CIE di Torino. Vacanze di Natale

Ci avevano provato la notte del 24 dicembre, ma era andata male. I poliziotti di guardia al Centro di corso Brunelleschi erano riusciti a bloccare un tentativo di fuga. Nell’area rossa usano gli idranti e pestano duro due prigionieri.

La sera dopo, è il 25 dicembre, i secondini sono pochi, chiusi nei loro gabbiotti, quando, profittando che le serrature forzate la notte prima non erano state riparate, gli immigrati senza carte hanno aperto le porte delle varie casette che li rinchiudono, e si sono riversati lungo la recinzione, saltandola in più punti.
Un ragazzo si è ferito cadendo dal muro ed è stato subito riacciuffato, altri tre, che avevano trovato rifugio in un capannone, sono stati individuati, fatti scendere con una scala dei vigili del fuoco e riportati nel centro.
Molti altri, forse più di venti, sono corsi via veloci facendo perdere le proprie tracce.
Se i numeri verranno confermati potrebbe essere stata una fuga più numerosa dopo quella del 22 settembre.
Una lunga vacanza di Natale. Un buon augurio per l’anno che viene.

Aggiornamenti. Secondo la questura gli evasi sarebbero 21, sui 35 che hanno provato a riprendersi la libertà.
Alcuni uomini avrebbero provato invano ad aprire le sezioni delle donne, la polizia ha usato idranti, ma ne è stata a sua volta vittima, quando un immigrato se ne è impadronito, riuscendo ad innaffiare diversi poliziotti. Il ragazzo che si era fatto male scavalcando si è spezzato entrambe le gambe: è stato rilasciato con foglio di via.

Ascolta la testimonianza di un recluso del CIE in diretta con radio Blackout

Leggi una prima rassegna stampa

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Torino. Contro pogrom razzisti e stragi fasciste

Torino 17 dicembre. Siamo alle Vallette, il quartiere popolare, che ha i suoi emblemi in quella discarica sociale che è carcere e nel nuovo stadio della Juve, dove le tensioni sociali si stemperano tra tifo e ginnastica ultrà.
In questo quartiere il 10 dicembre si è consumato un pogrom.
Una ragazzina racconta un bugia, uno stupro mai avvenuto, punta il dito su due rom, i rom che vivono in baracche fatiscenti tra le rovine della cascina della Continassa. In pochi giorni nel quartiere cominciano a girare i soliti volantini anonimi dei “cittadini indignati” che invitano a “ripulire la Continassa”.
Il corteo, in prima fila la segretaria cittadina del PD, Bragantini si dirige al campo. I rom fuggono, la polizia sta a guardare. Partono le molotov che si mangiano tutto.
Sabato 17 al mercato di piazza Montale, e in quello di corso Cincinnato, c’è un volantinaggio di solidarietà con le vittime della barbarie razzista. Tanti si fermano, prendono il volantino, dichiarano solidarietà.
Nel pomeriggio l’appuntamento, organizzato da numerose associazioni antirazziste e gruppi politici, è in piazza Castello per un presidio di solidarietà con i rom della Continassa e con i due africani ammazzati da un fascista due giorni prima a Firenze.
Il presidio si trasforma in corteo spontaneo: alla testa un folto gruppo di senegalesi con due striscioni con i nomi dei due ambulanti uccisi. Tra slogan e musica il corteo si dipana per il centro.
Sul pogrom di Torino ascolta l’intervista a Karim Metref su radio Blackout

Sulle persecuzioni contro i rom, dal “porraimos nazista ai pogrom democratici” ascolta l’intervista a Marco Rossi su radio Blackout

Di seguito il volantino diffuso in piazza dalla FAI torinese:
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No al razzismo della democrazia, per una resistenza popolare antirazzista

L’assalto al campo Rom di Torino, una lucida azione razzista, è l’ultimo episodio di un esclation di violenza. Le leggi ed i provvedimenti razziali hanno dati i loro frutti. L’odio profondo verso i migranti, creato ad hoc da governi e partiti, ha prodotto un nemico ben delineato: la comunità Rom, in passato sterminata dai nazisti e oggi aggredita con le leggi e con il fuoco dai meccanismi della democrazia. Nel 2008 a Ponticelli, vicino a Napoli, l’aggressione ai Ron di via Malibrand fu scatenata dalla falsa accusa ad una ragazza rom. Nel 2007 ad Opera la marcia razzista guidata dai politici della Lega Nord e di An diede fuoco alle baracche e costrinse gli abitanti ad andarsene. Il progrom di Torino è la conseguenza degli appelli delle istituzioni democratiche contro i migranti, i lavoratori schiavi dei campi del Sud e quelli dei cantieri del Nord e delle cooperative dell’hinterland milanese, uomini e donne ricattati dallo Stato per la loro provenienza geografica. E’ bastata la bugia di una ragazza, generata da un costesto autoritario che la obbligava a giustificare i suoi comportamenti, a scatenare la violenza contro coloro che vengono presentati ogni giorno come soggetti di cui disfarsi, sacrificabili per qualsiasi pretesto.
Pochi giorni dopo a Firenze un membro Casa Pound ha sparato contro sei uomini senegalesi che esponevano la propria merce. Due sono morti, Modou Samb e Mor Diop, gli altri quattro gravemente feriti.

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L’anomalia gradiscana

Che il CIE  di Gradisca fosse particolare rispetto agli altri lager lo abbiamo detto più volte negli articoli di questo blog. Due recenti novità non fanno che rafforzare questa convinzione.

