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Reggio Emilia. Lavoratori della GFE in lotta

Duecento lavoratori immigrati della GFE sono in sciopero della fame e della sete. Ancora una lotta contro il nefasto sistema di appalti alle cooperative. Questa volta è toccato a quasi 500 lavoratori della cooperativa di facchinaggio GFE essere vittime di questi ingranaggi. Ecco un sunto della vicenda in un comunicato di solidarietà del Comitato Nopacchettosicurezza di Reggio Emilia:
“La questione ha preso forma nel luglio scorso quando, dopo la firma dell’accordo sindacale che prevedeva l’applicazione del contratto nazionale in GFE, l’impresa Snatt, presso cui lavoravano, aveva manifestato la volontà di rescindere il contratto di appalto con la cooperativa GFE in favore di altri subappaltatori, lamentando un aumento dei costi non sostenibile.
I lavoratori sono stati informati del licenziamento dalla cooperativa tramite un sms che comunicava: “Informiamo tutti i soci GFE che non siamo più fornitori di Snatt…”
Scoprendo poi che Snatt aveva riassegnato l’appalto ex GFE a due nuove cooperative nate in concomitanza con la chiusura di GFE stessa: Emilux e Locos Job, in cui infatti sono confluiti parte dei 500 soci lavoratori di GFE che hanno accettato minori tutele contrattuali. Circa 200 lavoratori si sono opposti a questo trasferimento rimanendo senza lavoro; da allora hanno lottato con manifestazioni e presidi, fino ad arrivare a questi giorni e alla proclamazione dello sciopero della fame e della sete.
Questa estrema forma di lotta è la conseguenza dell’ennesimo rinvio dal tribunale a cui si erano rivolti per riottenere il lavoro e i diritti che spettano loro, e della condizione economica che le loro famiglie stanno vivendo a causa dei licenziamenti e dal mantenimento del presidio permanente dal novembre 2010.”

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I confini dell’umanità

Mentre alcuni noti esponenti della Lega Nord invocavano la violenza e la lotta armata per sparare a vista sugli immigrati, due donne sono morte annegate proprio davanti gli scogli di Pantelleria. Forse, i morti sono anche di più. Adesso quei criminali in doppiopetto saranno contenti.
Dal 1988 sono almeno quattordicimila gli immigrati che hanno perso la vita a causa della feroce impenetrabilità dei confini europei. Donne e uomini morti in fondo al mare, o nel deserto dopo essere stati deportati con voli speciali (magari proprio dall’Italia), oppure asfissiati nei tir, per superare i confini orientali.
In questa Europa circondata dal filo spinato in cui gli immigrati servono solo come clandestini da sfruttare e terrorizzare, le leggi razziste continuano a produrre orrore su orrore rendendo impraticabile ogni opportunità di vita e di libertà. Non bastavano i Centri d’Identificazione ed Espulsione, i nuovi lager della democrazia: oggi in Italia ci sono anche le tendopoli, per creare l’emergenza che non c’è, per esasperare gli immigrati calpestandone ancora la dignità, per rendere normale e giustificabile ciò che è al di fuori di ogni umanità.
Eppure, l’umanità continua a vivere nelle fughe da Kinisia, nelle proteste di Birgi per impedire la deportazione, nella rivolta di Lampedusa per rivendicare la libertà.
L’umanità continua a vivere nelle lotte per l’uguaglianza, mentre c’è chi sparerebbe su
donne e bambini stipati in un barcone.
L’umanità vive in chi si batte per la solidarietà e l’internazionalismo, contro quelli che alimentano l’odio e il razzismo.
L’umanità vive nell’impegno per la libertà di tutti contro ogni frontiera, quando c’è chi pensa solo a erigere muri.
Tu da che parte stai?
Gruppo Anarchico “Andrea Salsedo” – Trapani
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Parma. I tunisini di Lampedusa? In periferia, o meglio, fuori città

15 aprile 2011. In arrivo anche a Parma alcuni dei migranti sbarcati a Lampedusa. Non si sa quante persone dovrebbero arrivare e, ovviamente, parliamo degli arrivi “ufficiali” ovvero dei vari trasferimenti forzati di uomini e donne spostati come pacchi, cui viene impedito di proseguire verso la meta che si erano prefissati. Non sappiamo neppure quale sarà il loro status e le condizioni di “soggiorno”: permesso temporaneo? Detenzione amministrativa nei CIE? Deportazione?).
Si ignora anche quali saranno le regole dell’accoglienza, se quelle del CARA., dove si dovrebbe essere liberi, ma non tanto liberi da poter decidere di andarsene o quelle del CIE.
Sappiamo però che due dei quattro dormitori cittadini chiusi, come ogni anno, per la fine dell’inverno verranno riaperti per “l’emergenza”: le due strutture contano, in tutto, circa cinquanta posti letto e sono attrezzate solo per la notte: in condizioni normali restano chiuse agli ospiti dalle 8 alle 20. Viene spontaneo chiedersi quali saranno le condizioni di vita, se verrà imposta la permanenza diurna.
Tutto ciò si somma alla mancanza di risposte del comune a quanti, in numero sempre crescente, chiedono un’alternativa alla strada – anche solo una sistemazione temporanea per chi è rimasto senza casa. L’unica certezza è la politica di “tolleranza zero” verso le occupazioni inaugurata dal questore entrato in carica il 7 febbraio.

