Torino. Il CIE nella movida

DSCN0034 cSabato 20 aprile. Pioggia e temporali concedono una breve tregua. Ci ritroviamo sotto la tettoia di piazza Madama, perché fuori ancora goccia e non è il caso di rischiare largo Saluzzo.
Un po’ di cose buone da mangiare e poi parte l’assemblea. Ci sono Gilberto e Caterina, un medico e un infermiera della microclinica Fatih, l’ambulatorio di via Revello dove non chiedono i documenti a chi sta male. C’è Stefania Gatti, una procuratrice legale che ci racconta il CIE di corso Brunelleschi, la gente che si taglia, non mangia, fa lo sciopero della fame. Poi ci sono alcuni degli antirazzisti che sono sotto processo per essersi messi di mezzo, per aver cercato di contrastare la militarizzazione delle strade, lo sgombero degli abusivi di Porta Palazzo, per aver solidarizzato con le famiglie rom che si erano prese una casa vuota, lasciandosi alle spalle le baracche nel fango del lungo Stura. Si discute, si confrontano le esperienze, si costruiscono relazioni.
Poi si va.
In giro per le strade della movida di San Salvario, tra la gente che affolla i tanti locali della zona.
In testa la samba, poi la gabbia CIE, e noi tutti. In tutto un centinaio di persone.
Siamo qui per portare il CIE in mezzo alla città, per raccontare la storia di Fatih, morto nel CIE di Torino, tra le grida disperate dei suoi compagni che chiesero inutilmente aiuto.
Dall’altra parte delle gabbie c’erano allora – e oggi ancora sono lì – quelli della Croce Rossa.
Aguzzini ben pagati.
Il colonnello e medico Antonio Baldacci, responsabile del CIE, di fronte ad un uomo lasciato agonizzare nella sua cella accusa i prigionieri di mentire.
Dopo cinque anni Baldacci è ancora al suo posto, gli antirazzisti che lo contestarono sono sotto processo. Un processo che non permetteremo resti chiuso tra le mura di un tribunale, perché nei CIE la violenza, le umiliazioni, i pestaggi, la lotta e la rivolta segnano, oggi come in quel maggio del 2008, la vita dei senza carte che vi sono reclusi.
Da uno dei tanti locali esce un uomo che inveisce: teme di perdere clienti, parla di quattro figli da mantenere. Peccato che ben tre di quei posti siano suoi.
La gente se ne infischia, ascolta, legge i volantini.
Mentre torniamo riprende a piovere. La tregua è finita.

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CIE: laboratorio disciplinare

