Cie di Gradisca: “un gigante dai piedi d’argilla”

Così viene definito il lager gradiscano da un giornalista in uno degli articoli usciti in questi giorni in occasione della visita di alcuni politici al CIE. Del resto in questi anni le definizioni si sono sprecate: “colabrodo”, “ingestibile” ecc. E’ probabile che la poca cortesia dei giornalisti locali verso la struttura sia anche dovuta al fatto che ai media viene tutt’ora impedito di accedervi. La scusa è quella ripetuta da un anno a questa parte dal Ministero: ci sono i lavori di ristrutturazione (quelli che non finiscono mai). Ciò non è apprezzato dagli operatori dell’informazione che di fatto non riescono ad entrare da vari anni nel CIE “modello”. Uno dei tanti misteri attorno a questo lager.

Aggiornamento del 14 maggio

L’11 maggio una delegazione di giornalisti è riuscita ad entrare. Per una volta hanno raccontato della disperazione dei reclusi per l’assurdità della loro detenzione. Tante storie diverse accomunate dalla stessa assurda ferocia delle leggi razziste. A breve il CIE pare tornerà a riempirsi e l’estate è alle porte. I sindacati di polizia già mettono le mani avanti e dicono che sarà un inferno. Leggi la rassegna stampa.

 

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Parma, 10 anni, 30 occupazioni

La lotta per la casa a Parma compie dieci anni e non sembra conoscere segni di arretramento. Qualche settimana fa alcune famiglie erano state sgomberate da uno stabile di via Bengasi: le stesse famiglie, coadiuvate dalla Rete Diritti in Casa”, hanno occupato un’altra casa vuota in via Liguria. Emilia ci ha raccontato la cronaca dell’ultima occupazione nelle città emiliana, la trentesima in dieci anni.

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La barbarie di ogni giorno

Con i polsi legati e il nastro adesivo sulla bocca. Una foto immortala un migrante algerino su un volo di linea Alitalia da Roma a Tunisi e i media nazionali di accorgono che le deportazioni/rimpatri forzati di migranti sono azioni disumane e violente. E’ così che l’immagine rubata dal fotoreporter Francesco Sperandeo che si è imbarcato su quel volo ha provocato le prese di distanza apparenti di alcuni esponenti politici. Gli stessi che quelle deportazioni le hanno volute e sostenute. Quelli che le ritengono necessarie e che diedero il via alla stagione dei nuovi lager, i Cpt. Le deportazioni dei migranti devono essere portate a termine nella massima segretezza: sarebbe troppo pericoloso se gli altri passeggeri si rifiutassero di salire o se protestassero contro i rimpatri forzati. Gli addetti al rimpatrio si sarebbero giustificati dicendo che il nastro adesivo è stato messo sulla bocca del giovane per evitare atti di protesta e di autolesionismo. La visione del sangue sarebbe stata forse inacettabile per gli altri passeggeri: meglio impedirlo. In ogni modo. I due algerini sono stati rimpatriati a Tunisi, dopo che per due volte si erano rifiutati di prendere un volo per la Turchia.

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Pogrom di polizia ad Atene

Atene 25 aprile. Sin dalle prime ore del giorno è scattata un’ampia operazione di polizia nel centro della città. 
Camionette con centinaia di uomini in assetto antisommossa hanno circondato interi isolati e hanno fatto irruzione in numerosi edifici a caccia di immigrati. Chiunque paresse straniero è stato brutalmente fermato e perquisito. Tutti gli immigrati senza documenti sono stati condotti nei nuovi centri di detenzione.
Il ministro per la difesa civile Chrysochoidis, già protagonista di numerose campagne contro gli immigrati, ha dichiarato che “Atene sarà ripulita in pochi giorni. Noi dobbiamo riappropriarci dello spazio pubblico”.

