CIE. Cosa bolle nella pentola del governo?
Riportiamo in questa pagina in costante aggiornamento le cronache e le riflessioni delle ultime settimane sul fronte del CIE, per cercare di capire cosa stia davvero bollendo nella pentola del governo, dopo la campagna mediatica che ha ri-messo al centro dell'attenzione i centri per senza carte, le leggi razziste del nostro paese, la difficoltà del governo a fare fronte ad una spesa enorme, tra gestione dei centri, espulsioni, ristrutturazioni continue dei CIE danneggiati o distrutti dalle rivolte.
Siamo convinti che il governo intenda liberarsi della patata bollente, facendo sì che tutto cambi, affinché tutto resti come prima.
Proviamo a vedere come, andando oltre i toni intollerabilmente melensi dei media.
Iniziative contro il CIE di Gradisca in maggio e giugno
A pochi chilometri da noi a Gradisca d’Isonzo dal 2006 esiste un CIE (centro di identificazione ed espulsione). In questa prigione sono reclusi in condizioni durissime decine di cittadini non dell’unione europea per il solo motivo di non possedere (o non possedere più) un permesso di soggiorno valido. Divieto di leggere, di comunicare con l’esterno, psicofarmaci, privazioni e soprusi di ogni tipo sono pane quotidiano e provocano tra l’altro continui episodi di autolesionismo. Riteniamo importante far conoscere l’esistenza di questi luoghi e le logiche che li governano, promuovendo iniziative di informazione e denuncia. Invitiamo tutti e tutte a partecipare e a contribuire in modo attivo alle iniziative che si terranno nei prossimi giorni: Trieste, sabato 18 maggio dalle 17 in via delle Torri (dietro la chiesa di s.antonio) Pordenone, sabato 18 maggio dalle 17 in p.tta Cavour Udine, sabato 24 maggio al nuovo spazio sociale in viale Osoppo Le iniziative vogliono anche promuovere la partecipazione al presidio regionale che ci sarà sabato 1 giugno nel pomeriggio di fronte al CIE di Gradisca indetto dal Coordinamento regionale contro i CIE.Sabato 20 aprile – Il CIE tra la movida di Torino
ore 19,30 aperibenefit antirazzisti sotto processo ore 20,30 assemblea sui CIE con testimonianze ore 22 presidio antirazzista itinerante per portare il CIE in mezzo alla città. Appuntamento alle 19,30 in largo Saluzzo "Baldacci ti ricordi di Fatih? Croce Rossa assassina!" Questo striscione è apparso lo scorso mese davanti alla villa di Antonio Baldacci, responsabile del CIE di Torino. Fatih era un immigrato tunisino senza documenti rinchiuso nel CIE di Torino. Nella notte del 23 maggio 2008 stava male. Per tutta la notte i suoi compagni di detenzione chiesero inutilmente aiuto. La mattina dopo Fatih era morto. Non venne eseguita nessuna autopsia. Non sappiamo di cosa sia morto Fatih. Sappiamo però che in una struttura detentiva gestita dalla Croce Rossa nessuno lo ha assistito. Due giorni dopo il colonnello e medico Baldacci dichiarerà "gli immigrati mentono sempre, mentono su ogni cosa". Parole che ricordano quelle degli aguzzini di ogni dove. Il 2 giugno 2008 un gruppo di antirazzisti si recò a casa Baldacci per un "cacerolazo". Si batterono le pentole davanti alla sua casa, si distribuirono volantini, si appesero striscioni. La protesta di persone indignate per una morte senza senso. Oggi quella protesta è entrata nel fascicolo del processo contro 67 antirazzisti, che lottarono e lottano contro le deportazioni, la schiavitù del lavoro migrante, la militarizzazione delle strade. I 67 attivisti coinvolti nel processone sono accusati di fare volantini, manifesti, di lanciare slogan, di dare solidarietà ai reclusi nei CIE, di contrastare la politica securitaria del governo e dell'amministrazione comunale. L’impianto accusatorio della procura si basa su banali iniziative di contestazione. L'occupazione simbolica dell'atrio del Museo egizio - 29 giugno 2008 - per ricordare l'operaio egiziano ucciso dal padrone per avergli chiesto il pagamento del salario; la contestazione - 17 luglio 2008 - dell'assessore all'integrazione degli immigrati Curti, dopo lo sgombero della casa occupata da rom in via Pisa; la giornata - 11 luglio 2008 - contro la proposta di prendere le impronte ai bambini rom di fronte alla sede leghista di largo Saluzzo; la protesta - 20 marzo 2009 - alla lavanderia "La nuova", che lava i panni al CIE di corso Brunelleschi… ma l'elenco è molto più lungo. Decine iniziative messe insieme per costruire un apparato accusatorio capace di portare in galera un po’ di antirazzisti. Nel CIE di Torino negli ultimi due mesi si sono susseguite le lotte e le rivolte. Tutte le sezioni del CIE sono state gravemente danneggiate. In febbraio la polizia ha pestato, gasato gli immigrati in rivolta dopo un fallito tentativo di fuga. Sei sono stati arrestati. Nonostante la repressione le lotte non si sono fermate. Per evitare la deportazione qualcuno si taglia, altri salgono sul tetto. Il CIE è quasi inagibile. In alcune sezioni gli immigrati dormono su materassi gettati in terra. La scorsa settimana tutti i reclusi, ormai solo 47, hanno fatto uno sciopero della fame di due giorni. Per la libertà. Nei CIE le lotte, le fughe, la gente che si taglia per sfuggire all'espulsione da lunghi anni sono pane quotidiano, come quotidiana è la resistenza di chi crede che, nell'Italia dei CIE, delle deportazioni, dei morti in mare, ribellarsi sia un'urgenza che ci riguarda tutti. Per questa ragione non accetteremo che le lotte di quegli anni vengano rinchiuse in un’aula di tribunale: porteremo le nostre ragioni nelle strade di questa città, continueremo a portare il CIE per le strade di Torino. Antirazzisti contro la repressione Ti ricordi di Fatih?Mercoledì 27 febbraio – processo agli antirazzisti
Mercoledì 27 febbraio prima udienza del processo a 67 antirazzisti torinesi
La Procura mette in scena un processo alle lotte.