Iniziamo dalle novità sulla gestione. E’ quasi un anno infatti che la gestione affidata alla Connecting People viene continuamente prorogata senza che ci si capisca una granchè. Quello che è certo è che in corso una “guerra” all’ultima carta bollata per aggiudicarsi la grossa torta in palio che vede in campo la Connecting People, la Gepsa (il colosso transalpino che aveva vinto in prima istanza la gara d’appalto per la gestione delle due strutture sino al 2014, salvo però vedersi congelare l’aggiudicazione definitiva per alcuni elementi di irregolarità emersi nelle credenziali delle imprese italiane a esso collegate (le romane Cofely Italia e Sinergasia e la siciliana Acquarinto) e la Cooperativa Minerva (il vecchio gestore della struttura). La gestione alla Connecting è stata prorogata fino a fine febbraio, per un totale di un anno di proroga. Non ci risulta che una cambio di gestione in un Cie sia mai stato più sofferto, senza contare che periodicamente vengono fuori problemi legati al ritardo nel pagamento degli stipendi dei dipendenti che lavorano all’interno.

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Parma: nuova occupazione abitativa

Il 19 novembre la “Rete diritti in casa” ha occupato un palazzo in Borgo Poi, angolo via Imbriani. All’interno sono entrate sei famiglie, con cinque bimbi e una donna incinta.

Quest’occupazione è solo l’ultima in ordine di tempo, una lotta che va avanti da anni e che vede in città numerose occupazioni a scopo abitativo.

Ascolta l’intervista a Radio Blackout.

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Trieste. Studenti indignati contro i CIE

Da un paio di settimane la protesta degli studenti (soprattutto medi) che – assieme a vari solidali – si sono accampati per giorni prima in piazza Unità e poi in piazza della Borsa sta facendo notizia. Sul piatto oltre a varie rivendicazioni classiche (ma particolare importanza ci pare abbia la lotta contro le telecamere nelle scuole) ci sono anche temi più generali: contro le banche, per una partecipazione politica reale, contro il debito, contro il TAV, per gli spazi autogestiti ecc. Per un’analisi su prospettive e limiti di questa lotta rimandiamo all’articolo in uscita su Umanità Nova. C’è stato invece uno sviluppo interessante sul fronte delle lotte antirazziste. Uno dei primi striscioni comparsi in piazza Unità  era un secco “no racism” assieme ad una bandiera antifascista. Da ieri gli universitari hanno messo in campo un’iniziativa concreta: è stata occupata la biblioteca generale e si stanno organizzando pranzi sociali a prezzi popolari per boicottare la mensa gestita dalla Sodexo. A contribuire alla decisione è stata la notizia – nota solo a pochi – che la Sodexo fornisce i pasti in diversi CIE.

10  novembre. Aggiornamento
Ieri sera nuova cena sociale di boicottaggio della Sodexo e assemblea. Diversi interventi al megafono informano sul ruolo della Sodexo nella gestione delle mense di Cie e carceri. Per oggi sono previste nuove iniziative e volantinaggi.

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Torino. Come bufali impazziti

Sabato 1 ottobre. Nel prato di fronte al CIE di corso Brunelleschi l’atmosfera è serena. Se non fosse per quel muro, mille volte segnato da graffiti di libertà, mille volte cancellati e mille volte rifatti, sarebbe un pomeriggio come tanti in quest’estate tardiva.
C’è una settantina di persone: antirazzisti di un po’ tutte le aree, giovani immigrati che le gabbie le hanno assaggiate, famiglie, specie peruviane venute a sostenere la lotta di Ysmael, un attivista molto noto anche al di fuori della sua comunità. Ysmael è rinchiuso in una delle gabbie e da settimane si sta battendo perché la sua vita è a Torino e non la vuole lasciare. Il 27 settembre hanno provato a caricarlo su un aereo diretto a Lima. Pareva l’epilogo scontato della vicenda ma Ysmael ha cominciato a gridare, a divincolarsi, finché la sua protesta ha attirato l’attenzione del pilota, che gli ha fatto la domanda più ovvia, gli ha chiesto se voleva partire per il Perù. Di fronte al suo diniego ha ordinato di farlo sbarcare: i poliziotti non hanno potuto fare altro che ricondurlo al CIE, nella cella di isolamento nella quale ha trascorso buona parte della sua prigionia.
Il presidio di sabato è un segnale di solidarietà che mette insieme tanta gente diversa, accomunata dalla volontà di chiudere i CIE, di dare sostegno alla lotta di tutti i reclusi, in questi mesi sempre più forte in ogni angolo d’Italia.
Che gli uomini in divisa siano maldisposti lo si capisce sin dal primo momento: controviale bloccato dalle camionette, antisommossa schierati con casco e manganello, funzionari in fascia tricolore, quella che, almeno a Torino, mettono solo per poter dichiarare legittima una carica.
Musica, interventi, slogan. Niente altro.
Il pretesto lo fornisce un cucciolo di cane, un quattro zampe impertinente che non ha ancora capito che ci sono limiti che non è salutare valicare. Il cucciolo attraversa la strada, si dirige verso gli uomini in divisa, una ragazza lo rincorre gridando “vado a prendere il cane!”. I gentiluomini in divisa fanno partire qualche insulto, qualcuno risponde. Poi calano i caschi e partono.
Sembravano “una mandria di bufali impazziti” scriverà il giorno dopo una donna. Ha una mano gonfia: sin è guadagnata una manganellata quando ha sporto il braccio nel vano tentativo di fermare un poliziotto che si stava accanendo contro il figlio di 15 anni, che, come lei, era seduto nel prato. Al pronto soccorso al ragazzo metteranno il collare e daranno 7 giorni di prognosi.
I feriti sono numerosi. Una compagna viene colpita ripetutamente alla testa, si ripara con la mano e si aggiudica una frattura scomposta al mignolo. Gli altri hanno sul viso e sul corpo i segni dei colpi ricevuti.
Un folto gruppo di antirazzisti viene caricato per centinaia di metri lungo via Monginevro, affollata di auto e bus, come in ogni sabato pomeriggio. Solo all’angolo con corso Montecucco i funzionari richiamano la forza.
In questura devono aver deciso. Basta presidi solidali davanti ai CIE: i prigionieri devono restare isolati, come i tunisini rinchiusi nelle navi-prigione dopo aver incendiato il centro di contrada Imbriacola.
Diciamolo chiaro. A questi picchiatori in divisa, dopo quattro mesi rinchiusi nella gabbia di cemento e filo spinato alla Maddalena di Chiomonte, qualche soddisfazione bisognava pur darla. In Valsusa i manganelli, i calci in faccia, lo scricchiolar d’ossa sinora glielo hanno potuto concedere solo a piccole dosi. Gas sparati ad altezza d’uomo, qualche sasso dall’autostrada ma nulla più. In via Grattoni sanno che la Valsusa è una polveriera e non hanno il coraggio di scatenare i bufali.
Le rivolte e le fughe degli immigrati si stanno moltiplicando in tutta Italia, spezzando reti e rompendo le gabbie. A Torino il 22 settembre si sono ripresi la vita in 22.
La voglia di libertà brucia le frontiere, simboliche e reali messe a guardia di un ordine feroce. Spezzarlo è una scelta morale ben prima che politica.
Ormai lo stanno imparando anche i cuccioli di cane: c’è un lato sbagliato della strada, quello che corre lungo i muri cinti di filo spinato, difesi da uomini armati e cattivi.