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Grecia. Il muro di Evros e la guerra all’immigrazione

La Grecia ha deciso: il muro lungo il confine con la Turchia si farà. Lo ha annunciato il ministro “per la protezione dei cittadini” Michalis Chrisochoidis. L’Unione Europea non finanzierà il progetto, peraltro caldeggiato da Sarkozy, ma non si opporrà a quello che l’incaricata UE Cecilia Malmström, ha definito un “affare interno”.
La pressione dell’estrema destra xenofoba, che i sondaggi danno in crescita, il tentativo di spezzare il fronte della lotta di classe giocando la carta della guerra tra poveri, sono all’origine della scelta di dare una ulteriore svolta disciplinare all’immigrazione nel paese ellenico.
Molti immigrati sono afgani, spesso minorenni, cui è negato l’asilo politico o il riconoscimento dello status di profughi, perché provengono da una paese “democratico” e non hanno “motivo” di fuggire.
Tanti si ammassano in campi di fortuna alle spalle di Patrasso, nella speranza di guadagnare un passaggio clandestino verso l’Italia. Nel nostro paese se ne parla solo quando qualcuno muore schiacciato dalle ruote di un camion cui si era aggrappato.
Il muro di Evros è solo uno dei tasselli – forse solo il più visibile – di una politica di repressione dell’immigrazione clandestina, che nei prossimi mesi porterà alla costruzione di 30 centri di detenzione da mille posti l’uno.
Nei quartieri periferici di Atene, la grande città dove si concentrano gran parte degli immigrati che provano, attraverso la Grecia, ad approdare nell’Europa più ricca, si moltiplicano le aggressioni fasciste.

Ne abbiamo parlato con Georgios del gruppo di comunisti libertari di Atene.

Ascolta l’intervista a radio Blackout

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Processo agli antirazzisti torinesi primo atto

Torino, 13 aprile. Si è svolta oggi l’udienza preliminare del processo agli antirazzisti torinesi.
Erano presenti solo sette imputati, di cui uno detenuto per antifascismo e un’altra ai domiciliari per la lotta No Tav.
Si sono costituiti parte civile i curatori fallimentari del ristorante il Cambio, il capo dei comitati spontanei razzisti Carlo Verra e la consigliera di circoscrizione del PDL Patrizia Alessi.
Gli avvocati della difesa hanno presentato alcune eccezioni di natura procedurale per mancata notifica, l’accoglimento delle quali ha portato al rinvio al 24 maggio dell’udienza.
Il mega processo che mette insieme alcuni episodi di lotta antirazzista – ma non solo – è stato spezzato in due.
In questa prima tranche sono state messe insieme alcune tra le tante manifestazioni, proteste, azioni, contestazioni che hanno – almeno in parte – attraversato il percorso dell’assemblea antirazzista torinese. Altre iniziative, dello stesso tenore e dello stesso ambito, saranno oggetto di altri procedimenti. Chiaro l’intento di prendere due piccioni con una fava giuridica.
Da un lato proporre, pur senza riproporla formalmente, la chiave associativa negata dalla cassazione, dall’altro investire gli stessi antirazzisti di una miriade di procedimenti separati, negando loro almeno il beneficio della continuità, derivante dell’accorpamento.
Si vuole ad ogni costo ottenere condanne per togliere di mezzo compagni e compagne che in questi anni hanno lottato contro le leggi razziste del nostro paese e in solidarietà ai senza carte rinchiusi nei CIE, agli immigrati/schiavi.
Non a caso il regista dell’intera operazione è il PM Padalino, noto per le sue simpatie leghiste e per proposte di stampo teneramente nazista come il rilievo delle impronte ai bambini e alle bambine rom.

L’urgenza politica e morale della lotta antirazzista va al di là della repressione che colpisce chi ha tentato di mettere sabbia nel meccanismo feroce che stritola le vite degli immigrati per tenerli sotto costante ricatto.
In questi anni è stata costruita una legislazione speciale per gli immigrati, un corpus di leggi che stabilisce che viaggiare è un reato, cercare un futuro migliore un’ambizione criminale.
Di fronte alle nuove leggi razziali ribellarsi e sostenere chi si ribella è un dovere. Ineludibile.