Aggiornamento al 18 marzo. Sabato mattina ci sono stati i primi arrivi “ufficiali”: dieci migranti tunisini muniti di permesso temporaneo: oggi è toccato ad altre cinque persone, destinate ad un semisconosciuto centro d’accoglienza di una minuscola frazione, in ossequio alla forte richiesta dell’amministrazione comunale che i tunisini venissero ospitati in strutture sparse sul territorio e fuori della città. In continuità, inutile a dirlo, con la politica di riqualificazione/sicurezza/esclusione sociale sempre più forte negli ultimi anni.
Il dormitorio “Cornocchio”, inizialmente scelto per l’ospitalità, è stato messo da parte il giorno stesso dell’arrivo. Con ogni probabilità questa struttura, che è in periferia, ma pur sempre in città, non piaceva ad un’amministrazione che vorrebbe tenere lontani dalla vista gli immigrati.
Si sa invece ben poco della sistemazione offerta dalla cooperativa Parma Program, che ha in appalto la struttura di Martorano, dove sono stati portati i cinque minori arrivati la scorsa settimana.
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Il gioco delle tre carte di Maroni

Da settimane il governo italiano – in prima fila il ministro dell’Interno Roberto Maroni – sta ballando tra Tunisi, Parigi e Berlino.
Alti funzionari dell’ENI viaggiano per la Cirenaica scossa dalla guerra per convincere il Governo di transizione a mantenere i contratti firmati da Gheddafi. Nel frattempo dalla Libia partono barconi pieni di profughi dal corno d’Africa. I primi dopo lo stop imposto dal trattato di amicizia italo-libica. Chi non ce la fa chiude la sua vita nella grande bara azzurra del Mediterraneo.
Maroni, Berlusconi e Frattini hanno provato senza troppo successo a comprarsi il governo tunisino. Dopo aver annunciato in pompa magna che Tunisi si riprendeva in blocco i 22.000 ragazzi sbarcati negli ultimi mesi in cambio di soldi e armi, il governo italiano è stato smentito da Essebsi. Sono seguite trattative convulse. Tunisi, dopo aver incassato i permessi temporanei per chi era già in Italia, non sta mantenendo l’impegno di fermare nuove partenze.
Nel frattempo è arrivato il no dell’Unione Europea alla libera circolazione dei tunisini provenienti dall’Italia.
La premiata ditta gabbie, respingimenti e deportazioni sta facendo acqua da tutte le parti. Maroni prova a fare il gioco delle tra carte tra Roma, Tunisi e Parigi. E perde.

Vi proponiamo le principali tappe di questa vicenda nella ricostruzione di TAZ laboratorio di comunicazione libertaria
“Il mare ne ha inghiottiti duecentocinquanta. Quella che si è consumata il 6 aprile è stata una delle peggiori tragedie – se mai fosse possibile stilare una classifica dell’orrore – tra quelle conosciute nel Canale di Sicilia. Il mare era agitatissimo, la presenza del barcone viene segnalata in acque maltesi, ma le autorità della Valletta non intervengono perché «impossibilitate». I soccorsi partono dunque dall’Italia: tre motovedette, un aereo e un elicottero. C’è anche il peschereccio mazarese “Cartagine” che riesce a recuperare tre persone. Il mare forza 6 e una falla nel barcone rendono tutto complicatissimo. Gli immigrati cadono in acqua, donne e bambini compresi, proprio durante i tentativi di trasbordo. Se ne salveranno solo quarantotto, per la maggior parte eritrei e somali.
Nel frattempo, la politica ha messo in scena le sue miserie. È entrato in vigore lo speciale decreto del presidente del consiglio con il quale viene riconosciuto a tutti gli immigrati tunisini presenti in Italia da gennaio uno speciale permesso di soggiorno della durata di tre mesi, concepito per garantire la libera circolazione all’interno dell’area di Schengen. Il provvedimento è stato varato partendo dal presupposto che la stragrande maggioranza dei tunisini approdati nelle ultime settimane a Lampedusa ha manifestato apertamente la volontà di andare in Francia o in Germania considerando l’Italia una testa di ponte. E proprio da Francia e Germania è arrivata la doccia fredda. Parigi ha dapprima contestato la legittimità dei permessi di soggiorno concessi dall’Italia, e poi è stata diramata una direttiva a tutte le prefetture d’Oltralpe che stabilisce requisiti molto rigidi per consentire l’apertura delle proprie frontiere ai tunisini. Stessa indisponibilità da parte della Germania, mentre la stessa Unione Europea – per mezzo di Cecilia Malmstrom, titolare del portafoglio interni della Commissione europea – ha chiarito che i permessi temporanei italiani non possono garantire la libertà di circolazione nell’area Schengen perché i tunisini sono migranti economici, e quindi sempre passibili di espulsione.
Non si pensi che, in tutto questo, il governo italiano sia formato da uomini giusti ma incompresi. L’accordo italo-tunisino voluto da Maroni prevede, infatti, che gli immigrati che arrivano in Italia da questo momento in poi vengano rimpatriati subito con procedure semplificate. Ovvero, deportazioni sbrigative dall’aeroporto di Lampedusa. In cambio, l’Italia donerà alle forze dell’ordine di Tunisi sei motovedette, quattro pattugliatori e un centinaio di fuoristrada per controllare meglio le coste e impedire nuove partenze. Un meccanismo che Maroni ha cinicamente descritto come una “chiusura del rubinetto”. Intanto, Lampedusa è stata evacuata dagli immigrati deportati nelle tendopoli allestite in Italia (specialmente al Sud), ma tutto è durato davvero poco perché gli sbarchi sono ripresi massicciamente.
Dalle tendopoli si riesce a scappare, specialmente a Manduria e Caltanissetta. Più blindata la tendopoli di Kinisia, nelle campagne fra Trapani e Marsala. Cinquecento immigrati vivono in un’area circondata da un doppio perimetro di rete metallica sorvegliato a vista da un agente in tenuta antisommossa ogni dieci metri, seduto su una sedia. Nonostante tutto, dieci immigrati sono riusciti a fuggire, ma solo in sei hanno effettivamente riconquistato la libertà.”
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Lager per immigrati: il modello toscano per “l’emergenza”