Si vuole ad ogni costo ottenere condanne per togliere di mezzo compagni e compagne che in questi anni hanno lottato contro le leggi razziste del nostro paese, in solidarietà ai senza carte rinchiusi nei CIE, agli immigrati/schiavi.
I 67 attivisti coinvolti nei due processoni sono accusati di fare volantini, manifesti, di lanciare slogan, di dare solidarietà ai reclusi nei CIE, di contrastare la politica securitaria del governo e dell’amministrazione comunale. In altre parole sono accusati di avere idee scomode, che si traducono in scelte politiche scomode.
Se sperano di spaventarci si sbagliano.
In questi anni le iniziative di opposizione al razzismo, alle politiche securitarie, al militarismo allo sfruttamento si sono moltiplicate sul territorio.
L’urgenza politica e morale di allora è la stessa di oggi.
Ma l’indignazione non basta. Bisogna mettersi di mezzo.
Rompere il silenzio sugli orrori quotidiani dei CIE, opporsi alle deportazioni forzate, agli sgomberi delle baracche, ai militari nelle strade, allo sfruttamento dei più poveri.
Porteremo il loro processo nelle strade di questa città!Sabato 2 marzo – Portiemo il CIE nel salotto della città! – presidio antirazzista
Il 27 febbraio e cominciato il primo di due processi agli antirazzisti che, tra il maggio del 2008 e il maggio del 2009, attraversarono l'esperienza dell'Assemblea Antirazzista Torinese.
La lotta contro i CIE ha segnato alcuni momenti importanti di quell'anno ed è oggi un fronte sempre più caldo di resistenza al razzismo di Stato nella sua concreta, quotidiana, materialità.
La morte di Fathi, un immigrato tunisino lasciato senza cure nell'allora "nuovo" CPT di Torino, fu il banco di prova di una relazione politica ancora embrionale.
La lotta che ne seguì fece da catalizzatore per quelle che seguirono.
Oggi le protesta di fronte alla casa del colonnello e medico Antonio Baldacci, responsabile per la Croce Rossa militare della struttura detentiva di corso Brunelleschi, è entrata nel fascicolo del processo.“Il CIE nel salotto della città”
Il 2 marzo con un presidio itinerante per il centro cittadino porteremo quella storia negata e dimanticata in mezzo alla città.
Appuntamento alle 15 in piazza Castello.
Sabato 23 febbraio punto info solidale con gli antirazzisti sotto processo
Sabato 23 febbraio punto info sul processo a 67 antirazzist*
a Porta Palazzo - sotto i portici all'angolo con corso GiulioRompere il silenzio
Negli ultimi vent’anni il disciplinamento dei lavoratori immigrati è stata ed è tuttora una delle grandi scommesse dei governi e dei padroni, che puntano sulla guerra tra poveri per spezzare il fronte della guerra di classe.
Nel nostro paese è stata costruita una legislazione speciale per gli immigrati, persone che, sebbene vivano in questo paese, devono sottostare a regole che ne limitano fortemente la libertà.
Chi si oppone alle politiche e alle leggi discriminatorie e oppressive nei confronti degli immigrati entra nel mirino della magistratura.
Tre anni fa la Procura giocò la carta dell’associazione a delinquere ed arrestò sei antirazzisti. Il teorema non resse in Cassazione ma la Procura voleva comunque mandare alla sbarra l’Assemblea Antirazzista torinese.
Oggi la Procura mette in scena un processo alle lotte. In due atti.
Il primo atto va in scena il 27 febbraioArance amare – mostra itinerante per i mercati di Torino – 26 gennaio 2013
Le arance, i mandarini, le clementine che fanno mostra di se nei mercati di Torino, sono state raccolte da lavoratori stagionali, che vengono pagati 50 cent alla cassetta di arance, 1 euro per cassetta di mandarini. Ogni cassetta pesa una media di 18/20 chili. In una giornata di lavoro la media arriva a 25 euro. In nero, non tutti i giorni ma solo quelli che il caporale ingaggiato dai padroni decide di sceglierti. Se alzi la testa, se reclami per i ritmi o per la paga, puoi anche andartene, perché nessuno ti chiamerà più.
I media ci raccontano di migrazioni epocali, di emergenze continue per giustificare le condizioni di vita indecenti di questi lavoratori. Per loro non ci sono tende o gabinetti funzionanti quando arrivano nella piana di Gioia Tauro per la raccolta degli agrumi. Di affittare una casa non se ne parla nemmeno: a Rosarno o a San Ferdinando una stanza costa come nel centro di Milano o Roma.
In realtà basterebbero pochi soldi per mettere su strutture decenti, basterebbero liste publiche per tagliare fuori i caporali, basterebbe che chi guadagna, e bene, sul lavoro degli stagionali, ci mettesse qualcosa del suo per garantire loro un letto e una doccia. Invece no. Così le tendopoli scoppiano subito, circondate da baracche fatte di lastre di amianto e teli di plastica, così per i bisogni ci sono buche a cielo aperto.