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Parma, lotta per la casa: dopo via Bengasi non ci fermeremo!

A Parma la lotta per il diritto alla casa non si ferma. L’occupazione di due palazzine in via Bengasi 2 e 4 ha permesso ad alcune famiglie e a più di cinquanta di migranti di avere un tetto sulla testa per circa un anno e mezzo. Ora quell’esperienza è terminata, ma gli ex-occupanti proseguono la lotta per la rivendicazione del diritto ad avere un’abitazione dignitosa.

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Pioltello. Corteo contro lo sgombero del presidio

Gli operai delle cooperative Esselunga hanno deciso di battersi contro lo sfruttamento e il caporalato, rischiando il proprio posto di lavoro. In questa lotta si sono riconosciuti tanti altri lavoratori, poiché il sistema Esselunga è lo stesso cui sono obbligati ogni giorno migliaia di lavoratori in buona parte immigrati.
Dal 7 ottobre, quando la lotta ha preso avvio, si sono susseguite le iniziative: assemblee, scioperi, blocchi, manifestazioni.
Sabato 24 marzo un lungo corteo ha attraversato le vie di Pioltello, con lunghe soste per cercare un confronto con la gente del paese. Buona l’accoglienza nelle zone popolari dove abitano tanti dei lavoratori immigrati/schiavi, che in questi mesi hanno deciso di alzare la testa.
Numerose le manifestazioni di solidarietà dalle persone affacciate ai balconi e fuori dai negozi della zona.
Al corteo hanno partecipato lavoratori di numerose altre cooperative di altre località: segno che la solidarietà e il mutuo appoggio tra le lotte è di giorno in giorno più forte.
La manifestazione è stata la risposta allo sgombero del presidio permanente del 20 marzo.
Il giudice si era pronunciato favorevolmente al reintegro di primi tre lavoratori licenziati dalla cooperativa Safra ma l’azienda non ha riaperto i cancelli ai tre operai e ha preteso lo sgombero del presidio, che il sindaco Democratico della città ha subito ordinato.

Ascolta la testimonianza a radio Blackout di Maurizio Fratus, un compagno in prima linea nelle lotte e nel presidio.

Intervista sullo sgombero

Il resoconto del corteo

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Stato di polizia. Solidarietà agli antirazzisti e ai No tav colpiti dalla repressione

Negli ultimi vent’anni il disciplinamento dei lavoratori immigrati è stata ed è tuttora una delle grandi scommesse dei governi e dei padroni, che puntano sulla guerra tra poveri per spezzare il fronte della guerra di classe.

Nel nostro paese è stata costruita una legislazione speciale per gli immigrati, persone che, sebbene vivano in questo paese, devono sottostare a regole che ne limitano fortemente la libertà.

Chi si oppone alle politiche e alle leggi discriminatorie e oppressive nei confronti degli immigrati entra nel mirino della magistratura.
Il prossimo 13 aprile si aprirà il processo contro una quarantina di antirazzisti torinesi, tra cui tre aderenti alla FAI torinese. Un megaprocesso che la Procura torinese vuole ad ogni costo, nonostante l’impalcatura giuridica su cui si fondava non abbia retto. Nel marzo del 2010 scattarono le manette per sei antirazzisti incarcerati con l’accusa di “associazione a delinquere”. L’etichetta associativa venne apposta dai PM Padalino e Pedrotta sull’Assemblea antirazzista di Torino, che per circa un anno – dal maggio del 2008 al maggio del 2009 – fu il fulcro da cui si dipanarono numerose iniziative di informazione e lotta.

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CIE: Una guerra non dichiarata

Ascolta l’intervista di Raffaele a radio Blackout  su immigrazione, CIE, informazione negata, permesso a punti, repressione.

Quello che segue è l’articolo di Raffaele Viezzi pubblicato su Umanità Nova numero 10 del 18 Marzo 2012          www.umanitanova.org

“Contrastare la clandestinità è un dovere di civiltà”.