Nei primi giorni di questa settimana, con l’arrivo di due traghetti della Grimaldi Lines, sono giunti in toscana circa 500 profughi da Lampedusa. I migranti sono stati suddivisi in una decina di piccole strutture, in 7 diverse province. Inizialmente doveva … Continua a leggere

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Gradisca. Nuova gestione per CIE e CARA

Il Cie e il Cara di Gradisca cambieranno gestione per la terza volta. Dopo la cooperativa Minerva e il consorzio Connecting People il lucroso business passa alla transalpina Gepsa – sede a Parigi – in associazione con Cofely Italia e le coop italiane Acuarinto di Agrigento e Synergasia di Roma.
Gepsa e gli altri soci del “consorzio temporaneo d’impresa” messo su per l’occasione dovrebbero entrare in pista il primo maggio.
Le buste delle offerte erano state aperte il 1 febbraio in prefettura a Gorizia. C’era anche un gruppo di antirazzisti che disse la propria agli aspiranti aguzzini.
Le lotte antirazziste in questi lunghi mesi di resistenza migrante si sono intensificate culminando nella giornata di lotta del 12 marzo scorso – a cinque anni dall’apertura del lager – organizzata dai compagni del Coordinamento Libertario Regionale, mentre un nuovo presidio si è tenuto sabato 2 aprile.
Vedremo nei prossimi mesi come se la caveranno nuovi gestori di fronte alla voglia di libertà e rivolta che i reclusi hanno sempre espresso.
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Trieste, immigrati e antirazzisti ancora in piazza

Il Comitato Primo Marzo di Trieste, dopo il presidio del primo marzo e quello del 17, si è presentato ancora una volta in piazza, questa volta sui temi legati al lavoro – che dovunque si traduce in sfruttamento – alle … Continua a leggere

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Lampedusa. Sul confine della vergogna

Mercoledì 30 marzo. Oggi a Lampedusa è arrivato anche Berlusconi. Camicia nera, demagogia e promesse. Adesso che c’è lui tutto andrà a posto. Finora “non aveva le idee chiare” ma ora sa cosa si deve fare e lo sta facendo. Sgombero dell’isola, pulizia, rimpatri, agevolazioni fiscali e anche la candidatura al Nobel per la Pace. Su questo scoglio di frontiera la neolingua del premier chiama pace la guerra. Intanto la premiata ditta gabbie e polizia è all’opera. Tendopoli miserabili, e la minaccia dei rimpatri. Sempre che il governo di Tunisi sia in grado di mantenere gli impegni presi con Maroni e Frattini e di incassare il premio pattuito.

Vale la pena leggere la cronaca e l’analisi dalla Sicilia di Taz, laboratorio di comunicazione libertaria.