La situazione nel CIE ‬sta‭ ‬mutando.‭
‬Dopo la lunga stagione di lotte culminata con la distruzione pressoché totale del CIE di Gradisca nel dicembre del‭ ‬2011,‭ ‬le politiche verso i CIE sono lentamente cambiate.‭ ‬I Centri sono ancora la punta dell’iceberg legislativo costruito per mantenere sotto costante ricatto gli immigrati nel nostro paese,‭ ‬tuttavia rappresentano sempre di più un problema sia economico che di immagine per i governi di turno.
Chi lotta viene duramente represso:‭ ‬i prigionieri che protestano possono essere arrestati,‭ ‬rinchiusi in isolamento,‭ ‬espulsi immediatamente o semplicemente obbligati a dormire in terra.‭
In questi stessi anni è cambiato,‭ ‬complice l’obbligatorio recepimento della direttiva europea sui rimpatri,‭ ‬entrata in vigore il‭ ‬24‭ ‬dicembre‭ ‬2011,‭ ‬ma recepita in modo parziale e restrittivo dall’allora ministro dell’Interno Roberto Maroni,‭ ‬anche il quadro legislativo.‭ ‬La reclusione massima dentro ai centri è passata da sei mesi ad un anno e mezzo,‭ ‬nel contempo avrebbero dovuto applicare la prigionia come estrema ratio,‭ ‬ma di fatto le norme che tutelano chi ha parenti o problemi di salute sono rimaste in buona parte inapplicate.‭
‬In questo contesto sono mutate le forme di resistenza‭ ‬dei reclusi:‭ ‬le lotte‭ ‬hanno perso il carattere rivendicativo rispetto alle condizioni di vita nei Centri,‭ ‬per trasformarsi in rivolte miranti alla fuga collettiva.‭
Il governo sta puntando a colpire i prigionieri più attivi, isolandoli dagli altri in celle di punizione.
Le lotte nei CIE non sono mai venute meno, ma la vita della gran parte degli immigrati è altrove: il lavoro, il pezzo di carta, la casa. Su questi terreni lotte anche molto radicali si sono moltiplicate, segnando un’inversione di tendenza rispetto al recente passato.
Nei legami di solidarietà che si creano nelle lotte cominciano ad aprirsi delle possibilità di creare un terreno di conflitto comune tra sfruttati, che pareva impossibile sino a pochi anni fa.
Il CIE resta sullo sfondo: è un rischio che ogni immigrato senza carte corre ma è meno assillante dei mille inghippi della vita quotidiana.
Le lotte degli antirazzisti non hanno saputo essere abbastanza incisive da bucare il silenzio che circonda questi luoghi.‭ L’indignazione che attraversa settori della società civile non sa farsi azione: l’azione è ancora patrimonio di pochi attivisti.
‬La scommessa è quella di allargare il fronte,‭ ‬portando la realtà del CIE per le strade e per le piazze delle nostre città.‭ ‬
Oggi più che mai la lotta contro i Centri investe direttamente soprattutto gli italiani. E’ un’urgenza morale non chiudere gli occhi di fronte a uomini e donne rinchiusi solo perché privi di un documento.
Ma non solo.
I CIE sono sempre più una sorta di laboratorio dove si sperimentano forme di reclusione diverse dal carcere e molto più simile al manicomio criminale. Luoghi dove si entra per un arbitrio che può essere prolungato con la semplice firma di uno psichiatra o di un giudice di pace.
Nei CIE si sperimentano forme di controllo sociale che presto potrebbero essere applicate anche ad altri, sul modello dei vecchi ospizi per i poveri. Luoghi dove rinchiudere chi ha perso nella routette russa della vita sotto il capitalismo.

Anarres ne ha parlato con Federico, un compagno di Trieste molto attivo nella lotta contro il CIE di Gradisca.
Ascolta il suo intervento

Ascolta anche la chiacchierata fatta con Simone sulla rivolta e le fughe dal CIE di Modena

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I carabinieri, i profughi e la democrazia

10042013540-1024x768“In Libia non c’era la libertà ma avevamo un lavoro, qui c’è la libertà ma niente lavoro”. Queste le parole di un giovane profugo, durante il corteo di ieri dei profughi dell’ex villaggio olimpico. Di lì ad un paio d’ore avrebbe appreso quanto agre fosse il sapore della libertà nel nostro paese.
Quel ragazzo è uno dei tanti rimasti in strada dopo la fine dell’emergenza nord africa, sancita con decreto ministeriale lo scorso 28 febbraio.

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Fughe e rivolte al CIE di Modena

La scintilla della rivolta è scattata domenica 7 aprile. Un ragazzo diabetico è stato preso, identificato come clandestino e internato nel CIE.
Un sopruso intollerabile al quele molti prigionieri hanno reagito con forza.
Le prime proteste sono scoppiate nel cortile. Poi molti immigrati a sono saliti sui tetti continuando a gran voce a chiedere la liberazione del ragazzo malato. Le prime cariche non sono bastate a reprimere la rivolta, tanto che le guardie hanno chiesto l’intervento di rinforzi dall’esterno.
Sono entrati in azione di militari dell’esercito, della finanza e i carabinieri in assetto antisommossa: molti detenuti sono stati feriti.
All’esterno un gruppo di solidali hanno sparato fuochi d’artificio a sostegno della rivolta, mentre la voce di quel che accadeva che si diffondeva rapidamente.
Il lunedì successivo due parlamentari sono entrati al CIE per un controllo della situazione.
Lo stesso giorno due detenuti, dopo aver ingurgitato lamette da barba, venivano portati in ospedale per accertamenti. Entrambi sono riusciti a fuggire: il primo lunedì, il secondo martedì.
La situazione al CIE di Modena è sempre più tesa: i 45 detenuti attuali – la capienza massima è di 60 – sanno che con ogni probabilità verranno rimpatriati.
Il CIE di Modena è quello dal quale vengono fatte più deportazioni.
Il 70% degli immigrati espulsi coattivamente lo scorso anno erano rinchiusi nel Centro modenese.
La detenzione media a Modena non supera i due mesi, perché in questo CIE, che nasce come una sorta di struttura punitiva, le condizioni di vita sono tali che molti optano per il rimpatrio volontario.
Chi fa questa scelta viene “premiato” perché riduce da cinque a due anni il periodo in cui gli è vietato tornare in Italia.