Queste sono state le parole del ministro dell’Interno Annamaria Cancellieri¹ all’inaugurazione del Centro nazionale di coordinamento per l’immigrazione, lo scorso 15 febbraio a Roma. Tale centro dovrebbe essere una base organizzativa per i diversi corpi di polizia e le forze armate (carabinieri, guardia di finanza, marina militare e capitaneria di porto) impegnati nella guerra ai migranti. Non c’è altro termine per descrivere ciò che i governi europei, e quelli affacciati sul mare in primis, stanno mettendo in pratica lungo la fascia costiera del Mediterraneo: militarizzazione delle coste, uso dei più avanzati dispositivi tecnologici, cacce all’uomo per rinchiudere uomini e donne dentro lager in cui la vita umana non vale nulla. Perché i Centri di Identificazione ed Espulsione sono lager, lo abbiamo sempre detto e lo ribadiamo.

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CIE di Gradisca: Connecting People pescata con le mani nel sacco

Giovedì 23 febbraio. Che la gestione dei CIE sia un affare lucroso è cosa nota. Intorno a questi nonluoghi girano una montagna di soldi pubblici da arraffare e in molti fanno a gara per accaparrarseli. La fame di profitto va oltre anche le sostanziose somme elargite dallo stato per la gestione di questi lager.
E’ il caso del “CIE modello” di Gradisca d’Isonzo. Dall’altro ieri è in corso una grossa operazione della Procura di Gorizia che vede come grande imputato la Connecting People, il consorzio che gestisce la struttura. L’accusa è semplice: truffa ai danni dello stato per aver gonfiato le fatture e i numeri dei reclusi per papparsi ancora più soldi.

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Respingimenti in mare. Strasburgo condanna l’Italia per tortura

La Corte europea dei diritti umani di Strasburgo ha condannato l’Italia per i respingimenti verso la Libia. La condanna riguarda il caso “Hirsi”. 24 persone per le quali non è stato rispettato l’articolo 3 della Convenzione sui diritti umani, quello sui trattamenti degradanti e la tortura.
I 24 facevano parte di un gruppo di 200 profughi di guerra somali ed eritrei, intercettati in mare il 6 maggio del 2009, caricati su navi italiane e portati in Libia contro la loro volontà, senza dare loro la possibilità di fare richiesta di asilo.
In Libia sono stati per mesi in prigioni dove hanno subito abusi di ogni genere. La loro vicenda non è stata seppellita nel silenzio e nell’indifferenza per un mero caso. Intercettati in Libia dal Cir – consiglio italiano rifugiati – hanno incaricato gli avvocati Anton Giulio Lana e Andrea Saccucci dell’Unione forense per la tutela dei diritti umani di presentare ricorso dinanzi alla Corte europea dei diritti dell’uomo.
L’Italia dovrà pagare il risarcimento a 22 delle 24 vittime: 15.000 euro più le spese. Gli altri due sono morti in un nuovo tentativo di raggiungere l’Italia.
Ma è solo un dato simbolico, perché il prezzo vero di quelle vite non lo pagherà nessuno. Il prezzo per quelli annegati in mare, per quelli torturati, struprati e umiliati nelle prigioni libiche, per chi è morto di fame e di sete nel deserto perché non aveva denari per pagare i mercanti d’uomini. Nessuno pagherà il prezzo per i bambini che quel giorni e in tanti altri giorni anonimi e non saputi di questi anni di guerra ai poveri hanno visto chiudersi l’orizzonte della loro vita.
Una lunga strage. Una strage di Stato.
La condanna della corte di Strasburgo rappresenta tuttavia un duro colpo alla politica delle espulsioni collettive, sancita dal trattato di amicizia italo-libica voluta da Prodi, siglata da Berlusconi e perseguita di recente dal governo Monti, nel corso della visita in Libia del 21 gennaio.
Ma – lo sappiamo bene – non cambierà le politiche della Fortezza Europa.
Finché ci saranno frontiere, muri, filo spinato, finché ci saranno uomini in armi a sorvegliarne i confini, le convenzioni, i diritti umani, le corti internazionali non saranno che l’alibi umanitario, la foglia di fico di un’Europa chiusa, spaventata, arroccata intorno ai propri privilegi.
I 22 salvati di Strasburgo ci ricordano le migliaia di sommersi senza nome che il mare nostrum ha inghiottito. 1500 solo nel 2011. Da qualche parte, in un campo profughi, in un villaggio remoto c’è qualcuno che ne ha memoria. Qui da noi non sono che i numeri che scandiscono il ritmo di una guerra. La guerra ai poveri.