Alla fine ci sono riusciti. Con le rivolte del Nordafrica e con lo scoppio della guerra dichiarata dalle potenze occidentali alla Libia, l’aumento degli sbarchi di immigrati e profughi nell’isola siciliana di Lampedusa è servito al governo italiano per non gestire una situazione che si è trasformata, inesorabilmente, in una emergenza. Nel momento in cui scriviamo, le presenze di immigrati a Lampedusa hanno superato le 6.000 unità. Davvero una quantità considerevole se si pensa che i lampedusani residenti sono, abitualmente, cinquemila. In realtà, il vero problema è un altro, e cioè le condizioni inumane nelle quali il governo ha abbandonato al loro destino gli immigrati e, insieme a loro, la popolazione autoctona. Per giorni e giorni il governo ha indugiato nel predisporre un piano sostenibile per un’accoglienza decente e per la progressiva evacuazione dell’isola, e così – a fronte di una oggettiva intensificazione degli sbarchi – non si è provveduto a un contestuale decongestionamento di Lampedusa. Una volontà politica criminale che discende direttamente dalla generale impostazione repressiva delle leggi in materia di immigrazione in Italia. L’emergenza-Lampedusa rappresenta un quadro, grottesco e realistico nello stesso tempo, della pericolosità sociale di chi sta governando il paese. A Lampedusa gli immigrati sono stati dapprima stipati nel Centro di prima accoglienza, pieno fino all’inverosimile (1.500 persone), altri 450 nella ex base Loran, 420 nelle strutture ecclesiastiche, e ben 4.000 nella stazione marittima, nell’area del porto e sulla “collina della vergogna” dove essi stessi hanno improvvisato un accampamento. Si tenga presente, giusto per fare un esempio, che a Lampedusa per alcuni giorni 2.000 immigrati non hanno mangiato perché la cooperativa che gestisce il Centro è abilitata a fornire un massimo di 4.000 pasti. Inevitabili le proteste dei migranti, e altrettanto inevitabile la reazione rabbiosa dei lampedusani: dapprima i blocchi del porto con la volontà di non fare attraccare più alcun barcone, e poi l’occupazione dell’aula consiliare del Comune in segno di protesta. A fare da sfondo a tutto questo, il radicato sentimento di frustrazione della popolazione isolana, di fatto costretta a subire le scelte dissennate del governo centrale. Il conflitto si sta consumando, pur nella sua fisiologica ritualità, anche a livello istituzionale, con la Regione siciliana – presieduta dal governatore Lombardo – che ha denunciato le mancate promesse da parte del Ministro dell’Interno Maroni in direzione di una distribuzione degli immigrati su tutto il territorio nazionale. D’altra parte, quel galantuomo di Umberto Bossi ha sbrigativamente liquidato l’argomento auspicando che gli immigrati se ne vadano «fuori dalle palle» il prima possibile.
Infatti, dopo che l’emergenza è stata creata ad arte, il governo ha giocato un’altra, incredibile, carta: le tendopoli. Tredici siti di proprietà demaniale (per lo più di origine militare) sarebbero stati individuati in tutta Italia per allestire accampamenti destinati alla “sistemazione” dei migranti (il governo ci ha già abituati a questo genere di provvedimenti sull’onda delle “emergenze”). Ancora una volta però, sembra che siano solo la Sicilia e il Sud a dover sostenere il peso di questa strategia terroristica del governo. Le tendopoli in fase di allestimento potrebbero contenere 800 persone ciascuna, e si trovano a Manduria (in provincia di Taranto), a Caltanissetta (vicino al Centro di identificazione ed espulsione) e a Kinisia, vicino Trapani. In quest’ultimo caso, si tratta dell’area dell’ex aeroporto militare, a pochissima distanza dall’attuale base militare di Birgi (da dove partono i Tornado italiani che fanno la guerra in Libia). L’ex aeroporto di Kinisia si trova in aperta campagna, è un edificio diroccato e abbandonato, e la tendopoli sarà montata sulla pista e in tutta la vasta area circostante. Anche qui, la popolazione locale ha già dato segni di pericolosa insofferenza bloccando i mezzi dei vigili del fuoco per impedire la realizzazione dell’accampamento. I trapanesi che vivono nella tranquilla periferia rurale della città non vogliono gli immigrati “per non fare la fine di Lampedusa”, “perché abbiamo paura”, “perché temiamo per i nostri bambini”. Reazioni scomposte e irrazionali che si aggiungono alla rabbia per il danno economico derivato dalla forzata (prima totale poi parziale) chiusura dell’aeroporto civile a seguito dell’inizio delle operazioni di guerra. Al di là di questa brutta piega che stanno prendendo gli eventi, non si può ignorare come la Sicilia occidentale si confermi un terreno di inaudita sperimentazione repressiva sulla pelle degli immigrati. A Trapani ci sono già un Centro d’Identificazione ed espulsione (Cie) e un Centro richiedenti asilo, entrambi colmi. E poi c’è il nuovo Cie di contrada Milo, in fase di ultimazione.
Dall’altra parte dell’isola, c’è il “Villaggio della solidarietà” (ex residenza dei militari Usa di Sigonella) a Mineo, in provincia di Catania. Anche in questo caso, l’approssimazione si è accompagnata a un innalzamento ingiustificato della tensione e dell’ingestibilità. Adesso quello di Mineo è ufficialmente un Centro per richiedenti asilo (CARA), era stato concepito per trasferirvi i rifugiati già presenti in tutti i Centri italiani, ma poi – con l’emergenza – ha finito con l’ospitare anche alcuni immigrati subsahariani appena arrivati a Lampedusa.
Ed è qui che – mentre scriviamo – si aspetta l’arrivo di sei navi (una militare, la San Marco, e altri cinque traghetti) per l’immediata evacuazione dell’isola, dopo settimane di incuria e lassismo. Ma è davvero concreta la sensazione che, in tutta questa vicenda, gli immigrati siano trattati come pacchi postali da ri muovere, deportare e parcheggiare senza alcun criterio di umanità.
All’origine di questo scempio ci sono molti fattori. Le leggi razziste, innanzitutto, che rendono materialmente impossibile la vita degli immigrati marchiati come “irregolari”. Se ci si potesse spostare liberamente, la maggior parte di questi problemi non ci sarebbero. Le persone non sarebbero considerate “extracomunitarie”, né si creerebbero pretestuose distinzioni tra “clandestini”, “profughi” e “richiedenti asilo” con tutta la burocrazia assassina che ne deriva. E poi c’è la situazione internazionale. Non è possibile pretendere che le persone non cerchino di fuggire dalle situazioni di pericolo o di precarietà. Le rivolte nel Maghreb e l’instabilità sociale e politica in Tunisia ed Egitto sono tutti motivi più che comprensibili per emigrare. Infine, non bisogna dimenticare che siamo in guerra. I paesi occidentali hanno scatenato l’intervento militare in Libia, l’Italia si è accodata volentieri in questa impresa scellerata, e adesso si pretende di non avere a che fare con le sue conseguenze disastrose.
Agli anarchici spetta un compito epocale, quello di fare fronte a questa deriva infame. In questa fase la lotta antirazzista non può prescindere da un rilancio dell’attività antimilitarista. In entrambi i casi occorre lavorare nel corpo sociale per arginare gli effetti nefasti del terrorismo mediatico con cui il governo dipinge gli immigrati come pericolosi invasori, descrive l’intervento in Libia come un provvedimento umanitario, impaurisce e distrae l’opinione pubblica costruendo a tavolino le situazioni emergenziali per poi giustificare strette repressive e discriminatorie assolutamente devastanti.
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Il prezzo di Tunisi: 150 milioni di euro