Domenica 2 ottobre. In serata c’è agitazione tra le gabbie del CIE. L’Ansa parla di un tentativo di fuga, bloccato dalla polizia. Un immigrato colpito al viso da un candellotto lacrimogeno sparato come un proiettile è stato ricoverato all’ospedale Martini.

Giovedì 6 ottobre. Ysmael e diversi altri vengono deportati.

Aggiornamento.  Venerdì 7 ottobre.
Molto partecipato il presidio al CIE di Torino indetto dal Collettivo Anarchico Studentesco Torinese. Circa un centinaio di persone all’ora di pranzo si sono ritrovate nei giardinetti di Corso Brunelleschi di fronte al CIE, tra loro molti erano studenti provenienti dal classico corteo studentesco autunnale. Per molti studenti era la prima volta davanti alle mura e alle gabbie del centro, davanti al confine tangibile che divide uomini che possono liberamente circolare e uomini a cui questa libertà è negata. Un presidio molto rumoroso scandito da musica, grida e battiture verso gli immigrati imprigionati nel centro.
A nemmeno ad una settimana di distanza dalle cariche al presidio di sabato 1 ottobre gli antirazzisti torinesi hanno voluto dare una risposta forte alla questura, riprendendosi l’agibilità politica dei presidi sotto il CIE e ribadendo che sotto quel muro ritorneranno finché non sarà abbattuto.

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Palermo. Navi-prigione per nuovi appestati

È proprio vero che al peggio non c’è mai fine. Dopo i fatti di Lampedusa, dopo quel naufragio dell’umanità che ha portato a una guerra civile fra immigrati e abitanti dell’isola e alla conseguente espulsione di tutti i tunisini, il governo italiano sta mettendo in atto un’operazione inaudita, degna dei peggiori regimi dittatoriali.
In queste ore, settecento immigrati che si trovavano a Lampedusa sono stati trasferiti e si trovano attualmente stipati e detenuti su tre navi ancorate al porto di Palermo: “Moby Fantasy” e “Audacia” di Grandi navi veloci, e la “Moby Vincent”. Il molo Santa Lucia è letteralmente blindato. Sono 650 gli agenti delle forze dell’ordine impiegati in questo internamento concentrazionario su quelli che, burocraticamente, sono definiti “centri di raccolta galleggianti”.
L’obiettivo è quello di rimpatriare a poco a poco tutti gli immigrati, ma la cosa agghiacciante è che le autorità stanno cercando di nascondergli come stanno realmente le cose. I telefonini dei migranti sono stati tutti sequestrati per evitare ogni contatto con l’esterno e scongiurare possibili rivolte a bordo delle navi. Nel frattempo, il governo di Tunisi tiene duro, e le operazioni di rimpatrio stanno subendo un evidente rallentamento.
Sulle navi le condizioni igieniche sono ai limiti della tollerabilità umana e la tensione cresce di ora in ora. Non dovrebbe più stupire nessuno, ma vale la pena di ricordare che tutto questo avviene al di fuori di ogni minima garanzia legale. Le detenzioni non giustificate da un provvedimento di un giudice sono contrarie al più elementare ordinamento giuridico democratico, così come sono legalmente vietate le espulsioni di massa. E invece, a Palermo, il governo italiano tiene segregate settecento persone su tre navi al porto, come se fossero appestati in quarantena, in attesa di disfarsene il prima possibile.