Quella dell'emergenza è una bufala che ci raccontano perché è più facile immaginare una fame tutta africana, che vedere la realtà. La realtà è fatta di operai del nord che hanno perso il lavoro e vengono a fare la raccolta per rimediare un salario, la realtà è fatta di richiedenti asilo che attendono da oltre due anni la risposta che consentirebbe loro di andare via, di cercarsi un lavoro stabile. La guerra in Libia è finita da due anni, ma i profughi di quella guerra vivono ancora in un limbo apolide.
Se vedessimo la realtà vedremmo che la condizione degli africani di Rosarno è ormai la condizione di tanta parte dei lavoratori italiani. L'unica emergenza è quella quotidiana di uno sfruttamento senza limiti, perché per i padroni non conta il colore delle pelle, ma quello dei soldi.
Le arance che mangiamo sono sempre più amare.Sabato 26 gennaio mostra itinerante e volantinaggio nei mercati delle zone popolari di Torino.
Appuntamento alle 9,30 in corso Palermo 46 - per info: 338 6594361Frontiere d’Europa. 30 nuovi centri di detenzione in Grecia
Grecia. Il ministro della protezione civile M. Chrysohoidis, ha annunciato ieri l'apertura di trenta nuovi centri di detenzione per immigrati in collaborazione con il ministero degli esteri.
Il ministro si è incontrato con i governatori di dieci province greche per verificare la loro disponibilità ad ospitare i centri. Ha anche fornito assicurazione che l'Unione Europea si è impegnata a versare 250 milioni di euro per i prossimi tre anni.
Per ciascuno dei centri sarà istituito un apposito presidio di polizia di almeno 150 agenti oltre a 70 guardie private, ogni 250 immigrati detenuti.
Secondo il piano presentato ogni centro sarà diviso in quattro sezioni, in ciascuna delle quali saranno rinchiusi 250 immigrati. Ognuno dei nuovi lager "ospiterà" 1000 senza carte, per un totale di 30.000 prigionieri.
La Grecia si candida così al ruolo di paese cuscinetto tra i paesi più ricchi dell'Unione e le aree di emigrazione. Un avamposto di frontiera, ben pagato per il servizio reso.-
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Lampedusa. Sul confine della vergogna
Mercoledì 30 marzo. Oggi a Lampedusa è arrivato anche Berlusconi. Camicia nera, demagogia e promesse. Adesso che c’è lui tutto andrà a posto. Finora “non aveva le idee chiare” ma ora sa cosa si deve fare e lo sta facendo. Sgombero dell’isola, pulizia, rimpatri, agevolazioni fiscali e anche la candidatura al Nobel per la Pace. Su questo scoglio di frontiera la neolingua del premier chiama pace la guerra. Intanto la premiata ditta gabbie e polizia è all’opera. Tendopoli miserabili, e la minaccia dei rimpatri. Sempre che il governo di Tunisi sia in grado di mantenere gli impegni presi con Maroni e Frattini e di incassare il premio pattuito.
Vale la pena leggere la cronaca e l’analisi dalla Sicilia di Taz, laboratorio di comunicazione libertaria.
Alla fine ci sono riusciti. Con le rivolte del Nordafrica e con lo scoppio della guerra dichiarata dalle potenze occidentali alla Libia, l’aumento degli sbarchi di immigrati e profughi nell’isola siciliana di Lampedusa è servito al governo italiano per non gestire una situazione che si è trasformata, inesorabilmente, in una emergenza. Nel momento in cui scriviamo, le presenze di immigrati a Lampedusa hanno superato le 6.000 unità. Davvero una quantità considerevole se si pensa che i lampedusani residenti sono, abitualmente, cinquemila. In realtà, il vero problema è un altro, e cioè le condizioni inumane nelle quali il governo ha abbandonato al loro destino gli immigrati e, insieme a loro, la popolazione autoctona. Per giorni e giorni il governo ha indugiato nel predisporre un piano sostenibile per un’accoglienza decente e per la progressiva evacuazione dell’isola, e così – a fronte di una oggettiva intensificazione degli sbarchi – non si è provveduto a un contestuale decongestionamento di Lampedusa. Una volontà politica criminale che discende direttamente dalla generale impostazione repressiva delle leggi in materia di immigrazione in Italia. L’emergenza-Lampedusa rappresenta un quadro, grottesco e realistico nello stesso tempo, della pericolosità sociale di chi sta governando il paese. A Lampedusa gli immigrati sono stati dapprima stipati nel Centro di prima accoglienza, pieno fino all’inverosimile (1.500 persone), altri 450 nella ex base Loran, 420 nelle strutture ecclesiastiche, e ben 4.000 nella stazione marittima, nell’area del porto e sulla “collina della vergogna” dove essi stessi hanno improvvisato un accampamento. Si tenga presente, giusto per fare un esempio, che a Lampedusa per alcuni giorni 2.000 immigrati non hanno mangiato perché la cooperativa che gestisce il Centro è abilitata a fornire un massimo di 4.000 pasti. Inevitabili le proteste dei migranti, e altrettanto inevitabile la reazione rabbiosa dei lampedusani: dapprima i blocchi del porto con la volontà di non fare attraccare più alcun barcone, e poi l’occupazione dell’aula consiliare del Comune in segno di protesta. A fare da sfondo a tutto questo, il radicato sentimento di frustrazione della popolazione isolana, di fatto costretta a subire le scelte dissennate del governo centrale. Il conflitto si sta consumando, pur nella sua fisiologica ritualità, anche a livello istituzionale, con la Regione siciliana – presieduta dal governatore Lombardo – che ha denunciato le mancate promesse da parte del Ministro dell’Interno Maroni in direzione di una distribuzione degli immigrati su tutto il territorio nazionale. D’altra parte, quel galantuomo di Umberto Bossi ha sbrigativamente liquidato l’argomento auspicando che gli immigrati se ne vadano «fuori dalle palle» il prima possibile.