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Trieste: performance contro i CIE

living CIE 7A Trieste si ricomincia a parlare di CIE e l’occasione è stata una performance del Living Theatre svoltasi ieri in piazza della Borsa a conclusione di un laboratorio durato vari giorni. I teatranti hanno svolto una coinvolgente rappresentazione davanti a numerosi sostenitori e curiosi. La performance era volta a denunciare l’esistenza di questi non-luoghi di tortura anche attraverso spezzoni audio presi dai media locali sul CIE di Gradisca. La gravità della situazione nel lager continua a venire fuori, l’ultima denuncia è del garante dei detenuti. Durante l’iniziativa è stato diffuso ai passanti un volantino informativo sui CIE del Gruppo Anarchico Germinal. Qui trovi foto e il volantino diffuso.

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Torino. Ridi in faccia al controllore

bigliettoVenerdì 5 aprile. Un megafonino made in China da quattro euro, un mucchio di volantini, la samba armata di tamburi, un pink controllore che distribuisce biglietti, una piccola pattuglia di compagni in black and rose gli ingredienti di un pomeriggio di informazione e lotta lungo i binari della linea 4. Lì da oltre un anno la GTT ha messo i controllori per impedire a chi non ha soldi di viaggiare gratis.
“Signori e signore, buon giorno! Oggi paga Fassino! Con i soldi delle Olimpiadi, con quelli regalati alle banche e alle imprese. Qualche mese fa hanno ridotto le corse e aumentato il biglietto, in questi giorni hanno deciso di diminuire ancora le corse e aumentare il biglietto! Tra trent’anni i vostri nipoti potranno andare da Torino a Lione in sole tre ore! Che importa se oggi noi andiamo a piedi!”.
Dopo quet’indroduzione tra tamburi e slogan si va per il 4, mentre il controllore comincia ad agitarsi. I più timidi si limitano a afferrare il telefonino, altri gridano a gran voce e minacciano, prima o poi tutti decidono di bloccare il tram. Chiaro lo scopo di dissipare i sorrisi della gente che per lo più plaude e fa cenni di approvazione. Qualcuno persino si unisce al coro di “io il biglietto non lo pago!” “ridi in faccia al controllore!”.

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CIE di Torino: sciopero della fame e piccioni morti

120210_2150Martedì 2 aprile, CIE di corso Brunelleschi a Torino. Nella notte un recluso ha appiccato il fuoco nell’area gialla, già più volte danneggiata. Tutte le aree, tranne quella femminile, sono state quasi completamente distrutte dagli immigrati in lotta. L’area bianca appena ristrutturata con materassi ignifughi e tavoli di cemento fissati al suolo è ancora vuota ed inutilizzata.
Oggi i detenuti sono solo 47. Da due giorni sono in sciopero della fame per ottenere la libertà, uno sciopero cui partecipano tutti, comprese le donne.
In mattinata un prigioniero tunisino è salito sul tetto per evitare l’espulsione.
In questi giorni sono stati ridotti i turni del personale interno al CIE: assistenti sociali, medici e infermieri e psicologi.
Gli addetti alle pulizie sono in fibrillazione: da diversi giorni trovano ovunque piccioni morti, hanno paura delle infezioni ed hanno protestato. Pare che stiano facendo analizzare uno degli animali morti. Tra la gente che gravita nel CIE c’è chi pensa che ad ammazzare i piccioni siano i resti del cibo che mangiano i prigionieri.
Un motivo in più per continuare lo sciopero della fame.

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200 profughi occupano all’ex villaggio olimpico