Venerdì 25 marzo. Maroni e Frattini, in visita a Tunisi, hanno fatto un’offerta di quelle che non si possono rifiutare. Un credito sino a 150 milioni di euro più pattugliatori e uomini della Guardia di Finanza per l’addestramento. In cambio il governo tunisino ha promesso di fermare le partenze verso l’Italia. Nel pacchetto sottoscritto dal premier Essebsi anche un impegno per i rimpatri.
Vi ricorda niente? Il governo italiano fece con il governo libico un accordo del tutto simile.
I libici a dire il vero offrivano il servizio completo: respingimenti, galere, abbandono nel deserto.
Ne sanno qualcosa i profughi di guerra eritrei rinchiusi per anni nelle prigioni di Misurata e di Brak. Chi volesse rinfrescarsi la memoria sul quell’accordo se lo può rileggere sul sito della Camera dei deputati.
È significativo che sinora non siano approdati a Lampedusa i fantomatici profughi libici, mentre da ieri le agenzie battono la notizia di un barcone con trecento eritrei forse disperso in mare. Sarebbero i primi profughi di guerra ad arrivare in Italia dopo l’accordo italo-libico.
Chi sa? Forse la crisi libica ha riaperto la rotta del Mediterraneo.
Sarebbe interessante sapere se i pattugliatori donati dal governo italiano alla Libia siano ancora in azione sulle coste della Tripolitania. In settembre, quando uno di questi mezzi aprì il fuoco su un peschereccio di Mazara del Vallo, a bordo c’erano sei uomini della Guardia di Finanza. Saranno rientrati in Italia o sono ancora lì, fianco e fianco con le guardie del Colonnello?
Sapremo nelle prossime settimane se governo tunisino sarà in grado di mantenere gli impegni presi con Maroni e Frattini – incassando così il proprio compenso – o dovrà fare marcia indietro. Se il vento delle recenti rivolte soffia ancora potrebbe non essere facile.
Un fatto è certo: i conti non tornano. Se le cifre diffuse dal ministero dell’Interno sono vere, se negli ultimi due mesi e mezzo sono sbarcati 15.700 tunisini, ne mancano parecchi all’appello. Solo una minima parte è stata trasferita nei CIE o nei CARA o nel “residence degli aranci” di Mineo. Tre/quattromila li smisteranno nelle varie regioni nei prossimi giorni.
E gli altri? O le cifre degli sbarchi sono state volutamente gonfiate oppure i tunisini fantasma sono andati ad ingrossare – in Italia e in Francia – le file dei senza carte, che campano lavorando in nero.
Il contrasto dell’immigrazione illegale è il pedaggio da pagare ad un elettorato cresciuto nell’odio e nella paura dei “clandestini” e, allo stesso tempo, il mezzo per disciplinare i lavoratori stranieri. Con o senza carte.
Padroni e padroncini ringraziano per l’arrivo di carne fresca da mettere al lavoro. Senza tutele, senza orari, senza pretese.
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Torino. Braccio di ferro

Torino, 25 marzo. Dopo la distruzione dell’area verde del CIE gli immigrati hanno passato le ultime due notti nel cortile, senza possibilità di lavarsi. Nell’area blu dopo l’incendio di alcuni materassi, oggi due immigrati sono stati arrestati. La tensione resta alta. La questura pare decisa ad applicare la linea dura, obbligando chi brucia le stanze a restare nelle strutture ormai inagibili.
Una sorta di braccio di ferro per vedere chi molla prima.
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Mineo. Il governo fa marcia indietro