Infatti, dopo che l’emergenza è stata creata ad arte, il governo ha giocato un’altra, incredibile, carta: le tendopoli. Tredici siti di proprietà demaniale (per lo più di origine militare) sarebbero stati individuati in tutta Italia per allestire accampamenti destinati alla “sistemazione” dei migranti (il governo ci ha già abituati a questo genere di provvedimenti sull’onda delle “emergenze”). Ancora una volta però, sembra che siano solo la Sicilia e il Sud a dover sostenere il peso di questa strategia terroristica del governo. Le tendopoli in fase di allestimento potrebbero contenere 800 persone ciascuna, e si trovano a Manduria (in provincia di Taranto), a Caltanissetta (vicino al Centro di identificazione ed espulsione) e a Kinisia, vicino Trapani. In quest’ultimo caso, si tratta dell’area dell’ex aeroporto militare, a pochissima distanza dall’attuale base militare di Birgi (da dove partono i Tornado italiani che fanno la guerra in Libia). L’ex aeroporto di Kinisia si trova in aperta campagna, è un edificio diroccato e abbandonato, e la tendopoli sarà montata sulla pista e in tutta la vasta area circostante. Anche qui, la popolazione locale ha già dato segni di pericolosa insofferenza bloccando i mezzi dei vigili del fuoco per impedire la realizzazione dell’accampamento. I trapanesi che vivono nella tranquilla periferia rurale della città non vogliono gli immigrati “per non fare la fine di Lampedusa”, “perché abbiamo paura”, “perché temiamo per i nostri bambini”. Reazioni scomposte e irrazionali che si aggiungono alla rabbia per il danno economico derivato dalla forzata (prima totale poi parziale) chiusura dell’aeroporto civile a seguito dell’inizio delle operazioni di guerra. Al di là di questa brutta piega che stanno prendendo gli eventi, non si può ignorare come la Sicilia occidentale si confermi un terreno di inaudita sperimentazione repressiva sulla pelle degli immigrati. A Trapani ci sono già un Centro d’Identificazione ed espulsione (Cie) e un Centro richiedenti asilo, entrambi colmi. E poi c’è il nuovo Cie di contrada Milo, in fase di ultimazione.
Dall’altra parte dell’isola, c’è il “Villaggio della solidarietà” (ex residenza dei militari Usa di Sigonella) a Mineo, in provincia di Catania. Anche in questo caso, l’approssimazione si è accompagnata a un innalzamento ingiustificato della tensione e dell’ingestibilità. Adesso quello di Mineo è ufficialmente un Centro per richiedenti asilo (CARA), era stato concepito per trasferirvi i rifugiati già presenti in tutti i Centri italiani, ma poi – con l’emergenza – ha finito con l’ospitare anche alcuni immigrati subsahariani appena arrivati a Lampedusa.
Ed è qui che – mentre scriviamo – si aspetta l’arrivo di sei navi (una militare, la San Marco, e altri cinque traghetti) per l’immediata evacuazione dell’isola, dopo settimane di incuria e lassismo. Ma è davvero concreta la sensazione che, in tutta questa vicenda, gli immigrati siano trattati come pacchi postali da ri muovere, deportare e parcheggiare senza alcun criterio di umanità.
All’origine di questo scempio ci sono molti fattori. Le leggi razziste, innanzitutto, che rendono materialmente impossibile la vita degli immigrati marchiati come “irregolari”. Se ci si potesse spostare liberamente, la maggior parte di questi problemi non ci sarebbero. Le persone non sarebbero considerate “extracomunitarie”, né si creerebbero pretestuose distinzioni tra “clandestini”, “profughi” e “richiedenti asilo” con tutta la burocrazia assassina che ne deriva. E poi c’è la situazione internazionale. Non è possibile pretendere che le persone non cerchino di fuggire dalle situazioni di pericolo o di precarietà. Le rivolte nel Maghreb e l’instabilità sociale e politica in Tunisia ed Egitto sono tutti motivi più che comprensibili per emigrare. Infine, non bisogna dimenticare che siamo in guerra. I paesi occidentali hanno scatenato l’intervento militare in Libia, l’Italia si è accodata volentieri in questa impresa scellerata, e adesso si pretende di non avere a che fare con le sue conseguenze disastrose.
Agli anarchici spetta un compito epocale, quello di fare fronte a questa deriva infame. In questa fase la lotta antirazzista non può prescindere da un rilancio dell’attività antimilitarista. In entrambi i casi occorre lavorare nel corpo sociale per arginare gli effetti nefasti del terrorismo mediatico con cui il governo dipinge gli immigrati come pericolosi invasori, descrive l’intervento in Libia come un provvedimento umanitario, impaurisce e distrae l’opinione pubblica costruendo a tavolino le situazioni emergenziali per poi giustificare strette repressive e discriminatorie assolutamente devastanti.
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Il prezzo di Tunisi: 150 milioni di euro
Venerdì 25 marzo. Maroni e Frattini, in visita a Tunisi, hanno fatto un’offerta di quelle che non si possono rifiutare. Un credito sino a 150 milioni di euro più pattugliatori e uomini della Guardia di Finanza per l’addestramento. In cambio il governo tunisino ha promesso di fermare le partenze verso l’Italia. Nel pacchetto sottoscritto dal premier Essebsi anche un impegno per i rimpatri.
Vi ricorda niente? Il governo italiano fece con il governo libico un accordo del tutto simile.