rifugiati00Torino, 30 marzo 2013. Questa mattina 200 profughi rimasti in strada dopo la fine “dell’emergenza nordafrica“, hanno occupato una casa del villaggio olimpico, la “ex Moi” in via Giordano Bruno 201.
La palazzina blu, rimasta vuota per 7 anni, da oggi sarà la nuova casa per uomini e donne, che il governo italiano ha buttato in strada dal 28 febbraio, quando per decreto è stata fissata la fine della protezione. Chiuse le strutture di accoglienza, ai profughi sono stati dati 500 euro in cambio di una firma su documento che liberava lo Stato italiano di ogni responsabilità nei loro confronti.
Nonostante la spesa esorbitante di un miliardo e 300 milioni di euro, ai profughi della guerra in Libia non è stato garantito alcun percorso di inserimento nella nostra società. Ancora una volta “l’emergenza umanitaria” è stata una buona occasione di lucro per le tante organizzazioni del terzo settore che l’hanno gestita.
Occupare una casa vuota è stata la scelta di lotta e di autonomia di gente che lo Stato italiano voleva invisibile, dispersa tra le vie di una nuova cavalcata per l’Europa delle frontiere, nascosta in qualche buco per clandestini, accampata nelle campagne della raccolta e delle schiavitù.

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Laura Boldrini e la Cap Anamur

capanamur1Era il 20 giugno del 2004. Al largo di Lampedusa la nave tedesca gestita dall’organizzazione umanitaria Cap Anamur raccoglie 37 profughi sudanesi da una carretta che stava affondando. Qualche giorno più tardi pescherà una ventina di profughi somali al largo di Malta.
Era l’epoca dei pescatori perseguiti per immigrazione clandestina se portavano a riva qualche naufrago.
Alla Cap Anamur viene impedito di sbarcare e viene lasciata in rada per settimane.
Il movimento antirazzista siciliano apre un fronte di lotta per sostenere i profughi.
Dopo tre settimane viene raggiunto un accordo giudicato soddisfacente dall’allora rappresentate dell’Alto Commissariato per rifugiati Laura Boldrini.
Ai profughi non verrà permesso di fare richiesta di asilo: verranno condotti nei CPT (oggi CIE) dell’isola e deportati. Il comandante della Cap Anamur, Elias Biedel e altri due membri dell’equipaggio verranno arrestati e processati per “favoreggiamento dell’immigrazione clandestina”.
Quest’episodio ormai quasi dimenticato ci consente di dare il giusto profilo alla neopresidente della camera dei deputati.

Ascolta l’intervista realizzata dall’info di radio Blackout con Alberto, un compagno della oggi disciolta Rete antirazzista siciliana. Ne è scaturita una discussione a tutto campo, che ha investito il ruolo delle organizzazioni “umanitarie” dell’ONU, l’organizzazione fatta dagli stessi Stati che promuovono le guerre e promulgano leggi contro la libera circolazione degli individui.

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Pisa. I profughi resistono ed occupano

Taranto, arrivo dei profughi libici da LampedusaLa fine dell'”Emergenza nordafrica” è stata stabilita per decreto governativo il 28 febbraio.
Alla gran parte dei ventimila uomini e donne arrivati in Italia due anni fa è stato negato il diritto d’asilo, perché nonostante fuggissero una guerra, erano nati in uno dei tanti paesi dell’Africa subsahariana.
In questi giorni si sono moltiplicate le proteste di chi si è ritrovato in strada con cinquecento euro e un permesso umanitario di un anno.
I profughi di guerra accolti in una struttura della Croce Rossa a Pisa hanno deciso di resistere, occupando i prefabbricati, per ottenere il completamento di un percorso di inserimento mai intrapreso davvero dagli enti che hanno lucrato sui grandi fondi messi a disposizione dei profughi di guerra provenienti dalla Libia.
La risposta del comune è stata l’immediato taglio del gas. Nelle prossime ore probabilmente taglieranno anche acqua e luce.
I profughi sono decisi a non mollare.
Radio Blackout ha intervistato Luca, un compagno del gruppo anarchico Kronstadt di Pisa, che con tanti altri, specie studenti, sta dando una mano nell’occupazione.
Ascolta la diretta realizzata dall’informazione di radio Blackout

10 marzo. Aggiornamento
L’8 marzo le istituzioni locali e il presidente della Croce Rossa Cerrai, durante un incontro con i migranti che non avevano abbandonato il campo di Via Pietrasantina – gestito dalla Cri locale fino al 28 febbraio – hanno ceduto ad alcune richieste dei ragazzi.
All’incontro c’erano anche alcuni attivisti di associazioni e collettivi pisani che hanno lottato fino ad oggi al fianco e con i ragazzi.
La Provincia e il Comune di Pisa hanno individuato ulteriori tirocini di inserimento lavorativo con le caratteristiche definite dal programma toscano “Giovani Sì” che prevede sei mesi con una borsa mensile di 500 euro.
Sul fronte della casa non sono state fatte proposte ma, alla fine dell’incontro, la CRI ha concesso ai profughi di restare nei propri container finché non fosse stata trovata una sistemazione migliore.
Ovviamente hanno però intimato agli italiani di lasciare il campo…
Sembra inoltre che la denuncia contro ignoti fatta dalla CRI verrà ritirata e non saranno staccate le utenze di luce e acqua come avevano annunciato il 7 marzo gli stessi funzionari dell’ente.
La lotta senza deleghe paga, non solo perché riesce a piegare le istituzioni, ma perché crea percorsi di autogestione per rispondere alle esigenze dei migranti e per innescare virtuose relazioni umane basate sull’appoggio mutuo e la solidarietà.