Domenica 25 settembre ore 17 presidio al porto di PalermoAggiornamento. A Linosa una novantina di tunisini sbarcati negli scorsi giorni, preoccupato per l’aria che tira si è presentato al porto con un’idea chiara: salire sul traghetto che stava arrivando carico di viaggiatori e provare a proseguire il viaggio. Dopo un lungo tira e molla con il traghetto che stazionava senza attraccare, i passeggeri sono sbarcati e i tunisini sono saliti a bordo. A Porto Empedocle li aspettava un comitato di accoglienza che ha spiegato loro a gesti che il viaggio era finito.
Leggi in merito il pezzo di Zancan sulla Stampa

28 settembre. Una delle navi-prigione, forse la Moby Fantasy, è partita alla volta di Cagliari: i circa 200 tunisini che si erano reclusi sono stati trasportati nel CPA di Elmas. La Moby Vincent, con a bordo un centinaio di immigrati si è spostata alla volta di Agrigento; resta nel porto di Palermo la Audacia. Gli antirazzisti palermitani hanno fatto presidi ed un corteo spontaneo contro le prigioni galleggianti, le espulsioni di massa, le frontiere.
Ascolta l’intervista rilasciata a Radio Blackout da Alberto La Via, del gruppo anarchico Failla di Palermo e Trapani.

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Torino. Fuga dal CIE

Giovedì 22 settembre. La notte scorsa i prigionieri del Centro di Identificazione ed espulsione di corso Brunelleschi hanno tentato una fuga di massa. La seconda in meno di un mese.
In contemporanea hanno tentato di abbattere le porte delle recinzioni delle varie sezioni. In parecchi hanno scavalcato dall’uscita secondaria di corso Brunelleschi.
Alcuni ce l’hanno fatta, altri sono stati riacciuffati. Secondo La Stampa on line hanno riconquistato la libertà in 22, mentre altri 7 sono stati tratti in arresto con l’accusa di resistenza e lesioni.
Durante la notte, alcuni abitanti affacciati al balcone di corso Brunelleschi gridavano ai poliziotti “almeno questi li avete ripresi”.
Come in videogame. Un gioco feroce dove si smarrisce l’umanità.
Oltre quelle gabbie ci sono uomini e donne. Chi lo dimentica è complice.

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Lampedusa. I semi dell’odio

Giovedì 22 settembre. Dopo aver bruciato la gabbia che li rinchiudeva 1300 immigrati hanno trascorso la notte all’aperto. Mercoledì 21 si sono mossi in corteo gridando “Libertà! Libertà!”. Un gruppo ha preso della bombole del gas minacciando di farsi saltare: alcuni isolani li hanno presi a sassate, i ragazzi hanno risposto. La polizia li ha caricati e pestati selvaggiamente. Un video mostra i poliziotti che picchiano i tunisini obbligandoli a saltare un muro alto tre metri.
Il sindaco De Rubeis che non ha esitato a minacciare violenze definendo “delinquenti” i rivoltosi, ha raccolto i frutti avvelenati della sua propaganda d’odio.
Un tunisino è stato ferito gravemente e trasferito con l’elisoccorso in ospedale a Palermo.
Secondo quanto riferisce il Gazzettino vi sarebbero stati alcuni tentativi di linciaggio da parte di gruppi di lampedusani inferociti. Anche la troupe di Sky e quella della RAI avrebbero subito attacchi da parte di alcuni isolani.
Maroni è corso ai ripari iniziando i trasferimenti. Undici immigrati sono stati arrestati e rinchiusi nel carcere di Agrigento con l’accusa di incendio, danneggiamento e resistenza a pubblico ufficiale.