I libici a dire il vero offrivano il servizio completo: respingimenti, galere, abbandono nel deserto.
Ne sanno qualcosa i profughi di guerra eritrei rinchiusi per anni nelle prigioni di Misurata e di Brak. Chi volesse rinfrescarsi la memoria sul quell’accordo se lo può rileggere sul sito della Camera dei deputati.
È significativo che sinora non siano approdati a Lampedusa i fantomatici profughi libici, mentre da ieri le agenzie battono la notizia di un barcone con trecento eritrei forse disperso in mare. Sarebbero i primi profughi di guerra ad arrivare in Italia dopo l’accordo italo-libico.
Chi sa? Forse la crisi libica ha riaperto la rotta del Mediterraneo.
Sarebbe interessante sapere se i pattugliatori donati dal governo italiano alla Libia siano ancora in azione sulle coste della Tripolitania. In settembre, quando uno di questi mezzi aprì il fuoco su un peschereccio di Mazara del Vallo, a bordo c’erano sei uomini della Guardia di Finanza. Saranno rientrati in Italia o sono ancora lì, fianco e fianco con le guardie del Colonnello?
Sapremo nelle prossime settimane se governo tunisino sarà in grado di mantenere gli impegni presi con Maroni e Frattini – incassando così il proprio compenso – o dovrà fare marcia indietro. Se il vento delle recenti rivolte soffia ancora potrebbe non essere facile.
Un fatto è certo: i conti non tornano. Se le cifre diffuse dal ministero dell’Interno sono vere, se negli ultimi due mesi e mezzo sono sbarcati 15.700 tunisini, ne mancano parecchi all’appello. Solo una minima parte è stata trasferita nei CIE o nei CARA o nel “residence degli aranci” di Mineo. Tre/quattromila li smisteranno nelle varie regioni nei prossimi giorni.
E gli altri? O le cifre degli sbarchi sono state volutamente gonfiate oppure i tunisini fantasma sono andati ad ingrossare – in Italia e in Francia – le file dei senza carte, che campano lavorando in nero.
Il contrasto dell’immigrazione illegale è il pedaggio da pagare ad un elettorato cresciuto nell’odio e nella paura dei “clandestini” e, allo stesso tempo, il mezzo per disciplinare i lavoratori stranieri. Con o senza carte.
Padroni e padroncini ringraziano per l’arrivo di carne fresca da mettere al lavoro. Senza tutele, senza orari, senza pretese.
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Torino. Braccio di ferro
Torino, 25 marzo. Dopo la distruzione dell’area verde del CIE gli immigrati hanno passato le ultime due notti nel cortile, senza possibilità di lavarsi. Nell’area blu dopo l’incendio di alcuni materassi, oggi due immigrati sono stati arrestati. La tensione resta alta. La questura pare decisa ad applicare la linea dura, obbligando chi brucia le stanze a restare nelle strutture ormai inagibili.
Una sorta di braccio di ferro per vedere chi molla prima.
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Restinco. Fiamme, repressione e una gola tagliata
Restinco, 21 marzo. Sono inagibili buona parte delle camerate del CIE brindisino, teatro di una rivolta scoppiata nella notte tra lunedì 14 e martedì 15 marzo. Buona parte delle camerate sono state investite dalle fiamme: per bloccare i tunisini protagonisti della sommossa, la questura ha dovuto inviare, oltre ai vigili del fuoco, anche poliziotti dell’antisommossa e della digos.
I giornali danno notizia dell’incendio che ha distrutto il CIE solo sabato 19 marzo.
Gli immigrati sono stati ammassati nella sala mensa. Anche qui, è il modello Gradisca che fa scuola.
Lo dimostra la mancata chiusura del centro annunciata nei giorni scorsi da numerosi giornali. Il capo di gabinetto della prefettura, Erminia Cicoria, dice testualmente: “Restano lì dove sono”. Una chiusura momentanea del Centro salentino non è al momento in agenda.
Nella tarda serata di domenica 20 marzo un ragazzo tunisino si è tagliato la gola, dopo una discussione molto animata con l’ispettore del centro, che lo aveva preso di mira, con amenità del tipo “mi scopo tua sorella”. L’ambulanza venuta a soccorrere il ferito è stata mandata indietro dal medico del CIE. Il ragazzo si troverebbe ora in infermeria. Gli altri reclusi hanno annunciato uno sciopero della fame.
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CIE di Gradisca. Rivolta e fughe
Lunedì 21 marzo. Non è durata a lungo la quiete al CIE. Ieri un gruppo di prigionieri avrebbe tentato la fuga. Il sequestro dei cellulari impedisce da tempo i contatti diretti e, quindi, il condizionale è d’obbligo.
Secondo le agenzie sei immigrati sono riusciti a far perdere le proprie tracce mentre sette sono stati arrestati. In serata altri quattro o cinque sarebbero saliti sul tetto ma sono stati obbligati a scendere.
Oggi a Gorizia ci sarà una riunione del comitato per l’ordine e la sicurezza, che discuterà anche del CIE di Gradisca. Da ormai quasi un mese i cento reclusi del CIE sono accampati nelle aree comuni del Centro, ormai quasi completamente distrutto dalle continue rivolte ed incendi.
Intanto nel vicino CARA sempre più forte è il timore che da un giorno all’altro i richiedenti asilo vengano deportati a Mineo.
Aggiornamento del 22 marzo: da quel che si apprende dai giornali di oggi la rivolta e la fuga di domenica sono state di ben più ampie di quanto era stato fatto trapelare in un primo tempo. Anzi. Le stanze ancora in piedi dopo le sommosse di fine febbraio sono state danneggiate ulteriormente.