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Torino. Ti ricordi di Fatih?

Sabato 2 marzo, piazza Castello a Torino. Davanti alla prefettura ci sono due blindati, altri quattro sono piazzati davanti al Palazzo della Regione. Carabinieri in assetto antisommossa sono messi a guardia di quello spicchio di piazza. La digos occhieggia ma si tiene alla larga.dscn0090Gli antirazzisti piazzano una gabbia, un tavolino, due sedie, qualche cartello e un mazzo di carte.
La storia di Fatih, l’immigrato tunisino morto nel CIE – allora CPT – di corso Brunelleschi nella notte del 23 maggio 2008, non la ricorda più nessuno. Ne resta traccia solo nelle carte del tribunale che ha deciso di processare 67 antirazzisti, che non vollero che su quella morte senza senso calasse il silenzio.

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Profughi in strada. Finita la festa per il terzo settore

pesci pIl prossimo 28 febbraio è prevista la fine della cosiddetta “Emergenza Nordafrica”: migliaia di rifugiati in tutta Italia rischiano di finire in strada.
Nell’anno e mezzo trascorso dall’inizio del Piano di Accoglienza sono stati parcheggiati senza prospettive, tra incuria, assistenzialismo e mera carità.
Strutture in condizioni indegne, senza acqua calda e riscaldamento, persone stipate in posti sovraffollati, disservizi e malaffare sono il risultato della gestione emergenziale imposta da un governo che ha deciso di elargire un miliardo e 300 milioni di euro ad una miriade di associazioni del terzo settore, che hanno ampiamente lucrato sulle vite dei rifugiati non garantendo nulla di quanto previsto per loro sulla carta.
Ai rifugiati provenienti dalla Libia non è stata data alcuna opportunità di rendersi autonomi, indipendenti ed inserirsi nei nostri territori. Niente corsi di formazione, nessuna traccia dell’inserimento lavorativo, zero inserimento abitativo.
Dulcis in fundo, il ritardo con cui il Governo ha disposto il rilascio dei permessi di soggiorno ha letteralmente ingabbiato i rifugiati: senza permesso, senza carta d’identità, senza titolo di viaggio, senza quindi poter scegliere di restare, di lavorare, oppure di ripartire verso altre mete.

Ne abbiamo parlato con Gianluca Vitale, avvocato da sempre in prima fila sul fronte dell’immigrazione.

Un ulteriore approfondimento con Federico un compagno di Trieste che lavora in una onlus, una delle poche che non hanno partecipato alla grande abbuffata, i cui “ospiti” hanno tutti trovato una sistemazione in Italia o sono stati da tempo aiutati a raggiungere i paesi dove avevano scelto di vivere.

Fonte: radio blackout

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Migranti. Il buio oltre il filo spinato dei CIE