Di seguito la cronaca di mercoledì 21 curata da TAZ laboratorio di comunicazione libertaria
I fatti di Lampedusa suscitano rabbia e amarezza. È successo quello che era prevedibile e che, per certi versi, è stato voluto a tutti i costi.
Più di mille persone concentrate in uno spazio ristretto e senza un motivo comprensibile non possono che perdere la testa. Per la gran parte tunisini, gli immigrati del CPSA di Lampedusa sono destinati a essere rimpatriati. Ma negli ultimi giorni, il consolato tunisino ha tirato il freno a causa del raggiungimento del tetto massimo di trasferimenti. I tempi lunghi della detenzione e la stessa prospettiva di essere rispediti in un paese oggettivamente insicuro per via della transizione politica del dopo-Ben Alì, hanno acceso la miccia dell’esasperazione. Martedì 20 settembre gli immigrati prigionieri a Lampedusa hanno
dato fuoco al centro di “accoglienza” distruggendolo completamente. Dopo di che, si sono riversati in paese cercando in qualche modo di manifestare il loro dissenso per una condizione che è davvero inaccettabile. Così come è inaccettabile l’ipocrisia di tutto questo sistema che faceva dire al ministro della difesa La Russa, solo pochi giorni fa, che a Lampedusa tutto va bene e che gli immigrati non hanno niente di cui lamentarsi. Poi, come succede in tutti i campi di internamento per stranieri, una volta finita la visita ufficiale di questa o quell’autorità, i pasti serviti tornano a essere la solita schifezza, e le false premure di sbirri e inservienti ridiventano insulti e botte.
A Lampedusa è successo quello che non doveva succedere: scontri tra immigrati e popolazione locale. Forse è il primo caso eclatante di scontri razziali in Italia. Pare che alcuni tunisini prima abbiano fatto irruzione in un ristorante della zona del porto per poi minacciare di far saltare in aria delle bombole del gas, di quelle che si usano in cucina. A quel punto, il fronteggiamento con i lampedusani si trasforma in battaglia: gli isolani attaccano gli immigrati a sassate, gli immigrati rispondono, uomini si scagliano contro altri uomini. Poi la polizia carica gli immigrati, e ci sono immagini che mostrano l’accanimento vigliacco contro una folla con le spalle al muro che sfugge alle manganellate buttandosi da un’altezza di tre metri. Non tanto, forse. Ma quanto basta per farsi davvero male in una situazione di panico generalizzato.
Disgustosa, come sempre, la figura di Bernardino De Rubeis, sindaco di Lampedusa, che non ha perso occasione di spargere a piene mani i semi dell’odio parlando di una guerra in atto, e della capacità dei lampedusani di attrezzarsi in tal senso. E infatti, De Rubeis si è dovuto asserragliare nel suo ufficio, sorvegliato da agenti di polizia, perché all’esterno alcuni compaesani volevano prenderlo a sberle. Perché? Non perché sia un personaggio impresentabile; non perché sia stato indagato e arrestato per concussione; non perché fino a qualche mese fa aveva accolto in pompa magna Berlusconi reggendogli il gioco nelle sue sceneggiate propagandistiche. I lampedusani vogliono la pelle di De Rubeis perché, secondo loro, è stato troppo “morbido” nella gestione del problema-immigrazione. E così, De Rubeis ai giornali ha detto di sapersi difendere, con una mazza di baseball custodita in ufficio.
L’abbrutimento di Lampedusa è il frutto avvelenato della politica del governo italiano che continua a gestire l’immigrazione in maniera folle. Ora, al di là della scientifica criminalità delle leggi liberticide che reprimono i flussi migratori, a Lampedusa i problemi vengono ulteriormente esacerbati e ingigantiti dal pressappochismo, dalla trascuratezza, dalla volontà di rendere impossibili anche le cose semplici.
Nell’esasperazione collettiva di Lampedusa, la strada della solidarietà umana viene abbandonata in favore della scorciatoia razzista e rabbiosa. E non sappiamo quanto tutto questo possa essere davvero recuperato, stando così le cose.

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Cie di Gradisca. Si naviga a vista

“Cie di Gradisca. Si naviga a vista” Così scrivono i giornali locali in questi giorni. nonostante un’estate tranquilla il fuoco continua a covare sotto le ceneri. 
Nella notte tra domenica e lunedì sette tunisini hanno tentato di darsela a gambe. Il tentativo di fuga sarebbe stato preceduto preceduto da un principio di rivolta sedato dalla polizia con le consuete buone maniere. 
La tentata fuga è avvenuta nella “zona rossa” appena ristrutturata e, quindi, in teoria, avrebbe dovuto essere “sicura”. Il nuovissimo allarme non ha funzionato con grande disappunto dei sindacati di polizia che ironicamente dicono: “Ora gli ospiti scappano in 15 secondi anziché in 7 come una volta”.
Altra nota dolente sono le condizioni della struttura. Se infatti i lavori di sistemazione paiono procedere i dipendenti del consorzio Connecting People lamentano: «Sono mesi che ogni qual volta piove, entra l’acqua e crea dei grossi disagi ma dopo le ultime piogge la situazione si è aggravata: il controsoffitto è caduto a pezzi e il centralino, zona nella quale ci sono varie apparecchiature con presa elettrica, si è completamente allagato, rendendo l’ambiente molto pericoloso». A ciò si aggiungono i continui ritardi nell’erogazione dei salari. E’ stato confermato che il cambio di gestione è congelato a inizio del prossimo anno. Riassumendo: immigrati che si incazzano e cercano di evadere, lavori di ristrutturazione che non paiono servire a nulla, condizioni della struttura pessime, paghe che non arrivano e cambio di gestione bloccato. Il 2011 continua a non essere un buon anno per il CIE di Gradisca. Speriamo che peggiori.
Leggi qui la rassegna stampa di questi giorni.

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A Lampedusa il CIE non c’è più

Martedì 20 marzo. Il fuoco covava sotto la cenere da lunghi giorni. I 1300 reclusi del centro di strada Imbriacola hanno bruciato la loro prigione e sono usciti.
Il fuoco, alimentato dal vento, ha presto distrutto completamente la struttura, mentre il fumo invadeva le strade del paese. Gli immigrati hanno trascorso la notte all’aperto, molti dentro il campo sportivo. Secondo alcuni quotidiani cento tunisini sarebbero già stati trasferiti in altri centri.
Il sindaco De Rubeis ha chiesto l’invio di navi della marina militare per l’immediato rimpatrio, minacciando il ricorso alla forza per cacciare quelli che non esita a definire “delinquenti”.
È la seconda volta in meno di tre anni che il CIE lampedusano viene distrutto dai prigionieri senza carte.
De Rubeis parla di guerra e non sa quanto ha ragione. Dall’inizio dell’anno decine di migliaia di persone sono approdate nell’isola, ben 1674 quelli che non ce l’hanno fatta: chi è morto annegato, chi soffocato nella stiva di un barcone troppo pieno, chi di sete su una carretta alla deriva.
Lampedusa è diventata una prigione a cielo aperto, con un muro di filo spinato a dividere migranti e profughi dagli isolani.
I traballanti accordi con la Tunisia non permettono al governo italiano di rispedire indietro più di trenta clandestini al giorno. I centri, specie dopo il prolungamento a un anno e mezzo della reclusione, stanno esplodendo.
La guerra dichiarata dal governo ai poveri si fa sempre più feroce. Ma la misura è ormai colma.
Da Nardò a Piacenza i lavoratori immigrati si ribellano alla schiavitù, da Roma a Torino, da Milano a Modena, da Gradisca a Brindisi i reclusi nei CIE e nei CARA spezzano le catene e fuggono.