Brutte notizie invece dal fronte del CARA, pare certo che questa notte tre richiedenti asilo siano stati deportati a Mineo.
Dentro i reclusi sono preoccupati ma decisi a resistere.
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Torino. Incendiata l’area verde del CIE
Lunedì 21 marzo. L’area verde del CIE di corso Brunelleschi è stata gravemente danneggiata da un incendio. Intorno alla mezzanotte i reclusi avrebbero dato alle fiamme materassi e suppellettili. Secondo quanto riferito da quotidiani ed agenzie il fuoco avrebbe reso inagibili tre su cinque moduli abitativi. I reclusi, secondo l’ormai collaudato “modello Gradisca” non sarebbero stati trasferiti altrove ma ammassati nell’area mensa. A poco più di venti giorni dalla rivolta del 28 febbraio, quando andò in fumo la sezione gialla, il CIE torinese torna ad infiammarsi.
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Milano. Cinque tentati suicidi
Nella notte tra sabato 19 e domenica 20 al CIE di via Corelli a Milano ci sarebbero stati ben cinque tentativi di suicidio. Tre hanno bevuto detersivo e sono stati male, altri due avrebbero cercato di impiccarsi. Pare che ora tutti stiano bene. Forse i cinque speravano di essere liberati o di riuscire a fuggire. Forse la disperazione di vedersi negato ogni futuro è diventata contagiosa in una serata di inizio primavera. Continua a leggere
Trieste, immigrati e antirazzisti in piazza
Il Comitato Primo Marzo di Trieste, dopo il presidio del primo marzo fatto in barba alla bora a 150 chilometri l’ora, ha rilanciato l’iniziativa con due giornate di lotta intorno a due piazze tematiche.
La prima si è svolta nella mattinata del 17 marzo all’incrocio fra due centralissime vie pedonali.
La scelta della data non è stata casuale, in quanto si voleva far vedere alla città, nel giorno delle celebrazioni per l’unità d’Italia, quale Italia si stia festeggiando. L’Italia dei CIE e delle deportazioni. L’Italia in guerra che aumenta di anno in anno la spesa militare. Ma non solo, perché le questioni affrontate nelle piazze tematiche si sono allargate alla sanatoria truffa e al razzismo di stato.
Hanno partecipato varie decine di immigrati e antirazzisti. Tantissimi i volantini e il materiale informativo distribuito. Inoltre i cartelloni e gli striscioni hanno attirato l’interesse di molti passanti, che si sono avvicinati al banchetto dei libri e hanno lasciato sottoscrizioni.
Il prossimo appuntamento è per il primo aprile. Al centro di questa nuova piazza tematica scuola, lavoro, sfruttamento, schiavismo, sanatoria-truffa…
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Gradisca. Stato d’assedio
Sabato 12 marzo. Un imponente schieramento di polizia attende gli antirazzisti, che hanno risposto all’appello del Coordinamento Libertario contro i CIE, per una giornata di lotta e solidarietà.
Sono passati cinque anni dal giorno che il primo “ospite” venne spinto tra le mura dell’ex caserma Polonio dalle truppe dello stato. Fuori vi furono cariche, manganellate e lacrimogeni.
L’avevano progettato con cura, il lager isontino. Letti, tavoli imbullonati, poche suppellettili, mura e sorveglianza. Speravano di prevenire fughe e rivolte. Si sbagliavano e di grosso.
Non si contano più le fughe, le rivolte, le proteste, spesso finite tra botte e deportazioni.
Oggi del CIE non resta quasi più nulla. Gli incendi appiccati dai reclusi a fine febbraio hanno mandato in fumo le ultime camerate rimaste. Nonostante ciò il ministero dell’Interno mantiene aperta la struttura: dentro i reclusi sono in terra, senza materassi, con un solo bagno, privati dei cellulari.
Il giorno prima della manifestazione c’è stata la vista al CIE e al CARA del Comitato parlamentare Schengen, Europol ed Immigrazione. I parlamentari – due democratici e un leghista – vengono accolti da un immigrato che si taglia e sanguina davanti a loro. La delegazione conclude che il CIE deve essere chiuso e “messo in sicurezza”.
Tutti gli antirazzisti che arrivano per la manifestazione vengono fermati e controllati a lungo. Nonostante ciò oltre duecento compagni e compagne si ritrovano davanti al lager.
Sulla recinzione i richiedenti asilo del CARA hanno appeso un cartello “CIE=CARA”. Oggi gli ospiti del CARA sono prigionieri: li hanno chiusi dentro nonostante sia loro riconosciuto il diritto di uscire durante il giorno. 150 sequestri di persona decisi dalla questura per impedire ai ragazzi del CARA di partecipare alla manifestazione. Ma loro si fanno sentire lo stesso: chiamano gli antirazzisti, dicendo loro che il “bombardamento sonoro” è perfettamente riuscito. Sentono la musica e i tanti interventi solidali e gridano forte la loro rabbia.
Dal CIE non esce nulla. Probabilmente, dopo la protesta sul tetto dello scorso lunedì, il cortile è loro nuovamente interdetto. Sono dentro circondati dalla celere di Padova.
Vengono lanciate oltre il muro numerose palline con la scritta “libertà – freedom”.
In barba ai numerosi divieti della questura i manifestanti piazzano banchetti, cibo, ampli e presto la manifestazione deborda in strada: la provinciale viene bloccata per oltre tre ore.
I settori più moderati vorrebbero che una delegazione entrasse nel CIE, ma, dopo un lungo tergiversare, arriva secco il no della questura. La situazione dentro deve essere anche peggiore di quella mostrata dalle foto filtrate fuori dal CIE prima del sequestro dei telefonini. Nessuno deve vedere, nessuno deve raccontare la vergogna che si cela dietro quelle mura.
