrimenti rischia di essere ricacciato verso la miseria da cui è fuggito, o invece il padrone che lucra sulle vite di tutti?
Il governo sta facendo la guerra contro i poveri, italiani o immigrati che siano.
Le scuole scoppiano perché non ci sono le maestre, lasciate a casa per i tagli voluti dal ministro Gelmini. Se hai un figlio disabile forse quest’anno non ha trovato più il sostegno di cui ha bisogno. Il problema sono i bambini e le bambine immigrati che hanno a loro volta bisogno di sostegno per imparare la lingua, o un governo che aumenta la spesa di guerra e riduce i servizi per le persone?
La salute è diventata un lusso che pochi possono permettersi. Il problema è il tossico che di notte si siede sugli scalini della mutua di via Montanaro o le attese di sei mesi per un’ecografia?
L’aria, nel quartiere più inquinato di una delle città più inquinate d’Europa, è diventata irrespirabile: in certe notti il lezzo degli scarichi industriali taglia il fiato e rovina la salute. Ma a lor signori nessuno presenta il conto per quelli di noi che si ammalano.
Vivere le periferie non è mai stato facile. Lo è ancor meno oggi che la crisi morde le vite di tanti. Troppi. Nell’affanno del lavoro che non c’è e, quando c’è, è sotto costante ricatto, la guerra tra poveri, alimentata dalla propaganda dell’emergenza e della paura, trasforma strade segnate dalla storia della guerra di classe, dall’orgoglio di chi lotta per il pane e per un futuro senza padroni, nel terreno di caccia di chi, sul razzismo, sulla paura dell’altro, ha costruito consensi e fortune.
Tossici e pusher, il babau di ogni periferia, pretesto per retate e controlli, li vogliono i governi di destra e quelli di sinistra. Il proibizionismo ingrassa le mafie ed alimenta il disagio di vivere.
Ma fa comodo, tanto comodo. L’ombra del pusher sotto casa nasconde la fatica di arrivare a fine mese, la difficoltà di pagare la mensa a scuola per i figli, il domani che prolunga un oggi di incertezze e paura. Paura vera, quella di una precarietà senza fine.
Ci serve sicurezza. Sì, ma quella vera. Quella di chi ha un futuro da consegnare ai propri figli. E, forse, se l’orizzonte chiuso della Barriera si aprisse, tanti ragazzi e ragazze non finirebbero negli angoli a cercarsi una dose.
Sì è tempo di riprendersi i quartieri. Rompendo la propaganda razzista e securitaria, puntando sulla solidarietà tra gli ultimi, spezzando il fronte della guerra tra poveri.
Ricordando che i nemici, quelli veri, siedono nei consigli di amministrazione delle fabbriche dove, generazione dopo generazione, la gente di Barriera ha consumato la vita per un pezzo di pane.

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