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Parma. Contestata la manifestazione contro il “degrado”

Lunedì 12 settembre il Movimento Nuovi Consumatori aveva promosso un corteo silenzioso in Oltretorrente contro la microcriminalità ed il degrado nel quartiere. Nel documento di indizione gli organizzatori chiedevano più repressione e polizia. Proprio nell’Oltretorrente, dove già si concentrano le “attenzioni” delle forze dell’ordine verso chi ha la sola colpa di essere privo di un pezzo di carta.
Pochi giorni prima, nello stesso quartiere, un ragazzo giovanissimo era stato minacciato e provocato da un carabiniere: solo le pressioni dei compagni accorsi sul posto hanno indotto il militare a cambiare i propri programmi.
Il presidente dell’associazione, molto vicino a Claudio Cavazzini, fascista dichiarato dell’Oltretorrente, consigliere di Allenza Nazionale nel consiglio di quartiere, in prima fila contro la “maleducazione” e per il decoro urbano, sempre descritte con chiaro intento razzista, ha dichiarato che la manifestazione non sarebbe stata politica ma composta solo da cittadini.
Antirazzisti ed anarchici hanno indetto una conferenza stampa, promossa dal gruppo anarchico Cieri e dalla Rete Diritti in Casa, nella quale hanno illustrato i veri problemi del quartiere. Uno per tutti: la tolleranza verso i proprietari italiani che affittano cantine come abitazioni. I compagni hanno ribadito la volontà di smascherare cortei razzisti nascosti sotto il cappello dei cittadini contro la microcriminalità. 
Poi è partito un contro corteo, cui hanno preso parte compagni e compagne di diversi gruppi, che hanno spiegato le ragioni della protesta ai tanti cittadini fermatesi ad ascoltare. 
Più che espliciti gli striscioni della manifestazione dei “cittadini”: “Meno clandestini a Parma”, “Meno stranieri nell’Oltretorrente”: i fascisti Bertoli de La Destra e Cavazzini di Alleanza Nazionale hanno partecipato al corteo. In Piazza Garibaldi, hanno insultato i compagni e le compagne che si trovavano, appena fuori dalla piazza, che hanno gridato forte “fascisti! fascisti!”. 
Le due manifestazioni hanno avuto molto spazio sulla stampa e sulle tv locali che, anche nei giorni precedenti, avevano dato risalto alla protesta degli antirazzisti e degli anarchici.
A fine corteo molte persone si sono avvicinate allo striscione degli antirazzisti che recitava “Sfruttatori, speculatori, razzisti è questo il vero degrado”: c’è stato un dialogo anche se con toni accesi, molti non sapevano di essere accompagnati in corteo da razzisti e fascisti dichiarati.
Due giorni dopo il presidente del movimento Nuovi Consumatori, tal Filippo Greci, ha tenuto a sottolineare che gli anarchici sono stati tutti denunciati dalla Digos.
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Milano. Immigrati ancora su una torre

Neanche un anno fa alcuni immigrati, sulla scia dei fatti di Brescia, salirono sulla torre di via Imbonati a Milano. La protesta prendeva le mosse dalla sanatoria truffa ma presto si estendeva ad altri temi: una lotta per rivendicare libertà e dignità.
Sabato scorso due immigrati sono saliti sulla torre di piazza Selinunte per riprendere la protesta contro la sanatoria truffa. In questo anno e mezzo nulla è cambiato per chi è stato raggirato da padroni e strozzini senza scrupoli, con la speranza di essere regolarizzato.
Di seguito l’articolo che apparirà su Umanità Nova questa settimana.

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Cie di Gradisca: ancora repressione sugli antirazzisti

Mentre all’interno del CIE pare (il condizionale è d’obbligo visto il divieto di usare i cellulari scattato mesi fa) che non stia succedendo molto, all’esterno continua la piccola ma strisciante opera di intimidazione degli antirazzisti. Non è passato neanche un anno dall’assoluzione di 24 attivisti per manifestazione non autorizzata che in questi giorni stanno venendo recapitati dei decreti di condanna con multa pecuniaria a 29 antirazzisti (di un cui decina di anarchici/e) per “inottemperanza agli ordini del questore”. I fatti risalgono al 12 marzo scorso quando in occasione dei 5 anni dall’apertura del lager il Coordinamento Libertario Regionale aveva promosso un presidio con bombardamento sonoro di fronte al CIE. Fu una giornata di lotta molto significativa e partecipata con oltre 200 persone presenti. In quell’occasione la questura aveva imposto pesanti restrizioni all’iniziativa. Dopo sei mesi arriva il conto. Sia ben chiaro, niente di eccezionale, solo 100 euro di multa a testa. Ma il messaggio è chiaro: nessuna iniziativa contro il CIE che superi la testimonianza viene lasciata passare. Non a caso fra i denunciati vi sono appartenenti a tutte le aree politiche che in questi anni si sono battute contro il lager, senza dimenticare le individualità. Fin da prima che il centro fosse aperto gli antirazzisti in regione hanno dovuto affrontare denunce e processi: non saranno certo queste ennesime multe a farli tacere.