Mercoledì 23 marzo. Ieri vi abbiamo raccontato della deportazione a Mineo dei primi tre richiedenti asilo provenienti dal CARA di Gradisca. Gli altri, blanditi con promesse di casa e lavoro, si stavano abituando all’idea del prossimo trasferimento. Oggi, all’improvviso, è arrivato il contrordine “non partite più”.
I media stanno diffondendo la notizia che il governo avrebbe fatto marcia indietro, rinunciando a concentrare a Mineo tutti i residenti asilo ospitati nei CARA. Oggi hanno cominciato a trasferire i 600 tunisini, imbarcati ieri dalla S. Marco, al “Residence degli aranci”.
Sempre oggi sei voli speciali da cento persone l’uno sarebbero partiti da Lampedusa.
Per quale ragione il governo avrebbe attuato un così rapido cambiamento di rotta?
È possibile che sia stata una questione di tempo.
Le operazioni di trasferimento dai CARA a Mineo stavano andando a rilento: in alcune località, come Roma, la resistenza dei richiedenti asilo e delle associazioni antirazziste stava mettendo i bastoni tra le ruote al ministero dell’Interno. Sul piano istituzionale il presidente della Regione Puglia, Vendola, ha scritto a Maroni denunciando le condizioni disumane in cui avvenivano i trasferimenti dal CARA di Bari a Mineo.
Nel frattempo la situazione a Lampedusa, già grave, stava diventando esplosiva, rendendo difficile tergiversare ancora.
Ancora non è chiaro lo status dei tunisini portati a Mineo: con ogni probabilità saranno considerati clandestini.
L’ambiguità deriva dalle dichiarazioni dello stesso ministro, che ha detto chiaramente che solo i libici hanno diritto a chiedere asilo, mentre i tunisini sono immigrati illegali. Tuttavia sinora la struttura di Mineo ha funzionato come centro per richiedenti asilo. La trasformeranno in un CIE?
Un richiedente asilo, trasferito negli ultimi giorni al “residence degli aranci” da una delle tante strutture della penisola, si è messo in contatto con gli antirazzisti della zona da cui proveniva. Ha raccontato che la situazione è molto tesa: alcuni sarebbero fuggiti, altri hanno inscenato proteste.
Un quadro che potrebbe complicarsi quando la struttura raggiungerà la massima capienza. D’altro canto al ministero dell’interno sono criminali ma non stupidi: immaginavano sin troppo bene che bomba avrebbero innescato concentrando a Mineo duemila tunisini.
Per questo hanno cercato sino all’ultimo di evitarlo.
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Volo speciale. Torino, Bari, Lampedusa. E ritorno

Martedì 22 marzo.
Torino Caselle. Due voli speciali diretti prima a Bari e poi a Lampedusa sono partiti alle 11,30 e alle 14. Non sappiamo quanti immigrati siano stati coinvolti nell’operazione ma non è difficile immaginare che sia una tappa nel gioco di bussolotti di Maroni.
Si caricano un po’ di immigrati a Torino e li si molla a Bari, dove, dopo la deportazione a Mineo di un centinaio di richiedenti asilo, c’è un po’ di spazio. Poi si vola a Lampedusa, si fa un carico di tunisini appena sbarcati, e li si porta ancora a Bari.

Torino. Non si placano le proteste nell’area verde del CIE. Dopo l’incendio che domenica notte ha mandato in fumo tre moduli abitativi su cinque, i reclusi, tutti tunisini, hanno dato alle fiamme tavoli e sedie della mensa, dove erano stati obbligati a dormire la notte precedente.
Radunati nel cortile e perquisiti sono stati privati degli accendini.
Altri reclusi si sono tagliati: due sono stati medicati in ospedale.

Gradisca. La rivolta e la fuga di domenica sono state di ben più ampie di quanto era stato fatto trapelare in un primo tempo. Secondo quanto riportano i giornali le stanze ancora agibili dopo le sommosse di fine febbraio sono state danneggiate ulteriormente.
Brutte notizie invece dal fronte del CARA, questa notte tre richiedenti asilo sono stati caricati su un aereo di linea e deportati a Mineo.
Gli operatori di Connecting People hanno blandito gli altri ospiti del CARA con promesse impossibili. Qualcuno ci ha creduto, altri no. C’è chi pensa che a Mineo troverà una villetta tutta per se e un lavoro; gli altri sono stanchi, insofferenti, rassegnati.

Roma. 29 richiedenti asilo sono stati trasferiti a Mineo dal CARA di Castelnuovo di Porto. Una ventina di attivisti di Action si erano incatenati all’ingresso principale per impedire la deportazione, ma sono stati beffati dalla polizia che ha fatto uscire i rifugiati da un ingresso laterale.
Il ministero dell’Interno aveva disposto lo spostamento di 55 persone: in seguito alle proteste di alcune associazioni, alcuni “casi vulnerabili” sono stati esclusi dalla lista.