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CIE di Modena. Sciopero della fame e della sete

Mercoledì 22 febbraio. I reclusi del Centro di Identificazione ed Espulsione di Modena sono in sciopero della fame e della sete da due giorni. Alla protesta partecipano tutti i 56 reclusi della struttura.
Il CIE di Modena è l’equivalente di un supercarcere per senza documenti. Le condizioni di detenzione sono peggiori che altrove, l’isolamento molto più rigido. Ormai da un paio d’anni anche in altri CIE è stato impedito agli “ospiti” di tenere i propri telefoni cellulari, a Modena non è mai stato possibile comunicare con l’esterno se non dietro stretta sorveglianza dei gestori del Centro, la Misericordia di Giovanardi, fratello gemello dell’ex ministro del PDL.
Nonostante l’isolamento questa volta le notizie sono filtrate all’esterno.
A scatenare la protesta, durissima e compatta dei prigionieri, l’inganno messo in atto dalla Questura modenese, che aveva promesso, che, nonostante il recepimento da parte del governo italiano della direttiva rimpatri, allo scadere del sesto mese di detenzione, nessuno sarebbe rimasto nel CIE.
Nei giorni scorsi diversi immigrati sono passati dal giudice di pace che ha prolungato di altri due mesi il soggiorno forzato a Modena. Chi entra in un CIE passa sempre dal giudice di pace che, di volta in volta, aggiunge due mesi a quelli iniziali.
I reclusi sono decisi a resistere finché non otterranno la libertà.

Circolano indiscrezioni su un possibile cambio della guardia nella gestione della struttura emiliana, poiché la Misericordia che l’ha in gestione sin dall’apertura, potrebbe non presentarsi per la prossima gara di appalto. La riduzione del contributo diario per ogni prigioniero renderebbe meno redditizio l’affare. Secondo le stesse fonti tra i possibili concorrenti ci sarebbe la francese Gepsa, che un anno fa sarebbe dovuta subentrare al consorzio Connecting People nella gestione del CIE di Gradisca d’Isonzo, ma per una serie non troppo chiara di inghippi amministrativi, di fatto è rimasta fuori.

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CIE di Gradisca: piccole ordinarie sopraffazioni

Le notizie di maltrattamenti, pestaggi, angherie e abusi che filtrano dalle mura dei CIE ogni tanto fanno notizia anche se molto meno di quello che sarebbe necessario per squarciare il velo di silenzio e indifferenza che circonda questi luoghi. Ciò che invece spesso fatica a venir fuori sono le piccole storie individuali di sopraffazione e accanimento contro i reclusi e come in questo caso le persone a loro vicine.

Lui è un 32enne tunisino trattenuto al Cie con alle spalle alcuni precedenti,   lei una 25enne albanese ma di cittadinanza italiana residente a Padova. Il loro matrimonio è già saltato due volte. Avrebbero voluto sposarsi a Gradisca, il che, essendo lei cittadina italiana, avrebbe permesso a lui – colpito dal provvedimento di rimpatrio – di ottenere il permesso di soggiorno. Ma non è andata così e lui è stato rimpatriato.

Leggi l’articolo completo.