13-corteo-in-via-Po pPer lunghi anni i governi di centro destra hanno giocato le proprie fortune sul tema del contenimento dei flussi migratori.
Entrare legalmente nel nostro paese è quasi impossibile: il meccanismo che rende clandestini è stato oliato con cura, messo al centro di una macchina tanto crudele quanto inutile.
Inutile perché il calo attuale dell’immigrazione è frutto della crisi e non della repressione.
Nell’ultima campagna elettorale il tema dell’immigrazione è pressoché scomparso, dimenticato, relegato nel limbo delle questioni che è meglio tacere.
Non conveniva parlarne al PDL e alla Lega che in tanti anni di governo hanno fallito tutti gli obiettivi dichiarati nella repressione della libertà di circolazione, non conveniva neppure al PD, la cui complicità attiva nella costruzione dell’apparato legislativo che ha imbrigliato le vite di migliaia di uomini, donne, bambini, non consentiva alcuna possibilità di smarcamento retorico, peraltro rischioso nella raccolta dei consensi. Non interessava neppure al M5S, il cui guru si è sin troppo spesso lasciato andare a dichiarazioni scopertamente razziste.
Oggi le condizioni di lavoro dei cittadini italiani, in regola con le carte, la cittadinanza, le residenza sono molto più vicine di un tempo a quelle degli immigrati, ricattati dalle leggi classiste che regolano l’ingresso nel nostro paese.
La condizione del lavoratore immigrato è stata modello per ridefinire le relazioni tra chi lavora e chi sfrutta il lavoro altrui. Oggi l’immigrato non è più un fantasma di cui avere paura, ma un poveraccio la cui condizione non è più tanto diversa dalla nostra.
La stessa macchina delle espulsioni si rivela sempre più inefficace. I CIE sono sempre meno luoghi di transito e sempre più luoghi in cui si sconta una pena che nessun tribunale ha sancito. Discariche sociali, nelle quali il fuoco della rivolta non sopisce mai del tutto.
D’altra parte dalla distruzione di Gradisca nel 2011 i governi hanno scelto la linea dura. Non ci sono più le camerate? Dormi in mensa! Non ci sono più materassi e coperte? Dormi per terra! Non ci sono più tavoli e sedie? Bivacchi sul pavimento!
Da allora le rivolte rivendicative hanno sempre più ceduto il passo alle sommosse per tentare la fuga. A Gradisca, l’ultima fuga è del 19 febbraio, quando in cinque si sono guadagnati la libertà, a Roma la resistenza alla deportazione di un giovane nigeriano ha fatto scattare una piccola sommossa. A Torino ci hanno provato senza riuscirsi il 23 febbraio.
Ormai, come raccontava qualche settimana fa una giovane avvocata, nel CIE di Torino “i materassi bruciano ogni notte”.
A Trapani come a Gradisca le fughe si susseguono alle fughe.

Anarres ne ha parlato con Marco Rovelli, autore di due libri sul lavoro migrante e i CIE, e con un attivista antirazzista triestino, Federico. Ascolta la diretta con Marco e quella con Federico

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Fiamme al CIE di Torino

copcity colorSabato 22 febbraio. In prima serata alcuni reclusi tentano di scappare scavalcando le grate, ma vengono ripresi dalla polizia. La reazione degli altri prigionieri non si fa attendere: alcuni salgono sui tetti, altri incendiano le camerate di alcune sezioni. La polizia spara tanti gas lacrimogeni da rendere l’aria irrespirabile anche nelle zone vicine al CIE.
Un gruppetto di solidali si raduna sotto il CIE ma viene caricato da una squadra dell’antisommossa aizzata da una delle vicine di casa del CIE, indignata per la rumorosa solidarietà degli antirazzisti. Nessun turbamento per le urla, il gas e la violenza della polizia oltre il muro.
Il giorno dopo quattro rivoltosi saranno arrestati e condotti in carcere.
Domenica 24 va a fuoco l’area gialla. 20 dei 35 reclusi sono obbligati a dormire nei locali della mensa.

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Parma, controlli anti-immigrati: questa volta gli è andata male

Il copione non era per niente originale, uno di quelli che si presumono già scritti, eppure, questa volta gli è andata male. Quando la pattuglia mista, due soldati e un carabiniere, ha visto il ragazzo nero rimasto chiuso, sotto i fumi dell’alcool, nel parco ducale dopo la mezzanotte, i repressori devono aver pensato di avere a che fare con uno dei tanti invisibili con cui chiunque indossi una divisa può fare quel che meglio crede per movimentare un turno troppo noioso.

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Ponte Galeria in Fiamme, Gradisca in rivolta