Le mura di un lager democratico. Continua a leggere
Cie di Gradisca: provocazioni della questura per il presidio di domani
La questura di Gorizia si allinea a quanto già accade in altre città dove gli antirazzisti lottano per la chiusura dei centri per senzacarte, imponendo pesanti prescrizioni all’iniziativa contro i CIE di domani.
Molto pesante è la limitazione di orario (solo fino alle 19 mentre il programma prevede(va) fino alle 24).
Qui puoi leggere l’ordinanza.
Una ragione in più per accogliere l’invito del Coordinamento Libertario Regionale per questa giornata di lotta.
A cinque anni dall’apertura, tra botte e lacrimogeni, del CIE, l’ex caserma Polonio è ormai a pezzi, distrutta dalla rabbia dei reclusi. Ma il governo lo tiene aperto, obbligando i cento reclusi a dormire e mangiare a terra. Come cani. Continua a leggere
Tra Sicilia e Libia. L’invasione che non c’è e quella che potrebbe
Il governo italiano manda l’esercito in Sicilia, per fronteggiare l’invasione che non c’è – qualche migliaio di tunisini non sono un esodo. Semplicemente molti approfittano di un’occasione che potrebbe non ripetersi più. La via chiusa dagli accordi per i respingimenti in mare tra il governo italiano e quello libico sono saltati, dopo la rivolta in Cirenaica.
Di seguito il comunicato di TAZ laboratorio di comunicazione libertaria
C’era da aspettarselo. Il prefetto di Palermo, commissario del governo per l’emergenza immigrazione, ha annunciato l’invio dell’esercito a Lampedusa. Cento militari presidieranno l’isola siciliana per supportare, con compiti di polizia, le forze dell’ordine. L’esercito a Lampedusa dovrebbe essere operativo a partire dal 16 marzo, ma questa data non è ancora sicura. Quel che è sicuro è che la militarizzazione della Sicilia non si ferma qui: altri cinquanta soldati saranno mandati a Mineo, in provincia di Catania, dove entro questa settimana dovrebbero cominciare ad arrivare i richiedenti asilo provenienti da tutta Italia e che saranno portati nel Residence “Villaggio degli aranci”, una struttura utilizzata in passato dai militari Usa della vicina base di Sigonella.
L’invio dell’esercito in Sicilia per “affrontare” gli immigrati è davvero una delle mosse più vergognose che questo governo potesse mettere in campo.
D’altra parte, si continua a parlare della crisi in Nordafrica solo in termini catastrofisti agitando lo spettro di un’emergenza che non c’è. Non sapendo che pesci prendere (così come il resto dei paesi occidentali, tutti spiazzati di fronte la crisi libica), il governo preferisce dare in pasto all’opinione pubblica la solita sbobba fatta di paura, allarmismi e paranoia sicuritaria. È vero: nelle ultime settimane gli sbarchi si sono intensificati a seguito delle rivolte in Tunisia, ma è del tutto ingiustificato parlare di “invasione” specialmente in riferimento alla Libia. Nessun libico, infatti, è approdato sulle coste siciliane in questi giorni convulsi.
Intanto in Libia, tra gli oppositori al regime di Gheddafi serpeggia il timore di un’invasione vera di truppe statunitensi e italiane. Su Fortresse Europe un’interessante corrispondenza telefonica da Tripoli e Zawiyah.
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CIE di Gradisca: reclusi sul tetto
Lunedì 7 marzo. Era solo questione di tempo. Inevitabile che la rabbia dei prigionieri di Gradisca esplodesse di nuovo. Da giorni dormono per terra, ammassati in cento negli spazi comuni di una struttura ormai inagibile dopo le rivolte di fine febbraio. Il sequestro dei telefonini li ha privati di ogni contatto con l’esterno. Nonostante abbiano inviato a Gradisca la celere di Padova gli immigrati hanno comunque trovato il modo di farsi sentire.
Oggi all’ora di pranzo alcuni di loro sono saliti sul tetto. I pochi antirazzisti della zona non mancano di tenere d’occhio il lager: quando li hanno visti hanno fatto girare la notizia. Più tardi i reclusi sono scesi.
La prefettura, rispondendo alle domande dei giornalisti, ha sostenuto che non si è trattato di un tentativo di fuga, ma di una protesta contro le condizioni inumane di vita. I reclusi non possono nemmeno lavarsi e devono fare la fila per andare al gabinetto.
Il CIE è una polveriera. La tensione resta alta mentre si avvicina la manifestazione davanti al CIE del 12 marzo indetta dal Coordinamento Libertario Regionale.
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CARA di Gradisca. Verso la deportazione di massa a Mineo?
Venerdì 4 marzo. I segnali ci sono tutti. Ai richiedenti asilo del CARA di Gradisca sono stati tolti accendini e i telefoni cellulari dotati di fotocamera o videocamera. Se qualcuno non vuole farsi sequestrare l’apparecchio i poliziotti rompono l’obiettivo.
Il CARA della cittadina isontina è limitrofo al CIE, ormai inagibile dopo le rivolte della scorsa settimana, dove tuttavia sono ammassati come bestie un centinaio immigrati senza carte.
Maroni non vuole mollare ma sa bene che la situazione è diventata insostenibile.
La via d’uscita per il ministro leghista potrebbe essere proprio il CARA di Gradisca, prontamente svuotato dei suoi ospiti, e pronto per una rapida riconversione a CIE. Il Centro per richiedenti asilo può ospitare sino a 150 persone.