La condizione dei richiedenti asilo concentrati a Mineo sarà ancora peggiore di quella attuale. Tutte le pratiche sono concentrate in un’unica commissione territoriale; chi ha fatto ricorso avrà difficoltà a partecipare alle udienze, tutte le reti di sostegno e solidarietà sviluppate sui vari territori vengono spezzate.
Ovviamente le sofferenze di chi già ha subito guerre e persecuzioni importano poco a Maroni. L’essenziale è accontentare l’elettorato leghista.
Ma il ministro è nei guai sino al collo. Il viaggio in Tunisia programmato oggi è stato rimandato di qualche giorno: segno che non sarà facile convincere il governo tunisino a mettere in atto misure di contrasto dell’immigrazione, nonché a mantenere gli impegni presi quest’estate da Ben Alì per il rimpatrio veloce dei clandestini. Gli aiuti promessi alla Tunisia per far fronte all’ondata di profughi sono stati ridotti ad un mero supporto al rimpatrio degli immigrati provenienti dal Bangladesh. Della serie: li portiamo a casa noi, così non rischiamo di ritrovarceli su un barcone diretto a Lampedusa. Non manca chi si chiede che fine abbiano fatto i soldi inizialmente stanziati per gli aiuti.
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Restinco. Fiamme, repressione e una gola tagliata

Restinco, 21 marzo. Sono inagibili buona parte delle camerate del CIE brindisino, teatro di una rivolta scoppiata nella notte tra lunedì 14 e martedì 15 marzo. Buona parte delle camerate sono state investite dalle fiamme: per bloccare i tunisini protagonisti della sommossa, la questura ha dovuto inviare, oltre ai vigili del fuoco, anche poliziotti dell’antisommossa e della digos.
I giornali danno notizia dell’incendio che ha distrutto il CIE solo sabato 19 marzo.
Gli immigrati sono stati ammassati nella sala mensa. Anche qui, è il modello Gradisca che fa scuola.
Lo dimostra la mancata chiusura del centro annunciata nei giorni scorsi da numerosi giornali. Il capo di gabinetto della prefettura, Erminia Cicoria, dice testualmente: “Restano lì dove sono”. Una chiusura momentanea del Centro salentino non è al momento in agenda.
Nella tarda serata di domenica 20 marzo un ragazzo tunisino si è tagliato la gola, dopo una discussione molto animata con l’ispettore del centro, che lo aveva preso di mira, con amenità del tipo “mi scopo tua sorella”. L’ambulanza venuta a soccorrere il ferito è stata mandata indietro dal medico del CIE. Il ragazzo si troverebbe ora in infermeria. Gli altri reclusi hanno annunciato uno sciopero della fame.
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CIE di Gradisca. Rivolta e fughe

Lunedì 21 marzo. Non è durata a lungo la quiete al CIE. Ieri un gruppo di prigionieri avrebbe tentato la fuga. Il sequestro dei cellulari impedisce da tempo i contatti diretti e, quindi, il condizionale è d’obbligo.
Secondo le agenzie sei immigrati sono riusciti a far perdere le proprie tracce mentre sette sono stati arrestati. In serata altri quattro o cinque sarebbero saliti sul tetto ma sono stati obbligati a scendere.
Oggi a Gorizia ci sarà una riunione del comitato per l’ordine e la sicurezza, che discuterà anche del CIE di Gradisca. Da ormai quasi un mese i cento reclusi del CIE sono accampati nelle aree comuni del Centro, ormai quasi completamente distrutto dalle continue rivolte ed incendi.

Intanto nel vicino CARA sempre più forte è il timore che da un giorno all’altro i richiedenti asilo vengano deportati a Mineo.

Aggiornamento del 22 marzo: da quel che si apprende dai giornali di oggi la rivolta e la fuga di domenica sono state di ben più ampie di quanto era stato fatto trapelare in un primo tempo. Anzi. Le stanze ancora in piedi dopo le sommosse di fine febbraio sono state danneggiate ulteriormente.
Brutte notizie invece dal fronte del CARA, pare certo che questa notte tre richiedenti asilo siano stati deportati a Mineo.
Dentro i reclusi sono preoccupati ma decisi a resistere.
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Torino. Incendiata l’area verde del CIE

Lunedì 21 marzo. L’area verde del CIE di corso Brunelleschi è stata gravemente danneggiata da un incendio. Intorno alla mezzanotte i reclusi avrebbero dato alle fiamme materassi e suppellettili. Secondo quanto riferito da quotidiani ed agenzie il fuoco avrebbe reso inagibili tre su cinque moduli abitativi. I reclusi, secondo l’ormai collaudato “modello Gradisca” non sarebbero stati trasferiti altrove ma ammassati nell’area mensa. A poco più di venti giorni dalla rivolta del 28 febbraio, quando andò in fumo la sezione gialla, il CIE torinese torna ad infiammarsi.
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Milano. Cinque tentati suicidi

Nella notte tra sabato 19 e domenica 20 al CIE di via Corelli a Milano ci sarebbero stati ben cinque tentativi di suicidio. Tre hanno bevuto detersivo e sono stati male, altri due avrebbero cercato di impiccarsi. Pare che ora tutti stiano bene. Forse i cinque speravano di essere liberati o di riuscire a fuggire. Forse la disperazione di vedersi negato ogni futuro è diventata contagiosa in una serata di inizio primavera. Continua a leggere

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Da Lampedusa a Mineo. Frontiere d’odio

Venerdì 18 marzo. A Lampedusa si susseguono gli sbarchi, il centro di accoglienza è al collasso. Nonostante le contestazioni che hanno accolto la visita di due campioni dei diritti umani quali Mario Borghezio e Marine Le Pen, nell’isola soffia forte il vento dell’odio e della paura. In queste ore un centinaio di isolani ha cercato di impedire l’attracco di una barca carica di immigrati.
A Mineo ha aperto i battenti il Villaggio della Solidarietà. Il governo ha deciso di concentrarvi tutti i residenti asilo dei CARA, per poter velocemente riconvertire a CIE i CARA. Nuova linfa per la premiata ditta galera e deportazione. I primi tre sono giunti in auto da Trapani, altri 157 li hanno deportati da Bari.
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Trieste, immigrati e antirazzisti in piazza