Continuano senza sosta le rivolte nei CIE. In questi giorni è la volta dei lager di Roma e Gradisca.  Minimo comune denominatore la voglia di uscire dalle gabbie in cui sono costretti i detenuti ed opporsi al meccanismo razzista delle deportazioni forzate. Il 18 febbraio un migrante nigeriano si è opposto alla sua espulsione dal Cie di Ponte Galeria a Roma. Victor, un ragazzo di 29 anni, non vuole tornare in Nigeria e così decide di resistere. A suo supporto altri reclusi rivolta-cie-romacominciano e protestare e la polizia interviene duramente: al fuoco materassi e tavolini. Una nube di fumo si è alzata dal centro, alcuni migranti sono saliti sui tetti. Poco dopo la vendetta: manette ai polsi per 8 nigeriani. I danni sono stati ingenti. La rivolta a Ponte Galeria è avvenuta proprio nel giorno in cui era stata programmata la visita di alcuni giornalisti di testate nazionali che avrebbero docuto mostrare le condizioni di vita all’interno del Centro.
A Gradisca invece in cinque riescono a fuggire e a darsi alla macchia dopo uno scontro a suon di sprangate con la polizia che ha coinvolto decine di reclusi. Più tardi altri immigrati danno fuoco ai materassi. Leggi qui la rassegna stampa completa.

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Orrori quotidiani al CIE di Torino

Shadow-behind-glass436-424x250Stefania Gatti è un giovane avvocato, al CIE di Torino, per visitare un suo assistito.
Mentre aspetta assiste ad una deportazione. Uno uomo viene condotto nell’atrio: ha con se tutte le sue cose e sa cosa lo aspetta. E’ tranquillo, sin troppo tranquillo. Poco dopo si sentono le urla dalla stanzetta in cui è rinchiuso. Quando si apre la porta Stefania vede l’uomo coperto di sangue: si è tagliato per cercare di evitare di essere imbarcato a forza su un aereo diretto a Tunisi. La sua vita è qui, non là. Dopo la medicazione viene comunque portato via.
I poliziotti si scusano con l’avvocato per il ritardo. “Sa, queste cose qui succedono tutti i giorni”.

Orrori quotidiani. La banalità del male di fronte alla quale l’indifferenza è complicità.

 Ascolta la testimonianza di Stefania Gatti nell’informazione di Radio Blackout

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L’Italia respinge in Grecia i profughi bambini

pattugliatoriDopo aver intervistato 29 bimbi e adulti respinti dai porti nostrani, Human rights watch ha stilato un rapporto in cui denuncia il comportamento delle autorità italiane che imbarcano in massa verso la Grecia profughi provenienti da paesi in guerra. Agli adulti non viene data la possibilità di fare domanda d’asilo, ai bambini non viene concessa l’ospitalità prevista dalle stesse leggi italiane.
In Grecia, i profughi, spesso provenienti dall’Afganistan, sono sottoposti ad abusi delle forze dell’ordine, condizioni detentive inumane e degradanti in un ambiente ostile, segnato da violenze xenofobe.
Nell’ultimo anno si sono moltiplicate le aggressioni contro gli stranieri dei neonazisti di “Xrisi Argi”, coperti e appoggiati dalla polizia. Solo le ronde antifasciste nei quartieri pongono un argine alle violenze naziste.
La maggior parte dei profughi considera la Grecia e l’Italia tappe di un viaggio con destinazione Gran Bretagna, Svezia, Norvegia, ma la legislazione europea, che impone di fare richiesta di asilo nel primo paese dell’Unione in cui si arriva, rende questo percorso molto difficile e rischioso.
Non è la prima volta che l’Italia entra nel mirino delle istituzioni umanitarie o transnazionali per il trattamento inflitto ad immigrati e richiedenti asilo.
Basti pensare alla condanna della corte di Strasburgo per tortura e trattamenti inumani per i respingimenti verso la Libia.

Ascolta l’intervista a Gabriele Del Grande, blogger di Fortresse Europe, realizzata da radio Blackout

Fonte: radio blackout

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Mineo. Una discarica per richiedenti asilo