Ma non solo. L’accordo per l’utilizzo come CARA del residence Aranci di Mineo è ormai stato concluso con buona soddisfazione della ditta Pizzarotti e del governo italiano. Il residence “Aranci”, già utilizzato dai militari statunitensi di stanza a Sigonella, è già stato riconvertito da militare e civile. Fonti varie sostengono che a Mineo il nuovo CARA potrebbe presto aprire i battenti.
Dello stesso avviso gli attivisti della “Tenda per la pace e i Diritti di Gorizia”, che scrivono: “Al CARA si applicano le stesse regole del CIE. Trasferimenti in vista?
Il divieto dell’utilizzo e della detenzione di accendini significa costanti perquisizioni ad ogni ingresso nella struttura nei confronti di richiedenti asilo che, ricordiamo, secondo la legislazione italiana e le direttive europee, non possono essere trattenuti in stato detentivo.
Nel “centro di accoglienza”, inoltre, oltre alle perquisizioni di sigarette e accendini si è inasprito il controllo dei telefoni cellulari con fotocamere e videocamere. Eventuali proprietari di queste tecnologie hanno la libertà di scelta fra il sequestro dell’apparecchio o il danneggiamento dell’obiettivo da parte delle autorità preposte al controllo. Un bel colpo secco sulla telecamera. Si tratta di modalità piuttosto strane di dimostrare accoglienza.
Si stanno forse già implementando le prime misure del piano del Ministro dell’Interno per far fronte all’incremento degli ingressi dal Nord Africa? Al termine del consiglio dei ministri, Maroni ha annunciato che il Consiglio ha dato “il via alla realizzazione del Villaggio della solidarietà a Mineo”, in una struttura privata di proprietà della Pizzarotti S.p.A. Secondo il governo italiano, il supercentro di Mineo, farà da “modello di eccellenza in Europa nell’accoglienza dei richiedenti asilo”. Il modello prevede il trapianto dei richiedenti asilo attualmente ospitati nei Cara e dunque dislocati in diverse località italiane nella residenza siciliana, completamente isolata da ogni centro abitato dei dintorni ma attorno alla quale già si stanno costruendo sistemi di recinzione e di videosorveglianza…”
Agli antirazzisti il compito di attivarsi affinchè questo agghiacciante piano di deportazione non avvenga
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CIE di Torino. Ancora in sciopero della fame
Sabato 5 marzo. Al CIE di Torino, dopo la rivolta che ha mandato in fumo la sezione gialla, i reclusi sono in sciopero della fame da ormai cinque giorni.
La maggior parte di loro proviene dalle città costiere della Tunisia, dove si campa soprattutto di turismo. L’insurrezione che ha portato alla cacciata di Ben Alì e, la scorsa settimana, del suo successore Gannouci, ha messo in ginocchio l’economia di queste zone. Da qui l’esodo verso l’Europa. Molti contano di raggiungere in Francia parenti ed amici: qualcuno ce l’ha fatta, altri sono stati rinchiusi nei CIE, come quello di corso Brunelleschi. Tra loro, a quanto riferisce l’Unità, c’è anche un minorenne, che non l’ha dichiarato perché teme di essere separato dai propri amici.
Intanto ai valichi di frontiera tra l’Italia e la Francia si sta giocando una partita a ping pong dove le palline sono esseri umani rimbalzati da un lato all’altro del confine. Un confine ormai cancellato che torna ad innalzare le proprie barriere di fronte a uomini in fuga dalla miseria.
I trenta ragazzi rinchiusi nel CIE di Torino sono decisi a resistere: molti di loro hanno partecipato alla rivolta contro Ben Alì, assaporando il gusto della libertà, un gusto cui non sono disposti a rinunciare tanto facilmente. Non capiscono perché proprio a loro tocchino sei mesi in gabbia e poi la deportazione. Il governo italiano non sa che pesci prendere, teme perdere consensi e si muove a casaccio.
Dei tanti approdati a Lampedusa dalle coste tunisine alcuni ottengono asilo, ad altri viene dato il foglio di via e provano a saltare la frontiera con la Francia, altri ancora, come i trenta nel CIE di Torino, si guadagnano un soggiorno gratis dietro le sbarre.
Alcuni loro amici in Tunisia hanno aperto una pagina facebook dedicata a loro. Si chiama Guntanamo/Italia.
Leggi il bel reportage pubblicato su Fortresse Europe.
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Primo marzo a Trieste
Le piazze del primo marzo triestino dovevano essere quattro ma la bora a 150 chilometri l’ora rendeva quasi impossibile uscire di casa. Nonostante il tempo inclemente in molti fra migranti e antirazzisti/e solidali si sono ritrovati in via delle Torri, per la manifestazione organizzata dal comitato Primo Marzo di Trieste. Nelle altre tre piazze ci sono stati distribuiti volantini ai pochi passanti infreddoliti.
Non sono mancanti gli interventi, fra cui quello della Tenda per la Pace e i Diritti di Monfalcone, che ha paventato il rischio che i richiedenti asilo ospitati nei vari CARA possano essere trasferiti in Sicilia, nell’area dell’ex base NATO.
Molto coinvolgente l’azione teatrale sul rapporto CIE/prigione, preparata per il primo marzo.
Per tutti l’appuntamento è sabato 12 marzo a davanti al CIE di Gradisca.
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Primo Marzo a Reggio Emilia e Parma
“La dignità non ha colore”, “il rispetto non ha confini”, “abbattere le gabbie aprire le frontiere”, “rompere le gabbie”, “sicurezza o stato di polizia?”, “nei cie la polizia strupra, nei tribunali lo stato si assolve”. Sono solo alcuni slogan del … Continua a leggere