Le brutali dichiarazioni dell’esponente leghista Dolores Valandro, che augurava al ministro Kyenge di essere stuprata perché potesse capire cosa “provavano le vittime di stupro”, postata su un sito specializzato in “crimini degli immigrati” hanno suscitato un’indignazione indignazione tale da indurre i dirigenti del suo partito ad espellerla. D’altra parte Valandro era già in odore di eresia per essersi schierata con il potente padre della formazione padana Umberto Bossi.
Colpisce che, nonostante la presa di distanza dei vertici del suo partito Valandro abbia numerosi sostenitori: il gruppo facebook fatto in sua difesa ha raccolto in poche ore 3.625 iscritti.
Inutile sottolineare il razzismo insito nel frequentare un sito che si occupa in esclusiva dei reati commessi da immigrati, come se vi fosse in questo una particolarità genetica evidente. Il razzismo fa parte del DNA della Lega, un partito che si pasce delle ceneri dei tanti autonomismi del nord, ma costruisce la propria identità nella creazione di una piccola patria assediata da una decadenza inarrestabile.
I nemici iniziali della Lega furono i meridionali, al punto che all’epoca della promulgazione della prima legge che ne limitava l’accesso nel nostro paese, legge firmata dal socialista Claudio Martelli, i leghisti si opposero perché ritenevano che l’ingresso di lavoratori stranieri avrebbe ridotto il numero di indolenti lavoratori meridionali.
La vicenda di cui è stata protagonista Dolores Valandro, pur pienamente inscrivibile negli stereotipi del razzismo in salsa padana, rimanda ad un razzismo più profondo, quello maturato durante l’era feroce del colonialismo italiano nel corno d’Africa.
Le popolazioni colonizzate erano descritte in modo da renderne pressoché inattingibile l’umanità. Pavidi, feroci, stupratori gli uomini, animalesche e disponibili le donne. Il nostro paese non ha mai fatto i conti con la cultura che lo ha permeato negli anni della conquista coloniale prima e dell’Impero poi.
L’utilizzo di gas nervini contro le truppe indigene, gli stupri delle donne, indicate come posta in palio della conquista, ne sono il segno distintivo. Le nuove terre da coltivare erano rappresentate con corpi di donne discinte, la colonna sonora era “Faccetta nera”, le icone erano le cartoline di donne nude scattate a beneficio delle truppe.
Dopo la conquista la propaganda muta di segno: il mito della venere nera, selvaggia, animalesca ma desiderabile, cede il passo ad un’immagine disgustosa, ripugnante, quasi deforme, veicolata dalla rivista “La difesa della razza”.
In questa ambivalenza è la radice del razzismo verso gli africani e le africane, che riemerge potente nell’invettiva di Dolly Valandro. Una donna può augurare ad un’altra donna lo stupro solo se quell’altra donna viene esclusa dall’umanità, inscritta in un immaginario feroce di esclusione. Bestia, prostituta, ripugnante.
Anarres ne ha discusso con un compagno di Pisa Roberto.
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