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Profughi di guerra e guerra ai profughi

Le scelte del governo nell’ultimo anno sono state un mix di criminalità e cialtroneria.
È stato un anno di “emergenze” costruite per poter meglio modellare un dispositivo securitario, che punta sul disciplinamento del lavoro migrante, come grimaldello per eliminare ogni tutela per tutti i lavoratori, immigrati o “indigeni”.
Il 21 gennaio Monti è andato in Libia per discutere, di soldi, ENI, petrolio ed immigrati. In ballo è la ripresa della cooperazione nel respingimento in mare di profughi e migranti. Con il governo Gheddafi – prima che l’Italia entrasse guerra – le cose andavano a gonfie vele per i razzisti: respingimenti di massa, detenzione nelle galere libiche, netta riduzione degli sbarchi in Sicilia. Tripoli faceva il lavoro sporco, Roma pagava. Chi fuggiva da guerre e persecuzioni trovava galere, torture, stupri e ricatti. Il ministro della difesa Di Paola ha sottoscritto una lettera di intenti con il collega libico Osama al-Juwali per addestrare 300 poliziotti libici in Italia e per il controllo elettronico delle frontiere. La prossima volta andrà in Libia il ministro dell’interno Cancellieri per fissare il nuovo accordo sui flussi migratori. Tutto cambia perché tutto resti uguale.
La Lega Nord scalpita per cacciare via le 22.000 persone sbarcate nel nostro paese per fuggire la guerra in Libia cercando un’opportunità di vita in Europa.
Profughi e richiedenti asilo sono stati affidati alla Protezione Civile, per gestire quella che Berlusconi ha chiamato “emergenza Nord Africa”. La protezione civile anche in questa occasione si è esibita nel solito show. La gente che nel nostro paese ha subito alluvioni, terremoti, frane sa bene che il peggio è venuto dopo. Militarizzazione del territorio, clientelismo, mostruose spese per l’apparato, nulla per chi si trova senza casa e senza lavoro.
I profughi provenienti dalla Libia sono stati dimenticati in migliaia di piccoli centri di accoglienza sparsi per il nostro paese. La protezione civile fa affari, “l’emergenza” diventa una triste normalità.
Tanto “normale” che tanti non se ne accorgono nemmeno, nonostante in ballo ci siano le vite di migliaia di persone.
La gran parte dei profughi della guerra in Libia erano emigrati in quel paese da lunghi anni: nonostante ciò le commissioni che devono decidere sulla concessione dello status di rifugiato fingono di non saperlo, considerandoli alla stregua di immigrati appena sbarcati.
Una delle tante sceneggiate recitate sulla pelle di chi è fuggito da una guerra cui l’Italia ha partecipato attivamente.

Ascolta su radio Blackout Gianluca Vitale, avvocato impegnato sul fronte dell’immigrazione.

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Cie di Gradisca: immigrati al freddo e dipendenti…

Come già dicevamo tempo fa il CIE di Gradisca continua a vivacchiare e non certamente bene. E’ arrivato l’inverno e i pochi reclusi imprigionati stanno protestando perchè dentro la struttura “modello” fa freddo e sono costretti a dormire vestiti. Non male visti i 17 milioni di euro spesi per il lager. Continuano anche i problemi per i dipendenti della Connecting People. Dopo i numerosi ritardi nell’erogazione delle paghe ora scatta anche la cassa-integrazione per 18 di loro. E tutto questo mentre dei lavori di ristrutturazione iniziati secoli fa non si sa nulla se non che sono ancora in corso e attualmente la struttura tiene solo 40 persone di fronte all’iniziale capienza di 250. Le rivolte degli anni scorsi hanno dato i loro frutti fino ad oggi.