mineo pEra la primavera del 2011. Migliaia di tunisini presero la via del mare per cercarsi un’altra vita in Europa. La rivolta che aveva scosso il paese, contagiando quelli vicini, aveva reso meno chiuse le frontiere. Il ministro dell’Interno, il leghista Maroni, affrontò l’ondata di sbarchi da par suo, trasformando Lampedusa in un gigantesco carcere a cielo aperto, nella vana speranza di scaricare la patata bollente agli altri Stati Europei. Quando la situazione divenne incandescente decise di aprire campi-tenda e vecchie caserme per rinchiudere gente che voleva solo proseguire il proprio viaggio.
Finì all’italiana. Quelli arrivati entro il 5 aprile ottennero un permesso di sei mesi, quelli sbarcati dopo erano clandestini.
In questo caos in cui la criminalità del governo era pari solo alla sua cialtroneria i CIE si riempirono all’inverosimile di gente più che disponibile ad animare rivolte su rivolte. L’intero sistema concentrazionario italiano andò in crisi. In questo clima maturò l’affare Mineo.
A Mineo, 35 chilometri dalla base militare di Sigonella, la ditta della famiglia Pizzarotti aveva costruito un residence per le famiglie dei militari statunitensi. Nella primavera del 2011 il residence è vuoto, perché gli americani hanno optato per soluzioni più comode ed economiche.
Pizzarotti si ritrova una patata bollente che non riesce a piazzare in nessun modo, finché un governo amico non decise di togliergli le castagne dal fuoco trasformando il residence in CARA, ossia un centro per richiedenti asilo. Lì vennero deportati richiedenti asilo da ogni angolo di’Italia, interrompendo le pratiche già in atto, spezzando le relazioni con la gente del luogo. In questo modo i CARA si potevano trasformare in CIE e la famiglia Pizzarotti non ci rimetteva un euro.
Due anni dopo il CARA di Mineo è strapieno, luogo di proteste e rivolte da parte di profughi e rifugiati, dimenticati in questa prigione nel deserto. Le pratiche, tutte concentrate a Catania, si sono allungate all’infinito, le risposte tardano, Mineo è diventata una polveriera.

Anarres ne ha parlato con Antonio Mazzeo. Ascolta l’intervista a radio blackout

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Quei materassi che bruciano ogni notte

fuoco2Stefania è quasi avvocato. Martedì scorso è entrata nel CIE di Torino per incontrare un cliente, un ragazzo pestato a sangue durante l’ultima rivolta dei reclusi di corso Brunelleschi.
La protesta si è fatta incandescente nella notte del 13 gennaio, un freddo cane e niente riscaldamento. Alcuni prigionieri bruciano i materassi, altri salgono sui tetti, fuori la polizia intercetta qualche manciata di solidali, poi, dopo l’arrivo di altri, li rilascia.
Nella notte del 15 è ancora rivolta. La polizia spara lacrimogeni e pesta. Il giorno dopo parte una perquisizione punitiva con perquisizione delle celle in cerca di attrezzi usati per le rivolte.
Stefania ascolta il racconto del pestaggio subito dal ragazzo che l’ha chiamata. Poi resta lì, nella zona destinata ai colloqui, in attesa di un altro “cliente”. Aspetta e ascolta. Ascolta uno della Croce Rossa, l’organizzazione umanitaria che gestisce il CIE di Torino sin dalla sua apertura nel lontano 1999, quando l’Italia bombardava la ex Jugoslavia e il confine tra la guerra fatta fuori e quella in casa era sottile sottile.
Il tizio della Croce rossa ovviamente parla con la voce di chi si è fatto complice dei secondini, ma il suo racconto ci dice che, anche a Torino sta succedendo quello che capita un po’ dappertutto, da quando il governo – e l’Europa – hanno deciso che lì dentro ci puoi rimanere sino a un anno e mezzo. Una condanna senza crimine, senza giudice, senza avvocato.
Le rivolte, racconta l’uomo della Croce Rossa, sono le punte più aguzze di una realtà quotidiana di lotta e di tentativi di evasione. I materassi bruciano ogni notte, le coperte spariscono in fretta, perché servono per intrecciare le corde per saltare il muro.
Solo questo conta. Saltare il muro.
Anche i poliziotti che passano parlano, parlano dei telefoni portati via agli immigrati, che hanno osato fare foto della rivolta che potrebbero uscire fuori e mostrare a chi vuol vedere quello che succede.
Stefania racconta questa storia all’informazione di radio Blackout. Un racconto preciso, senza sbavature, intelligente, che si intreccia con la spiegazione dei meccanismi che stritolano le vite di chi finisce nei pollai per immigrati. La direttiva rimpatri stabilisce che nel CIE ci puoi stare sino a sei mesi, ma la prigione amministrativa dovrebbe essere l’estrema ratio. Prima si dovrebbero tentare altre strade, verificare se il senza carte ha parenti, affetti, legami. Lo dovrebbe fare il giudice di pace al momento della ratifica della detenzione. Ma, dice Stefania, per quello che ha visto lei, quelli convalidano sempre.
E, ogni notte, in ogni dove d’Italia, i materassi bruciano.

Ascoltate l’intervista a Stefania sul sito di radio Blackout.

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