Il Comitato Primo Marzo di Trieste, dopo il presidio del primo marzo fatto in barba alla bora a 150 chilometri l’ora, ha rilanciato l’iniziativa con due giornate di lotta intorno a due piazze tematiche.
La prima si è svolta nella mattinata del 17 marzo all’incrocio fra due centralissime vie pedonali.
La scelta della data non è stata casuale, in quanto si voleva far vedere alla città, nel giorno delle celebrazioni per l’unità d’Italia, quale Italia si stia festeggiando. L’Italia dei CIE e delle deportazioni. L’Italia in guerra che aumenta di anno in anno la spesa militare. Ma non solo, perché le questioni affrontate nelle piazze tematiche si sono allargate alla sanatoria truffa e al razzismo di stato.
Hanno partecipato varie decine di immigrati e antirazzisti. Tantissimi i volantini e il materiale informativo distribuito. Inoltre i cartelloni e gli striscioni hanno attirato l’interesse di molti passanti, che si sono avvicinati al banchetto dei libri e hanno lasciato sottoscrizioni.
Il prossimo appuntamento è per il primo aprile. Al centro di questa nuova piazza tematica scuola, lavoro, sfruttamento, schiavismo, sanatoria-truffa…
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CIE di Bari. Lamette e libertà

Bari. Nel pomeriggio del 15 marzo un tunisino di 29 anni ingoia delle lamette: trasportato d’urgenza all’ospedale fugge, riguadagnando la propria libertà. In serata altri sei tunisini danno fuoco a materassi e suppellettili e vengono arrestati e tradotti in carcere per danneggiamento aggravato. Nella notte altri reclusi distruggono alcune suppellettili.
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Gradisca. Stato d’assedio

Sabato 12 marzo. Un imponente schieramento di polizia attende gli antirazzisti, che hanno risposto all’appello del Coordinamento Libertario contro i CIE, per una giornata di lotta e solidarietà.
Sono passati cinque anni dal giorno che il primo “ospite” venne spinto tra le mura dell’ex caserma Polonio dalle truppe dello stato. Fuori vi furono cariche, manganellate e lacrimogeni.
L’avevano progettato con cura, il lager isontino. Letti, tavoli imbullonati, poche suppellettili, mura e sorveglianza. Speravano di prevenire fughe e rivolte. Si sbagliavano e di grosso.
Non si contano più le fughe, le rivolte, le proteste, spesso finite tra botte e deportazioni.
Oggi del CIE non resta quasi più nulla. Gli incendi appiccati dai reclusi a fine febbraio hanno mandato in fumo le ultime camerate rimaste. Nonostante ciò il ministero dell’Interno mantiene aperta la struttura: dentro i reclusi sono in terra, senza materassi, con un solo bagno, privati dei cellulari.
Il giorno prima della manifestazione c’è stata la vista al CIE e al CARA del Comitato parlamentare Schengen, Europol ed Immigrazione. I parlamentari – due democratici e un leghista – vengono accolti da un immigrato che si taglia e sanguina davanti a loro. La delegazione conclude che il CIE deve essere chiuso e “messo in sicurezza”.

Tutti gli antirazzisti che arrivano per la manifestazione vengono fermati e controllati a lungo. Nonostante ciò oltre duecento compagni e compagne si ritrovano davanti al lager.
Sulla recinzione i richiedenti asilo del CARA hanno appeso un cartello “CIE=CARA”. Oggi gli ospiti del CARA sono prigionieri: li hanno chiusi dentro nonostante sia loro riconosciuto il diritto di uscire durante il giorno. 150 sequestri di persona decisi dalla questura per impedire ai ragazzi del CARA di partecipare alla manifestazione. Ma loro si fanno sentire lo stesso: chiamano gli antirazzisti, dicendo loro che il “bombardamento sonoro” è perfettamente riuscito. Sentono la musica e i tanti interventi solidali e gridano forte la loro rabbia.
Dal CIE non esce nulla. Probabilmente, dopo la protesta sul tetto dello scorso lunedì, il cortile è loro nuovamente interdetto. Sono dentro circondati dalla celere di Padova.
Vengono lanciate oltre il muro numerose palline con la scritta “libertà – freedom”.
In barba ai numerosi divieti della questura i manifestanti piazzano banchetti, cibo, ampli e presto la manifestazione deborda in strada: la provinciale viene bloccata per oltre tre ore.
I settori più moderati vorrebbero che una delegazione entrasse nel CIE, ma, dopo un lungo tergiversare, arriva secco il no della questura. La situazione dentro deve essere anche peggiore di quella mostrata dalle foto filtrate fuori dal CIE prima del sequestro dei telefonini. Nessuno deve vedere, nessuno deve raccontare la vergogna che si cela dietro quelle mura.
Le mura di un lager democratico. Continua a leggere

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