Leggi la rassegna stampa degli ultimi giorni

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Blocchi e scioperi all’Esselunga di Pioltello

Non si ferma la lotta degli operai delle cooperative che gestiscono la logistica alla Esselunga di Pioltello. Nonostante la dura repressione – ormai trenta lavoratori tra cui tutti i 24 delegati sindacali – sono stati licenziati continua giorno e notte il presidio davanti ai cancelli.
Domenica c’è stato un nuovo sciopero che è riuscito a bloccare completamente l’attività nei capannoni del polo logistico.
Avvisati per tempo dell’anticipazione alle ore 18 del normale turno di lavoro previsto per le 24, decine di operai di altre cooperative e di compagni si sono piazzati davanti ai cancelli fin dalle 16,30.
C’erano oltre 200 persone, comprese decine di operai chiamati in turno di lavoro che si fermavano davanti al picchetto senza intenzione di forzarlo per entrare al lavoro. I crumiri erano solo cinque.
Il capo del servizio di sicurezza dell’Esselunga, Cupillo, ex-consigliere dell’Italia dei Valori di Pioltello chiama la polizia che viene dirottata a Pioltello direttamente dallo stadio di S.Siro dove si stava per svolgere il derby.
Dopo due ore e mezza di fronteggiamento, assemblee comizi e capannelli, tutti gli operai del turno delle 18 decidono di andarsene a casa.
Il lavoro riprende solo dopo lo scioglimento del picchetto intorno alle 22,30

Ne abbiamo parlato con Maurizio Fratus che fa parte del gruppo di solidali che sostengono attivamente la lotta di Pioltello, che, ha sottolineato il ruolo della CGIL, che non ha speso una parola per i licenziati ma si propone come mediatrice di un conflitto che ha sempre disertato.

Ascolta l’intervista rilasciata a Radio Blackout da Maurizio Fratus

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CIE di Torino. Fuga di mezzanotte

Torino 1 gennaio. Dopo l’evasione di massa della notte tra il 24 e il 25 dicembre i reclusi del Centro di corso Brunelleschi, ci hanno riprovato la notte di capodanno. Questa volta la questura non si è fatta cogliere impreparata: decine di uomini sono entrati nelle gabbie prima della mezzanotte. Un’azione preventiva per scoraggiare ogni tentativo di fuga. Nonostante le premesse decisamente poco incoraggianti, dalla sezione blu ci hanno provato lo stesso. Saltate le serrature hanno affrontato la polizia lanciando quello che potevano in risposta ad idranti e lacrimogeni. Nella confusione quattro (forse cinque) immigrati sono riusciti a saltare il muro facendo perdere le proprie tracce.
Un ragazzo senegalese è stato intercettato dalla polizia e arrestato. Il giorno successivo è stato scarcerato con l’accusa di resistenza e lesioni.

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Un pacchetto a scoppio ritardato

I primi di agosto del 2009 divenne legge il “pacchetto sicurezza”, un insieme di norme volute dal governo Berlusconi per aumentare gli ostacoli in quella corsa con handicap che è la vita degli immigrati poveri nel nostro paese.
L’ultimo dei bocconi avvelenati viene servito a “freddo” due anni dopo l’emanazione della legge.
Gli immigrati che rinnovano o chiedono per la prima volta il permesso di soggiorno, dovranno pagare una tassa, il cui importo oscilla tra gli 80 e i 200 euro.
Il nuovo contributo, previsto dalla legge sulla sicurezza del 2009, era rimasto sulla carta. Un decreto firmato a ottobre 2011 dagli allora ministri dell’Interno Roberto Maroni e dell’Economia Giulio Tremonti e pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale il 31 dicembre, lo rende operativo a partire dal 30 gennaio prossimo. L’importo del «contributo per il rilascio e rinnovo del permesso di soggiorno» varia in base alla durata del permesso: 80 euro se è compresa tra tre mesi e un anno, 100 euro se è superiore a un anno e inferiore o pari a due anni, 200 euro per il «soggiorno di lungo periodo», meglio noto come «carta di soggiorno». A questa cifra si aggiungono i 27,50 euro per il rilascio del permesso di soggiorno elettronico, i 14 per la marca da bollo e i 30 per la raccomandata. Poi, nonostante la legge preveda la consegna del permesso entro 20 giorni, comincia l’attesa. Un’attesa che spesso dura anche mesi, qualche volta anni.
Oltre il danno c’è la beffa. Metà degli introiti della tassa andrà al “fondo rimpatri”, ossia alla cassa che lo Stato  usa per deportare gli stranieri “senza carte”, quelli che nella roulette russa dei permessi hanno perso. Alcuni hanno lavorato in nero e sono incappati nella rete dei cacciatori d’uomini in divisa, altri il lavoro “regolare” l’avevano prima che la crisi se lo mangiasse insieme al diritto legale di vivere nel nostro paese. L’altra metà di questa estorsione legale andrà al Viminale per spese di ordine pubblico e sicurezza e per finanziare gli sportelli unici. Nel caso qualcuno non l’avesse ancora capito gli immigrati per lo Stato italiano sono in primo luogo una questione di ordine pubblico. E tali devono rimanere, altrimenti chi lucra sulla vita dei lavoratori non potrebbe profittare di chi, per legge, è uno schiavo. Uno schiavo che paga le tasse, non ha diritti e deve pagare per mantenere ben oliata la macchina delle espulsioni.
È l’ultimo pacchetto a scoppio ritardato di Maroni e Berlusconi, che il governo Monti pare intenzionato a mantenere.