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Cie di Gradisca. Slitta ancora il cambio di gestione

In molti CIE agosto è stato un mese particolarmente caldo. Nel lager isontino invece da lunghi mesi non si muove granché.
Il divieto di usare i cellulari ha interrotto i fili comunicativi che permettevano agli antirazzisti fuori di sapere cosa accadeva all’interno. Grazie alle rivolte di inizio anno la capienza della struttura è ancora ridottissima e i lavori di ristrutturazione procedono molto a rilento.
Ma questa non è l’unica anomalia. La gara di appalto tenutasi in febbraio era stata vinta dalla transalpina Gepsa – sede a Parigi – in associazione con Cofely Italia e le coop italiane Acuarinto di Agrigento e Synergasia di Roma ma il cambio di gestione viene rinviato di mese in mese. Dai giornali di ieri si viene a sapere che il passaggio slitta ancora a causa di indagini in corso sul nuovo gestore.

Aggiornamento al 2 settembre
Si apprende dai giornali locali che la gara di appalto è stata congelata dal tribunale di Trieste, per cui, nell’attesa di una decisione definitiva, la gestione del CIE resta al consorzio Connecting People sino a fine anno.

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Torino. Furia d’agosto al CIE

“Noi da qua non scendiamo. L’altra sera la polizia ci ha sparato i lacrimogeni”. È una torrida domenica di agosto, ancora più torrida per i reclusi del CIE di corso Brunelleschi che nella notte sono saliti sul tetto delle aree bianca e blu. Chi parla è un immigrato appollaiato lassù, che spera che i microfoni di radio Blackout possano rompere il muro di silenzio e indifferenza che stringe le maglie delle gabbie che rinchiudono le vite dei senza carte.

Tutto comincia venerdì 19 agosto. Nella notte scoppia una rivolta che investe diverse aree del CIE: vanno a fuoco materassi e suppellettili, un ragazzo si taglia, un altro cerca di impiccarsi. I poliziotti rifiutano di far arrivare le ambulanze e assediano le gabbie. Poi entrano nelle aree ribelli colpendo con i manganelli e gli spray urticanti. Impiegano anche i cani . Alcuni ragazzi vengono feriti. Poi cala una calma tesa, tra le minacce degli uomini in divisa e la rabbia dei prigionieri.

La mattina dopo la protesta riprende: sciopero della fame e battiture. Nella notte molti decidono di salire  sui tetti.
Alcuni antirazzisti fanno un piccolo presidio solidale in serata. Un secondo presidio notturno viene disperso dalla polizia, tra le proteste e le urla degli immigrati sul tetto. Due donne vengono fermate, trattenute a lungo in questura e rilasciate con un bel pacchetto di denunce.
Il solito gruppetto di residenti incarogniti urla contro chi è abbastanza umano da non tollerare che nella loro città vi sia una galera per chi è nato povero.

Domenica 21 nuovo presidio solidale al CIE. Un compagno si guadagna subito un soggiorno di tre ore al commissariato di corso Tirreno per aver provato senza successo a lanciare bottigliette d’acqua agli immigrati sul tetto della sezione blu, quella più vicina alla strada. Dal tetto arriva un messaggio in una bottiglia di plastica: “aiuto e libertà”.
Alcuni residenti si avvicinano e comincia un dialogo meno incarognito del solito.

Il quotidiano “La Stampa” racconta un’altra storia. Per il quotidiano torinese si sarebbe trattato di un fallito tentativo di fuga di messa, seguito da una rivolta con danneggiamenti della mensa dell’area bianca. L’innesco di questo fuoco d’agosto sarebbero state le palline infarcite di messaggi lanciate dagli antirazzisti. Stessa musica nell’articolo del 21 agosto.
Se bastassero gli incitamenti a innescare le rivolte, oggi dei CIE resterebbe ben poco.
Le rivolte, le fughe sono normali in un mondo di gabbie e filo spinato.
Chi si oppone alle frontiere da sostegno ai ribelli e cerca di spezzare il silenzio e le bugie su questi moderni lager della democrazia.

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Caporali alla TNT di Piacenza. Gesconet o Gesco Nord?

Nelle scorse settimane vi abbiamo parlato della lotta dei lavoratori delle cooperative “Stella” e “Vega” impiegati alla TNT di Piacenza.
A quanto ci risultava le due cooperative sarebbero appartenute al consorzio Gesconet. Gesconet ci scrive minacciando azioni legali, perché Stella e Vega non avrebbero nulla a che fare con loro.
Nonostante i modi poco urbani e il dubbio che questi signori, dalla consolidata fama di caporali, facessero i furbi, cancelliamo ogni riferimento al consorzio dagli articoli sulla lotta alla TNT.
Poi, con calma, facciamo le dovute verifiche.
Stella e Vega appartengono al gruppo Gesco Nord, le firme sulle ipotesi di accordo riportano la sigla “Gesco”. La scritta “Gesco Nord” sulla magliette dei lavoratori TNT di Piacenza è pressoché identica a quella che compare nella testata del sito di “Gesconet”.
Tutto si chiarisce da se. Anna Barbati, a nome del gruppo Gesco, dichiara che Gesco Nord si è costituito all’inizio dell’anno e non ha nulla a che fare con Gesconet.
È la stessa TNT a smentire
, forse inconsapevolmente, Barbati: “Gesconet è dentro la Tnt da anni e all’inizio dell’anno ha scorporato il consorzio in Gesco nord e Gesco sud. Le persone all’interno e la dirigenza sono le stesse”.
A questo punto decidiamo di approfondire. Ne vengono fuori delle belle. Circa un anno fa venne aperta un’indagine sul mancato rispetto delle norme di sicurezza nel trasporto di radiofarmaci all’aeroporto di Linate. Neanche a dirlo la logistica era appaltata al gruppo Gesconet.