Aggiornamento al 4 gennaio. Il ministro dell’Interno, Anna Maria Cancellieri, e quello della Cooperazione internazionale e l’integrazione, Andrea Riccardi, “hanno deciso di avviare un’approfondita riflessione e attenta valutazione sul contributo per il rilascio e il rinnovo dei permessi di soggiorno”. È quindi possibile che il governo valuti una riduzione della tassa di “soggiorno”.
La Lega difende il provvedimento voluto da Maroni. Per il vicepresidente dei senatori del Carroccio, Sandro Mazzatorta, la tassa è “un contributo dovuto vista la mole di lavoro amministrativo che la pubblica amministrazione deve fare”.
Niente di più vero. Peccato che “la mole di lavoro amministrativo” derivi dai mille ostacoli che si interpongono tra l’immigrato e il pezzo di carta che lo rende “legale”. Tutti ostacoli costruiti con il determinante contributo della Lega.

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Trapani. Memoria resistente

Mercoledì 28 dicembre, decine di antirazzisti si sono radunati davanti il cancello del Centro di Identificazione ed Espulsione “Serraino Vulpitta” rispondendo all’appello per la manifestazione in ricordo della strage del 1999 e per ribadire la ferma opposizione contro le leggi razziste e l’esistenza dei centri di detenzione per immigrati.

Al “Serraino Vulpitta” ci sono attualmente 38 persone recluse, per lo più tunisini. Alcuni di questi gridavano tutta la loro rabbia per le loro speranze deluse: «Siamo scappati da una dittatura e siamo finiti dietro le sbarre. Stiamo peggio che in carcere. Noi non siamo criminali». Le condizioni sono quelle di sempre. Gli immigrati denunciano non solo la scarsa qualità del cibo, ma anche la mancanza di coperte. Nonostante la chiusura dello spazio centrale del ballatoio che dà sull’esterno, i manifestanti e gli immigrati sono riusciti a comunicare reciprocamente.

A quanto pare, il “Serraino Vulpitta” funziona come un centro di raccolta terminale per chi deve essere rimpatriato a breve. Una struttura che, nonostante la sua tragica storia e la sua fatiscenza, rimane a disposizione delle autorità come valvola di sfogo per alleggerire il nuovo CIE di contrada Milo, più grande e meno gestibile in caso di rivolte e proteste. Gli immigrati hanno annunciato la loro intenzione di intraprendere uno sciopero della fame.

Poi, gli antirazzisti si sono diretti in centro storico per raccontare quello che avevano visto e sentito.
La presenza di alcuni immigrati di origine senegalese, intervenuti durante la manifestazione, ha sollecitato l’interesse della cittadinanza mentre venivano smascherati i meccanismi delle leggi razziste e le menzogne che sono alla base del pregiudizio e dell’ostilità nei confronti degli stranieri.

A Trapani c’è chi non dimentica e non si arrende.

Coordinamento per la Pace – Trapani

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