Malgrado una certa reticenza in gran parte della stampa ufficiale, Gesconet compare regolarmente, a volte solo un accenno, tra i gruppi implicati nel cosiddetto “traffico di clandestini”.
Al di là delle definizioni quello che conta è che Gesconet e i suoi cloni successivi sono “caporali” più o meno legali, che sfruttano all’osso i lavoratori, giocando sulle leggi che rendono ricattabili gli stranieri, specie se privi di permesso di soggiorno.
Il gioco è semplice e brutale.
Spesso in molte cooperative della logistica i soci lavoratori con le carte in regola vengono costretti, attraverso diverse forme di mobbing, a dimettersi. Al loro posto vengono assunti lavoratori con permessi di soggiorno falsi: per loro il licenziamento apre le gabbie del CIE anticamera della deportazione.
Proprio alla Tnt di Piacenza, i primi lavoratori minacciati di licenziamento sono stati quelli cui stava per scadere il permesso di soggiorno che, senza un contratto di lavoro, non avrebbero potuto sottoscriverne un altro.

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Bari. Otto ore di rabbia

Lunedì 1 agosto, Bari palese. È rivolta. Esplode la rabbia degli stranieri “parcheggiati” nel C.A.R.A., il centro per richiedenti asilo di Bari. Attendono, giorno dopo giorno, in un limbo del tutto simile ad un carcere, il riconoscimento dello status di rifugiati.
Dall’inizio dell’anno è iniziato l’iter solo per solo 506 delle 3731 domande presentate a Bari.
Da mesi attendono di sapere se avranno o meno il pezzo di carta, che per la legge, fa la differenza tra esistere e non esistere.
Non ne possono più. Sono stanchi del silenzio, della mancanza di risposte, dell’impossibilità di spostarsi altrove, di costruirsi una vita, di cercare un lavoro che non sia la schiavitù riservata a chi non ha diritti da far valere.
In 200 scendono in strada all’alba. Prima incendiano materassi e suppellettili nel centro che, nonostante le porte aperte, somiglia sin troppo ad una gabbia.
Otto ore di rabbia. Occupano la stazione e bloccano il traffico sulla statale, gridando “libertà. La polizia risponde con lacrimogeni e manganelli.
Due giorni dopo era prevista la riunione di una commissione tecnica cui avrebbe partecipato anche il sottosegretario Mantovano: loro miravano a far pressione per ottenere il permesso per motivi umanitari.
Mantovano, dopo la rivolta, annuncerà l’istituzione di una seconda commissione per sveltire le procedure ma – al tempo stesso prometterà “tolleranza zero”.

Il bilancio della giornata è pesante: una ventina di manifestanti feriti e 28 arrestati.
Intanto i media parlano di un’indagine volta a svelare una regia nazionale delle rivolte. Negli stessi giorni nei CARA del sud serpeggia la rivolta da Mineo a S. Anna di Capo Rizzuto, dove la sera stessa i richiedenti asilo scendono in strada, bloccando la statale 106 jonica. La polizia carica e due manifestanti vengono arrestati.
I media parlano di “infiltrati”, sostenendo che la rivolta era “troppo” ben pianificata e si era dimostrata la conoscenza di “tattiche di guerriglia”.
Come sempre, per chi ha il potere e per i tutori dell’ordine costituito, l’azione diretta autorganizzata è qualcosa di difficile da mandare giù.

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Trapani. In piazza contro il razzismo

La sera di sabato 23 luglio i cittadini e i numerosi turisti che in questi giorni d’estate affollano il centro storico di Trapani, si sono imbattuti nel presidio antirazzista organizzato dal Coordinamento per la Pace e dal Gruppo Anarchico “Andrea Salsedo”: una grande gabbia allestita nella centralissima piazzetta Saturno che ha portato fisicamente, e in mezzo alla gente, il dolore e la sofferenza dei Centri di Identificazione ed Espulsione per immigrati.
Da dietro le “sbarre”, i manifestanti hanno parlato al megafono spiegando il senso dell’iniziativa, denunciando la vergogna dei CIE e la presenza di ben tre strutture di questo tipo nel territorio trapanese: il vecchio “Serraino Vulpitta”, la nuova grande struttura di contrada Milo, e la tendopoli di Kinisia. Gli anarchici e gli antimilitaristi trapanesi hanno ricordato che Trapani è una città in guerra, con il suo aeroporto in ostaggio della Nato e dal quale continuano a decollare i caccia bombardieri alla volta della Libia. Di qui la necessità di smilitarizzare al più presto lo scalo di Birgi per liberarsi dalle servitù militari che umiliano il territorio.
Davanti a una folla incuriosita e in alcuni casi solidale, i manifestanti hanno parlato di repressione e pacchetto-sicurezza, del bisogno di giustizia sociale e solidarietà per ricostruire una società fondata sulla libertà e l’uguaglianza, contro le frontiere, il razzismo e la guerra.

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